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24/12/2017

Consigli (o sconsigli) per gli acquisti: Umberto Eco e il Pci, di Claudio e Giandomenico Crapis

Con lieve ritardo (il libro è uscito circa un anno fa), leggiamo questo saggio che in realtà introduce e commenta uno scambio intellettuale avvenuto tra Umberto Eco e Rossana Rossanda sulle colonne di Rinascita nell’autunno del 1963.

Il riferimento temporale è decisivo per comprendere il contesto: siamo dentro l’esplosione delle neoavanguardie (Novissimi, Gruppo 63 e dintorni), sull’onda del loro eclettico rapporto con l’operaismo, e nel vortice della crescita elettorale del Pci. C’è fermento insomma, e il rapporto tra politica e cultura è posto all’ordine del giorno delle questioni dirimenti (bei tempi). Lo scambio tra Eco e la Rossanda è solo una tessera di un quadro più vasto, che proprio su Rinascita troverà uno dei luoghi di confronto. Grazie a Mario Spinella, Eco interviene in una discussione che procede già da qualche anno: il comunismo italiano da tempo si domanda del rapporto progressivamente meno organico con il mondo intellettuale. Dagli anni Sessanta queste domande non provengono più solo dall’interno del partito, né solo rinfacciate dalla cultura borghese: ad intervenire, sulla scorta delle trasformazioni sociali del paese, sono una congerie di scrittori, artisti, critici e militanti politici che compongono quella che viene denominata «cultura d’opposizione». Una cultura che utilizza il marxismo come «metodo di critica» ma non più come «concezione del mondo» autosufficiente. Umberto Eco s’incarica di gettare il classico sasso nello stagno, generando un fervido confronto che svela una certa dinamicità del dibattito marxista italiano sul piano culturale, anche dentro il Pci.

Cosa spinge Eco al confronto con l’apparato comunista, lui che marxista in senso compiuto non lo è mai stato? Come ogni intellettuale tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, anche Eco subisce l’urto della cultura marxista: impossibile fare ricerca critica, cultura d’opposizione, senza tessere relazioni col marxismo “ufficiale”. Il Pci è il moloch che traduce le aspirazioni intellettuali in lotte di classe, ovvero in fatti concreti: in altre parole, in politica. E però Eco individua alcuni limiti di fondo dell’approccio culturale del comunismo italiano, limiti che gli impediscono di organizzare un discorso, una visione del mondo, riguardo ad alcune trasformazioni generate dal «neocapitalismo»: istruzione e cultura di massa, stravolgimento dei linguaggi e dei costumi intellettuali, nuovi e pervasivi strumenti mediatici, stanno producendo, secondo Eco, un modo diverso di interagire con i fenomeni culturali, modalità d’interazione che a loro volta trasformano gli stessi fenomeni culturali disponendo una loro evoluzione verso qualcos’altro; avvenimenti sociali che il Pci rischia di derubricare a “questioni secondarie”, disattivando così possibilità di risposta originali del marxismo all’intervento culturale neocapitalista.

Il Pci è incapace, per Eco, di interagire con la massificazione della cultura, di operare una critica positiva che vada al di là della mera condanna in nome dei riferimenti tradizionali. Questo fatto è il risultato di tre difetti congeniti del comunismo italiano. In primo luogo, un mascherato «etnocentrismo» che ha portato il marxismo a scambiare per «valori assoluti» determinati «valori occidentali» di derivazione illuministica. Primo fra i quali, il «feticcio della razionalità», «sbandierato in varie occasioni e che di fatto si riferisce a quel modello di razionalità elaborato dalla cultura europea post-rinascimentale. Su questa base si assiste ad esempio all’impiego indiscriminato della qualifica di “irrazionalistica” applicata a posizioni filosofiche o artistiche». In secondo luogo, «quello che potremmo chiamare il “vizio umanistico”. Si è propensi a lamentare la distruzione di una “immagine dell’uomo” attuata dalle arti o dal pensiero». Ogni innovazione ed evoluzione del linguaggio artistico mette il comunismo in posizione di difesa contro “corruzioni” di un’immagine dell’uomo che però, secondo Eco, essendo un’immagine storicizzata e non metafisica dovrebbe essere suscettibile di conseguenti trasformazioni. Terzo poi, l’approccio «aristocratico-borghese» nei confronti della cultura, un atteggiamento che, nel momento stesso in cui vorrebbe ampliare la platea di chi accede alla cultura, in concreto lotta contro ogni forma di massificazione culturale, che è il prodotto stesso della democratizzazione culturale.

Il risultato è quello di una cultura di massa che sfugge in tutte le direzioni, e un marxismo che si trova sempre più sulla difensiva sul piano culturale perché privo di più adeguati strumenti scientifici per comprenderla e integrarla:
«Una canzone di Mina non può essere giudicata sul metro della poesia-non poesia e neppure alla luce di una immagine classica dell’uomo. Tuttavia per delle masse enormi soddisfa evidentemente delle esigenze. Quali sono queste esigenze? Secondo quale meccanismo le soddisfa? Le soddisfa o sembra soddisfarle? Esisterebbe un modo diverso per soddisfarle? Una volta che fossero state modificate profondamente le strutture della società in cui viviamo, queste esigenze sopravviverebbero?».
Per comprendere la nuova cultura di massa devono utilizzarsi nuovi strumenti di ricognizione:
«Marx ha elaborato la propria interpretazione della storia solo perché erano avvenuti alcuni fatti nuovi: ad esempio, l’invenzione del telaio meccanico e della macchina a vapore. In caso diverso, non sappiamo quale direzione avrebbe preso il corso degli eventi storici, ma indubbiamente l’analisi marxiana, che si esercitava su quei dati concreti, non avrebbe avuto ragion d’essere. L’avvento dei fatti nuovi nel campo della tecnica, tali da mutare l’assetto delle società e la posizione dell’uomo nel mondo, implica una rivoluzione filosofica, un’altra visione dell’uomo e dei valori. Se c’è una lezione del marxismo, è proprio questa».
La soluzione proposta da Eco è quello di sfruttare l’insieme delle nuove scienze sociali nate fuori dal marxismo, anzi, sviluppate al seguito della cultura neocapitalistica, ma che possono essere utili alla comprensione dei suddetti fenomeni:
«Dal momento che uno degli elementi di vitalità del neocapitalismo consiste nel fagocitare, nel “comperare” ogni fenomeno nuovo, fosse pure insidioso, e di ridurlo a eresia vitale del sistema, evidentemente oggi nessun fenomeno sfugge a una simile classificazione. Il neocapitalismo ha introdotto in un circuito mercantile la protesta d’avanguardia, che quindi non ha più la fisionomia e le funzioni che aveva la protesta delle avanguardie storiche, come è stato giustamente notato; ma il neocapitalismo ha assimilato pacificamente nello stesso circuito mercantile anche tutta l’arte che pretende di esprimere una protesta non formalistica ma ideologica e rivoluzionaria».
Visto che Marx stesso utilizzava metodi e strumenti di ricerca mutuati dalle scienze borghesi, nulla vieta, per Eco, di appropriarsene anche oggi, mandando in soffitta il marxismo in quanto «concezione del mondo» conchiusa e, come detto, autosufficiente, entro cui trova soluzione ogni fenomeno umano, per vivificarlo «come metodo di critica che non rifiuti l’apporto di altre tecniche di ricerca».

Prima di riferire la risposta della Rossanda, viene in aiuto alla comprensione della querelle un recente saggio di Domenico Losurdo, Il marxismo occidentale.

Fra le tante cose che Losurdo affronta, una appare decisiva:
«Nell’Occidente capitalistico il marxismo procede slegandosi da una prassi immediata, trasformandosi in coerente filosofia matura in grado di dialettizzare e contaminarsi col pensiero filosofico borghese: il nichilismo nietzschiano, l’esistenzialismo, lo strutturalismo, la psicologia, eccetera. Perdendo la relazione con “l’immediatezza” della rivoluzione, al marxismo occidentale non resterebbe che convertirsi in “teoria critica” dell’esistente, mantenendo i caratteri profetici del marxismo originario, tradotti però in una religiosa attesa messianica, per ciò stesso impotente di fronte al mondo».
Il tono della risposta del Pci – per mano di Rossana Rossanda – può sovrapporsi sintomaticamente alle recenti riflessioni di Losurdo:
«Come sciogliere questa apparente contraddizione, se non assumendo per una concezione scientifica del conoscere la società, per una scienza della società, il momento pragmatico, la coscienza, un asse di valori, il ruolo insomma, della soggettività della classe nella storia? […] Se non intendiamo questo […] non solo perderemo di vista il bandolo della matassa interpretativa della nostra società; ma rischieremo di sentir sempre obiettare da qualche comunista, al rimprovero “Non conoscevi scientificamente la società in cui operavi” “Si dà però il fatto che l’ho trasformata” E questo, a sua volta, che altro significa se non che una certa sintesi marxista, rivoluzionaria, per approssimativa che sia, ha un valore conoscitivo, in realtà, più importante, più profondo che un metodo “scientifico” che tenti di prescinderne? Le “tesi di Lione” ci aiutano ancora oggi a capire l’Italia più della pubblicistica scientifica del dopoguerra del capitalismo italiano […] La rivoluzione non è un accessorio, ormai – se mai lo è stato – della conoscenza del mondo; è, oggi, la conoscenza del mondo».
Il confronto tra Eco e la Rossanda è in realtà quello tra due concezioni del mondo, nonostante lo scrittore piemontese rifiuti di militarne in una determinata. Il marxismo soffre di alcuni buchi teoretici, ma il dato essenziale, che lo rende estraneo alle filosofie borghesi, è quello di essere un pensiero immediatamente traducibile in conflitto. Il marxismo è una filosofia della prassi, un pensiero che attiva processi di soggettivazione a prescindere della sua piena maturità filosofica. Certo «marxismo occidentale», al contrario, ricercando l’ibridazione con altri “strumenti di ricerca”, giungerà forse a una più completa maturità filosofica, al prezzo però di trasformarsi in «teoria critica», confinata per ciò stesso nel recinto della “cultura”, ma incapace di farsi strumento di lotta e di trasformazione. La Rossanda risponde però che non esiste teoria critica migliore della prassi rivoluzionaria, perché solo dentro ai processi di trasformazione sociale è possibile capire la società nel suo complesso e nelle sue più intime implicazioni. Quella che Eco chiama «cultura d’opposizione», in quanto tale suscettibile di interagire con altre culture e teorie critiche, per la Rossanda è la «cultura rivoluzionaria», capace di sincretismo solo con altre culture disposte alla radicale trasformazione della società.

Ancora oggi, Rossana Rossanda aveva ragione e Umberto Eco torto, nonostante l’allarme di Eco fosse tutto fuorché secondario. La Rossanda riconosce infatti come «il Partito da tempo avesse perso la capacità di produrre egemonia, pur esercitando ancora una certa influenza»:
«Da tempo la cultura italiana ci considera una valida, coerente, sollecitante forza di opposizione e insieme l’indispensabile garanzia di mobilitazione a difesa della sua autonomia da ogni insidia illiberale e oscurantista […]. Con noi il cinema, le maggiori case editrici, i gruppi letterari e figurativi discutono di programmi e realizzazioni; la nostra critica li impressiona e li condiziona, la collaborazione è richiesta e talvolta molto agevole […]. Tuttavia è rara la conquista politica esplicita».
In realtà, a dispetto della vulgata anticomunista, negli anni Sessanta la cultura marxista ufficiale è già in crisi. Il rapporto organico tra intellettuale e partito è già un ricordo del decennio precedente, e anche la Rossanda rileva la difficoltà della conquista politica degli intellettuali, che dialogano col partito senza però divenirne organici. Oltretutto, la perdita di aderenza di certe analisi sui nuovi fenomeni di massificazione culturale troveranno il Pci incapace di vero dialogo, di vera critica positiva. La “perdita dei giovani” che avverrà qualche anno dopo è il risultato di una mancata risposta ad un dibattito che pure si era tentato, e che aveva visto confrontarsi il vertice dell’intellettualità marxista italiana (e non solo italiana: nel dibattito suscitato dal saggio di Eco interverrà a gamba tesa anche Althusser).

Valutando l’evoluzione del rapporto tra comunismo ufficiale e cultura, possiamo tranquillamente affermare che il relativismo filosofico proposto da Eco non fosse la soluzione: da un quarantennio abbondante la “sinistra” è divenuta di fatto subalterna al nazionalpopolare borghese, scambiando per “popolare” quello che era solamente frutto di processi di massificazione dall’alto. E’ però vero anche il presupposto contrario: il marxismo ufficiale, portatore di quella «cultura rivoluzionaria» poco disponibile ad ibridarsi, rimase vittima della sterilità politica che la Rossanda rinfacciava ad Eco; viceversa, proprio l’humus culturale in cui militava Eco attiverà processi di mobilitazione culturale e politica sicuramente incoerenti e filosoficamente ambigui, ma capaci di vivere dentro le contraddizioni sociali più disponibili al conflitto.

Come evidente, allora, il dibattito non solo aveva ragion d’essere negli anni Sessanta, ma andrebbe costantemente proseguito oggi, visto che una soluzione efficace non è stata ancora trovata.

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