di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Non è previsto Natale
nel paese più povero del Golfo, attraversato da una delle escalation
militari peggiori degli oltre mille giorni di conflitto già trascorsi.
Le agenzie, tra lunedì e ieri, battevano a ritmo continuo per tenere il
conto dei bombardamenti aerei sauditi e del numero delle vittime in 48
ore di ordinario massacro in Yemen.
Un conto chiuso ieri – temporaneamente – dalla notizia
dell’uccisione di sei contadini a Hodeida, costa occidentale, tra i più
sanguinosi teatri della guerra in corso per la sua importanza strategica
e commerciale. È qui che ha sede il principale porto del
paese, insieme a quello di Aden, a sud, via di transito del greggio
diretto in Europa. Ed è qui che ieri all’alba un raid della
petromonarchia saudita ha centrato una fattoria a Khokhah, lasciandosi
dietro sei vittime.
Nelle stesse ore iniziava il tour regionale dell’inviato speciale delle Nazioni Unite per lo Yemen, Ismail Ould Cheikh Ahmed: a
capo di un team di esperti, doveva atterrare ad Aden, capitale
ufficiosa del governo yemenita in esilio (non è ancora chiaro quanto
forzato) in Arabia Saudita. Raggiungerà nei prossimi giorni (o
settimane) Sana’a, capitale ufficiale, dal settembre 2014 controllata
dal movimento Ansar Allah.
L’idea, dicono fonti interne, è (ri)lanciare un piano di pace,
proporre alle parti un nuovo tavolo negoziale se «mostreranno una
volontà sincera di raggiungere una soluzione politica pacifica». E la
voragine si apre: se l’Onu si attende dagli Houthi un
rallentamento delle rappresaglie contro le forze fedeli al defunto ex
dittatore Saleh prima di mandare a Sana’a il proprio inviato, è a Riyadh
che si deve guardare. È lì, nella capitale saudita, che la volontà
sincera anelata dalle Nazioni Unite pare mancare del tutto.
Lo dimostra il bagno di sangue dei giorni di Natale e Santo Stefano: sarebbero
oltre 70 le vittime civili e una sessantina i combattenti Houthi uccisi
in raid della coalizione sunnita a guida Saud, piovuti su tutto il
paese, su zone residenziali, campi militari e mercati cittadini. Una
famiglia di nove persone, di cui cinque bambini, è stata sterminata a
Sana’a da cinque missili caduti sulla loro casa.
Sempre nella capitale, due edifici nel quartiere di Hay Asr sono
stati rasi al suolo uccidendo undici persone, di cui tre bambini e due
donne; il target era l’abitazione di un leader di Ansar Allah, Mohammed
al-Raimi. Ad Hodeida sono morti otto civili, di cui due donne; a Dhamar
quattro persone.
Bombe anche sui manifestanti scesi in piazza ad Arhab contro
la decisione del presidente statunitense Trump di riconoscere
Gerusalemme capitale di Israele. E ancora 18 morti a Hais, a sud di Hodeida; 35 a Tahita; 50 vittime (secondo la tv al-Masirah,
vicina agli Houthi) e 50 feriti nella città di Al-Ta’iziyeh, provincia
di Taiz (altro epicentro del conflitto), nel bombardamento di un
mercato.
La popolazione yemenita paga il prezzo più alto delle diverse guerre
che si combattono in Yemen. Quella degli Houthi che cercano di ottenere
la partecipazione politica ed economica che i regimi precedenti gli
hanno negato e che Riyadh non intende riconoscergli. Quella per
procura tra Arabia Saudita e Iran, con Teheran che osserva
ufficiosamente in disparte l’incancrenirsi del conflitto voluto dai
sauditi per ridefinire le influenze regionali. Quella dei
secessionisti meridionali, pronti a vestire la casacca più opportuna pur
di limitare l’avanzata Houthi e lavorare a una nuova separazione tra
nord e sud.
E quella di al Qaeda nella Penisola Arabica che sguazza nel vuoto di
potere e mangia territori, un passo avanti e uno indietro, ma ormai
capace di radicarsi facendo leva sui clan locali e le necessità belliche
della coalizione saudita.
Impossibile, in tale scenario, dare torto a Tim Lenderking,
responsabile del Golfo per il Dipartimento di Stato Usa, che pochi
giorni fa ha dato voce alla presunta visione trumpiana della crisi
yemenita: «Non c’è soluzione militare – ha detto – C’è spazio per una
partecipazione politica degli Houthi». Giusto. Peccato che abbia
dimenticato di menzionare l’attivo ruolo militare statunitense nel
paese, il sostegno indefesso al processo di armamento continuo dei Saud e
l’accusa agli Houthi di essere meri proxy iraniani.
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