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19/12/2017

22 dicembre 1947, settant’anni fa: l’Assemblea Costituente vota la Costituzione Repubblicana


22 dicembre 1947: l’Assemblea Costituente approva il testo della Costituzione Repubblicana con 453 voti favorevoli e 62 contrari, dopo 170 sedute di discussione. Il 27 dicembre la Costituzione sarà firmata dal capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola che assumerà il titolo di Presidente della Repubblica, dal presidente dell’Assemblea Costituente Umberto Terracini, dal Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi e dal Guardasigilli Giuseppe Grasso. Il testo entrerà in vigore il 1 gennaio 1948 al momento della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.

Una data da ricordare con grande evidenza in particolare in questa fase storica, dopo che il voto popolare – 4 dicembre 2016 – ha respinto un tentativo di modifica in senso autoritario di alcune norme fondamentali e – a distanza appunto di settant’anni – abbiamo ancora parti del dettato costituzionale non applicate oppure solo parzialmente attuate.

Non solo: abbiamo già verificato modifiche in senso negativo come quella riguardante l’articolo 81 con l’inserimento dell’obbligo del pareggio di bilancio o la pasticciata “deforma”, votata nel 2001, del titolo V riguardante il rapporto tra lo Stato e le Autonomie Locali.

Vale la pena allora ritornare sia pure schematicamente su alcuni punti di riflessione sviluppati attorno al testo della nostra Carta fondamentale.

La Costituzione democratica e la trasformazione dello Stato

La Costituzione Repubblicana è stata scritta, com’è noto, mentre andava rompendosi la solidarietà antifascista e i conflitti crescevano d’intensità su tutti i terreni, schierando le forze politiche e sociali in due campi contrapposti sul piano nazionale e internazionale.

In quel frangente verificatosi all’indomani di una delle più grandi tragedie della storia, le forze politiche rappresentative della società italiana presenti nell’Assemblea Costituente scelsero la strada di ricercare un intento comune definendo l’obiettivo del rinnovamento dello Stato, in linea con l’esito elettorale del 2 giugno 1946, allorché cittadine (ammesse per la prima volta al voto) e cittadini avevano scelto la Repubblica.

Il dato di novità più importante, registratosi subito all’avvio del lavoro del nuovo consesso ed espressosi anche nella composizione stessa della Commissione dei 75 incaricati di redigere materialmente il nuovo testo costituzionale che avrebbe sostituito lo Statuto Albertino, fu rappresentato dal ruolo dei partiti che si presentavano subito come protagonisti di una scena politica profondamente trasformata rispetto al passato.

Nella dialettica tra continuità e mutamento che ha segnato gli anni della formazione dell’Italia Democratica, la Costituzione repubblicana ha rappresentato un elemento essenziale attorno al quale si raccolsero gli altri due momenti fondanti del nuovo periodo della storia italiana: la lotta di resistenza antifascista e la battaglia per la repubblica.

La Carta Costituzionale, è bene precisarlo subito, è stata anzitutto il risultato politico dell’intesa tra i tre grandi partiti di massa, la DC, il Pci e il Psi, che su questo terreno riuscirono a intendersi meglio e procedere in un accordo ben maggiore di quanto non fosse riuscito loro a livello di governo e di confronto politico e ideologico.

Il punto d’incontro fu rappresentato, ed è bene rilevarlo proprio in quest’occasione, dalla concordanza sui principi fondamentali dello Stato repubblicano, ben più articolati e innovativi di quelli posti a fondamento dello Stato liberale.

Lo stato liberale era espressione di una società semplice, non ancora distinta per interessi e partiti organizzati, rappresentata da un ceto politico omogeneo di estrazione largamente proprietaria – borghese: ecco, al di là del proprietario – borghese, ma sotto l’aspetto di un “ceto politico omogeneo” questo è il punto di arretramento al quale intendono portarci adesso i fautori della personalizzazione (primarie e collegi uninominali, presidenzialismo) e della governabilità.

Torniamo però al modello di Costituzione scaturita dall’accordo tra i partiti di massa, nell’intento di superare – appunto – la concezione dello Stato liberale nella sostanza, come “Stato – amministrativo”, nell’avversione verso il principio politico di segno democratico della sovranità popolare.

Nella Costituzione repubblicana del ’48 si era affermata, invece, la funzione centrale dei partiti politici, come strumento per l’esercizio della sovranità del popolo, e non più solo dello Stato come amministratore.

La assegnazione ai partiti di un rango di livello costituzionale attraverso l’articolo 49 (mai completamente applicato, peraltro) ha significato, in sostanza, la scelta di una Repubblica parlamentare come forma di Stato.

Dal concetto di Repubblica parlamentare derivano: la centralità dei consessi elettivi, la limitazione del ruolo del governo, il rifiuto del presidenzialismo. Tutti elementi distintivi che è necessario difendere ancor oggi.

La modifica del sistema elettorale in senso maggioritario, avvenuta nel 1993, l’esasperazione del concetto di personalizzazione della politica hanno messo in discussione questi principi fondativi.

In particolare l’affermazione del concetto di personalizzazione della politica (fittiziamente contrabbandato anche nelle liste elettorali attraverso l’imposizione della designazione – con tanto di indicazione nella scheda – del “Capo della Coalizione” e adesso del “Capo della Forza Politica”).

A questo si è pericolosamente modificata la stessa natura della soggettività politica (già alterata dal mutamento profondo nei meccanismi di comunicazione) al punto da veder affermato il concetto di “partito Personale”.

In questo modo è venuta via via affermandosi una trasformazione nel senso di una sostanziale riduzione nei margini di agibilità democratica, in nome del primato del liberismo economico, del taglio di un presunto eccesso di domanda sociale, di sostanziale riduzione nel rapporto tra politica e società, di affermazione di una “autonomia del politico” fondata su di una separazione basata su veri e propri privilegi di casta.

Al momento della costruzione della Costituzione Repubblicana si era affermato invece il passaggio dallo Stato liberale – borghese (quello cui oggi si tende a voler definitivamente tornare), che non interveniva nella direzione dell’economia e nella regolazione della società e stentava a riconoscere l’organizzazione dei partiti, allo Stato pluriclasse, allo Stato sociale che trovava un momento di realizzazione per quanto parziale e contraddittoria proprio nella tutela costituzionale assicurata ai diritti politici e sociali dei cittadini, visti come persone dotate di autonomia di fronte allo Stato e unite da vincoli di socialità e solidarietà.

Su questo terreno dei principi fondamentali, del riconoscimento costituzionale dei diritti sociali, della funzione centrale dei partiti nella democrazia repubblicana si era determinata un sostanziale convergenza tra i grandi partiti di massa che erano stati protagonisti della Resistenza.

Le espressioni del solidarismo, nelle diverse accezioni cristiana e marxista, rappresentarono il cemento più forte che contribuì a saldare l’intesa costituzionale fra i maggiori partiti e ne rappresentò la base comune per l’inserimento nel testo della Carta fondamentale delle norme a carattere programmatico e dei diritti sociali.

Ma l’accordo tra i partiti di massa, realizzato appunto sui principi fondamentali e sulla centralità dei partiti nel nuovo sistema democratico, si rivelò molto più faticoso da conseguire quando si trattò di definire le forme di organizzazione dello Stato.

Calamandrei scrisse: “il problema dell’organizzazione dei poteri è quello delle forze che governano i meccanismi del potere non sono due problemi distinti: sono tutt’uno e solo un approccio che li affronti assieme appare storicamente corretto e utile”.

Questo approccio “corretto e utile” si affermò solo parzialmente e fu alla base dei ritardi, dei difetti, della sostanziale incompletezza nell’applicazione del dettato costituzionale, nel corso degli anni di tutto il dopoguerra fino alla crisi della “infinita transizione” di fine secolo che si protrae ancora oggi.

Una infinita transizione che pare proprio aver virato di bordo verso l’idea di un vero e proprio ritorno all’indietro, a rapporti politici e sociali di stampo ottocentesco, sia pure mascherati dalle esigenze dell’apparire imposte da novità tecnologiche incentrate quasi esclusivamente sull’indirizzo del formare una “società dell’immagine” le cui espressioni di dominio sarebbero ormai affidate soltanto all’economia e alla tecnica.

“Società dell’immagine” governabile quindi soltanto da una sorta di neo-notabilato, un ceto nel quale l’intreccio dovrebbe realizzarsi tra “autonomia del politico” e “autonomia del tecnologico”: intreccio posto al di fuori da qualsiasi possibilità di intervento e controllo sociale. Con le elezioni ridotte a ratifica della “governabilità”.

La discussione alla Costituente sul tema dell’organizzazione dello Stato era stata avviata nel Marzo del 1947, quando al governo c’era ancora la coalizione tripartitica, e si concluse alla fine di quell’anno quando appariva definito, dopo il Piano Marshall e il Cominform, un sistema mondiale di tipo bipolare.

La Costituzione Italiana, votata il 22 dicembre 1947 e promulgata il 1 gennaio 1948, vide la luce quando era già profondamente mutato il quadro politico e sociale su cui era stata fondata.

Si verificò così il fenomeno cui si è già accennato poc’anzi: lo Stato nuovo, che doveva nascere dall’attuazione di quell’innovativo dettato costituzionale, fu bloccato dal prevalere dello scontro politico e sociale tra le forze che si erano unite nel progetto di costruire una democrazia sociale avanzata dentro un’adeguata cornice istituzionale, che avrebbe dovuto segnare una rottura con il precedente ordinamento statale.

Così non avvenne, se non parzialmente e rimase la necessità di realizzare una effettiva corrispondenza tra le forme istituzionali del potere e forze e rapporti sociali: corrispondenza dalla quale realizzare un effettivo indirizzo politico.

Da quel varco sono passati, nel corso di questa lunga crisi politica e morale, i fautori di una sorta di “Grande Riforma” i cui termini negativi sono già stati ampiamente descritti.

“Grande riforma” di stampo presidenzialista che persiste nelle intenzioni di una sorta di “coalizione dominante” nonostante il risultato elettorale del referendum 2016 allorquando l’idea della verticalizzazione del potere si scontrò, perdendo, con l’orizzontalità della complessa dimensione sociale.

L’idea presidenzialista intesa come accentramento della gestione del potere sta ancora nelle aspirazioni e nei disegni di settori consistenti dell’establishment e delle lobbie tecnocratiche: l’idea, cioè, dello Stato esclusivamente “amministratore”.

Dobbiamo riprendere, quale insegna di una battaglia democratica, quanto i partiti della sinistra espressero nella fase Costituente: l’idea, cioè, di una repubblica fondata sulle Camere (e quindi sulla rappresentanza politica) intese come suprema espressione della volontà popolare e non certo su di un governo espressione di “lobbies” più o meno occulte come ci è capitato di subire nel corso degli ultimi anni, vissuti sempre, sotto questo aspetto, “border line” rispetto alla legalità repubblicana. Una situazione che ha dato spazio prima alla cosiddetta antipolitica, poi addirittura della “inpolitica” ossia assenza di politica testimoniata dal calo verticale della partecipazione, non soltanto elettorale.

A settant’anni di distanza è ancora necessario continuare a battersi per la Repubblica del “Parlamento come specchio del Paese” contro la torbida idea della “Rinascita Nazionale” portata avanti dagli epigoni della P2 di Licio Gelli.

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