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“Succede d’estate. Sei al mare. In quei giorni riesci a giocare con tuo figlio. Magari stai su un’isola. Hai iniziato a raccontargli le storie che conosci. Lui come tutti i bambini si fa ripetere sempre le stesse. Ora ce n’è una nuova. Credi che lui la debba assolutamente sapere. Non puoi non dirglielo.
Non tutti arrivano su una spiaggia scendendo da una nave, come è successo a te e a lui qualche giorno prima. Per molti, anche piccoli come lui, quel mare, quella tanta acqua che improvvisamente si trovano di fronte, non è una vacanza. Mette paura. Loro la attraversano ammassati in barche che ondeggiano, anche se il mare è calmo, per quanto sono stipate di persone. Scappano dalla fame e dalla guerra.
Quando arrivano chiedono solo di stare sotto il nostro stesso cielo. Alle volte trovano casa entrando in una delle tante che nessuno usa più, ma che sta ben attento a tenere chiuse. Loro, quelli che arrivano dal mare, le riaprono. Iniziano a fare quello che facciamo tutti. A vivere con noi. Quelli come te, gli dici, vanno a scuola. Questo lui lo sa perché quella loro casa, ora aperta, è tornata a far parte di quella via, di quella piazza. Forse lì vive anche qualche suo amico.
Poi succede che... Roma. È il 19 agosto. I 400 eritrei, somali, etiopi che vivono da tre anni in un palazzo di via Curtatone, all’alba di quel maledetto giorno, vengono scaraventati giù dai letti. Inizia un’altra storia. Quella di chi viene cacciato anche dalla strada, dove è stato gettato, a forza di idranti. «Roma bolle e questo è il terzo sgombero di agosto». Ti senti esplodere. Ti senti maledettamente lontano. Succede nella tua città. Tu vuoi urlare tutta la tua rabbia. Inizi a parlarne con chi hai conosciuto in questi giorni sulla spiaggia, con chi magari «hai condiviso il vino».
Succede che a loro, a questi tuoi nuovi amici, la dignità di quei bambini che, forti dei loro libri e delle loro cartelle, si sono messi davanti la polizia per difendere la scuola di tutti (anche dei figli dei poliziotti) non interessa. Quello che succede intorno l’abitare è oggi il fenomeno più divisivo che attraversa chi la città abita. Così sono in molti magari a sentirsi in dovere di difendere un palazzo che neanche conoscono. Non sono mai entrati lì. Non sanno che ospitava, perché questo nessuno lo ha detto, un carrozzone del potere democristiano che ha prodotto un deficit spaventoso. Neppure una commissione parlamentare d’inchiesta è riuscita mai a conteggiarlo.
Non sanno che quel fallimento ha lasciato sul lastrico centinaia e centinaia di famiglie di agricoltori. Non sanno che quelle catene, che entrando quei 400 hanno fatto saltare, si sono trasferite intorno anche a loro avvolgendoli con la storia, una vera narrazione asfissiante, che le occupazioni sono il veleno della città.
Loro parlano. Non sanno che quel palazzo è in mano alla finanza, che ora è di una banca. La stessa magari che sta stritolando la loro vita. La stessa che chiede di indebitarti fino a che potrai, per poi una volta che non sarai più capace di farlo, buttare te e i tuoi figli in qualche discarica dell’abitare.
Su quella spiaggia, lontano da Roma, quel maledetto giorno c’è Militant A. Lui sa che le catene, anche quelle che sembrano serrate fino a stritolarti come sono quelle mentali, possono essere strappate. Loro lo hanno fatto.
Loro sono: chi occupa quel palazzo di quella piazza inghiottita da un dedalo di strade che la toponomastica paradossalmente ha dedicato ai luoghi della libertà del nostro paese.
Loro sono: le oltre 10.000 persone che vivono nelle occupazioni.
Loro sono: i «bastardi».
Loro «sono gajardi». Si gajardi perché, venendo sotto il nostro cielo, sono riusciti a trovare le parole per dire che il nemico non è tra noi, ma in chi vuole tenerci divisi. Che anche se vivere in occupazione è duro, non sarà venendo deportati in tende di plastica, come si è messa in testa la sindaca di questa città, che si risolve il problema dell’emergenza abitativa. Che la città si costruisce nel mettere in comune le storie di tutti i noi. Nel costruire, a partire dalla vita quotidiana forme di cooperazione sociale basta sulla solidarietà.
Luchino trova così le parole per dire anche a suo figlio che in quel palazzo di questo parlano quei «bambini che scrivono lettere alle loro nonne». Sono loro gli unici a sapere come finirà questa storia: farla finita «con un mondo di soprusi e codardi, sti bastardi so’ gajardi».
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