In silenzio, secondo il suo stile felpato, il “pacato Gentiloni” ha piazzato una delle “riforme” semi-golpiste che hanno caratterizzato tutta la legislatura guidata dal Pd. Certo, Renzi l’avrebbe sparata forte, ma – rumore a parte – la sostanza è la stessa.
Parliamo del decreto sulle intercettazioni, approvato in via definitiva dal Consiglio dei ministri.
Cosa c’è di semi-golpista? Intanto il metodo. A Camere sciolte dal presidente della Repubblica, il governo prende una decisione che il Parlamento non può discutere, approvare o emendare. E’ il metodo con cui governa l’Unione Europea – ricordiamo sempre che il “Parlamento” di Starsburgo è l’unico al mondo formalmente privo del potere legislativo; dunque porta il nome, ma non è un parlamento – mettendo da parte la solenne “tripartizione dei poteri” che dovrebbe caratterizzare la democrazia parlamentare in regime capitalistico.
Vero è che questo decreto entrerà in funzione soltanto tra sei mesi, ma intanto è stato varato. Se a quella data non ci sarà ancora un governo dotato di maggioranza parlamentare (non lo si può escludere, vista la frammentazione politica esistente), o peggio ancora ci sarà un “governo del presidente”, con tutti dentro, quel decreto diventerà legge dello Stato. Senza mai esser stato approvato dall’organo legislativo.
Una logica semi-golpista anche nel merito. Tra le molte misure messe nero su bianco ce n’è una che espropria il potere giudiziario di una prerogativa fondamentale: la formazione delle prove da presentare in giudizio.
Secondo il decreto, infatti, la polizia giudiziaria assume il potere di decidere quali intercettazioni sono rilevanti ai fini dell’inchiesta e quali no. Finora questo potere era affidato al pubblico ministero, ovvero a un magistrato. Quindi a un potere formalmente indipendente dal governo (potere esecutivo). Inutile qui stare a considerare i diecimila casi di magistrati legati a questa o quella cordata politica, ai “magistrati in prima linea” che hanno spesso surrogato il potere politico nella “guerra” a questa o quella “emergenza”, fino ad arrivare al cortocircuito costituzionale di magistrati che si scrivono le leggi che dovranno poi applicare (compito che la Costituzione affida al Parlamento).
In questa nuova norma, infatti, l’ordine dei poteri viene rovesciato: il governo decide – tramite la polizia giudiziaria, quindi con la filiera di comando agli ordini del ministro dell’Interno – cosa andrà a costituire prova giudiziaria.
Si tratta insomma della sottomissione anche formale delle funzioni giudiziarie – o almeno di una tra le più importanti – al potere esecutivo.
La cosa sorprendente è che nessuno abbia sollevato il problema, che è anche una misura del degrado della cultura politica “democratica” di questo paese. Il presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Eugenio Albamonte, ha colto ovviamente la novità spaventosa – “lo strapotere della polizia giudiziaria nella selezione delle intercettazioni”. Ma la sua critica è stata espressa con una prudenza che la dice lunga sui rapporti di forza oggi in campo, limitandosi a sottolineare aspetti quasi solo tecnici. Per esempio, la norma prevede che le intercettazioni giudicate irrilevanti non vengano trascritte ma “Senza che venga indicato un minimo di contenuto dell’intercettazione ritenuta irrilevante, diventa impossibile un vero controllo da parte del pm. È paradossale che, avendo vissuto da poco il trauma di intercettazioni mal trascritte e gli echi politici e istituzionali che ne sono derivati, si creino le condizioni per ulteriori errori che, diversamente dalla vicenda a cui faccio riferimento, non saranno verificabili ex post”.
Non siamo degli appassionati delle intercettazioni, com’è noto, ma ci sembra rilevante che l’esautorazione di un potere della magistratura avvenga su questo terreno delicato.
Che si tratti di un rafforzamento del potere del governo, quindi di un enorme allargamento dei poteri repressivi è confermato anche dalle critiche sollevati dagli avvocati (solitamente sul fronte opposto dei magistrati, in questa e altre materie).
Rinaldo Romanelli, componente della giunta del sindacato degli avvocati, giudica “estremamente negativo” – per esempio – che i colloqui tra difensore e assistito possano essere intercettati, anche se non trascritti. “Perché cosi quei colloqui non finiranno sui giornali, ma saranno ascoltati dalla polizia giudiziaria”, con la possibilità di mettere a conoscenza anche il pm della strategia difensiva di chi è indagato. Alla faccia della “terzietà” del giudizio... E resta anche “il vulnus di questa riforma: non dare copie agli avvocati di tutto il materiale intercettato. Tanti processi si fanno sulla base delle intercettazioni: ma il 98% per cento del materiale intercettato è irrilevante, non bastano 10 giorni per trovare invece le conversazioni utili alla difesa”. Una ricerca che dunque sarà possibile solo ai grandi studi legali, con tanti assistenti, cui possono ricorrere soltanto gli indagati che possono permetterseli.
A fronte di questa verticalizzazione del potere di indagine, il ministro Orlando prova a cavarsela con le battute sulla privacy: “Abbiamo un Paese che utilizza le intercettazioni per contrastare la criminalità e non per alimentare i pettegolezzi o distruggere la reputazione di qualcuno”. Solo che sarà il ministro di polizia a decidere quali reputazioni saranno da proteggere e quali da indicare come “criminali”. Non proprio un piccolo dettaglio...
Non è soltanto un “decreto salvapolitici” (come finge di aver capito Luigi Di Maio), ma un decreto per salvaguardare tutta la squallida “classe dirigente” italiana. Perché, per quanto “i politici” di oggi siano complessivamente ignobili, lo schieramento degli imprenditori (capitale finanziario e multinazionale compresi) è un teatro dell’orrore.
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