La realtà ha disperso molte delle preoccupazioni espresse in un nostro precedente editoriale. Domenica, al Teatro Ambra Jovinelli di Roma, il morto non è riuscito ad afferrare il vivo. Tenterà ancora di farlo, ma sarà sempre più difficile che abbia successo.
L’assemblea romana che ha finalmente lanciato #poterealpopolo come lista elettorale radicale, antagonista, passionale e razionale, segna infatti una discontinuità netta e, ci auguriamo, irreversibile con “la sinistra”, le sue pratiche di piccolo cabotaggio, la sua vocazione all’irrilevanza sociale. Una vera e propria mutazione genetica, ma questa volta salvifica e rigeneratrice.
E’ bene precisare cosa intendiamo per morto. Abbiamo detto fin da subito che “il morto” è una logica, non una persona o un’organizzazione particolare. E’ certamente morto il “cencelli” mentale che ha regolato fin qui i rapporti interni o tra organizzazioni, sia in vista delle innumerevoli e sempre più disperanti prove elettorali che nella vita politica quotidiana. Una mentalità non liquidabile come maledizione dei soli elettoralisti, ma ben presente anche negli ambiti antagonisti.
Non vediamo differenze perché queste e altre infinite modalità di (presunta) autoaffermazione dei singoli gruppi hanno in comune ideologia (inconsapevole) e risultati dannosi. I secondi sono forse più facili da osservare – frammentazione organizzativa e cancellazione della presenza nella classe, tra la gente, nella vita sociale del paese – ma sono la conseguenza di una identica mentalità fortemente “individualistica”. Certo, c’è chi la declina in ansia di poltrone e chi in esibizione di “alterità”, ma la radice è la stessa. Il frutto, anche.
Tutto questo ed anche altro è il morto che l’assemblea di domenica ha messo in soffitta, speriamo per sempre. Non a caso, chiunque avesse in testa una poltrona da conquistare si è tenuto ben lontano da una ipotesi tutta in salita.
Il vivo è il bisogno di creare un’unità vera, fondata sui interessi e i valori comuni, a partire dalle lotte reali. Che al momento sono poche, circoscritte, specifiche e vertenziali, isolate e spesso criminalizzate. Ma sono anche l’unica risorsa vera e viva da cui partire.
Per uscire dalla passività e dalla frammentazione politiche non serviva riunire “i capi” delle formazioni esistenti e stilare una piccola lista di “tesi condivise”. Serviva “una botta da matti”, un prendersi per i capelli e sollevarsi dalle sabbie mobili – come novelli Münchausen – e mettere al centro, in primo piano, quel che era finito ai margini e sullo sfondo. Ossia il bisogno di lavoro, salario, casa, socialità, welfare, sanità, istruzione, informazione, sovranità popolare sulle decisioni che riguardano la gente. E dunque vedere come interlocutori i protagonisti dei conflitti intorno a quei bisogni, i settori sociali direttamente coinvolti.
Se si mettono al centro gli interessi sociali, l’unità arriva quasi per forza di cose. Perché bisogna risolvere problemi simili, o addirittura identici, e si sta ad ascoltare chi ha una soluzione da proporre, non chi ha una lezioncina da impartire o un ego da esibire. Il contrario, insomma, di quanto avviene fin dalla triste epoca bertinottiana, in cui vigeva il principio “ognuno dice la sua”. E’ l’ora del più sano “chi non fa inchiesta non ha diritto di parola”, che si può anche tradurre come “se non hai niente da dire che ci aiuti ad andare avanti, statti zitto e ascolta”.
Senza neppure dirselo, è la differenza che si è avvertita tra l’assemblea di ieri e quella del Teatro Italia: quasi tutti gli interventi, ieri, sono stati “sul pezzo”, legando lotte locali o settoriali e quadro politico, nemico principale, soluzioni da trovare, unità da consolidare.
E’ un altro segnale della serietà con cui è stata raccolta la sfida. A cominciare dalla chiarezza con cui tutti – nessuno escluso – si sono messi in gioco per costruire un percorso che va molto al di là della scadenza elettorale. Tutti i protagonisti sanno benissimo che la sola presenza in Parlamento, con un gruppo presumibilmente piccolo di eletti, serve a poco, praticamente a nulla nell’epoca del “pilota automatico” con regia a Bruxelles e Francoforte. Ma sanno altrettanto bene che già solo l’impegno necessario a mandarceli costruisce legami, rapporti, fiducia reciproca, legami con il nostro blocco sociale; legami che vanno al di là delle singole vertenze (chi lotta in fabbrica può non avere il problema della casa e viceversa, chi si oppone a una grande opera vive al suo interno anche bisogni di altro tipo, diversi tra loro). In una parola, si costruisce rappresentanza politica e blocco sociale.
Questo è in fondo l’obiettivo principale, che va molto al di là della semplice rappresentanza elettorale, sia come scadenza temporale che come risultati da conseguire. E’ sufficiente pensare al fatto che i settori sociali più combattivi (lavoratori della logistica, braccianti, rifugiati) non possono votare, perché sono stranieri. La bellissima manifestazione del 16 dicembre ci ha restituito tutta la complessità del nostro blocco sociale nel XXI secolo.
Per ottenere il risultato occorreva mettere in campo passione e razionalità, entusiasmo e analisi concreta, testa alta nel conflitto e individuazione del nemico. E la prima è stata evidente, sensibile, travolgente, dal saluto rivolto dal rappresentante del popolo di Palestina fino alle conclusioni tracciate da Viola.
Non paradossalmente, proprio le esperienze concrete di lotta hanno portato chiarezza anche sul piano dell’analisi razionale. Il fantasma dell’Unione Europea, che qualcuno aveva provato a vestire con i panni della “categoria ideologica”, si è materializzato come nemico principale – insieme alla Nato – nelle parole di chi si batte per accogliere i migranti a Lampedusa e vede prendere corpo, anche fisicamente, all’”esercito europeo”. E lo stesso è avvenuto grazie alla testimonianza diretta di chi, nel Parlamento Europeo, ci siede. O da chi, come France Insoummise, forte del 20% raccolto pochi mesi fa, promette una campagna continentale contro la Ue in occasione delle elezioni del 2019.
Ogni bisogno sociale, del resto – dall’acciaieria di Terni (che dovrebbe essere smantellata perché alla Thyssen non interessa più e le “regole europee” vietano la nazionalizzazione) all’edilizia popolare (da lasciare al far west del “mercato”), dalla precarietà contrattuale e occupazionale all’allungamento dell’età pensionabile (con riduzione dell’assegno mensile!), dall’asilo d’infanzia alla ricerca scientifica, ecc. – si scontra con un quadro “legislativo” che viene da Bruxelles e irreggimenta fino all’ultimo anfratto sociale.
Anche su questo punto decisivo, insomma, il morto non è riuscito ad afferrare il vivo e soffocarlo.
#Poterealpopolo parte con il piede giusto, l’entusiasmo che era scomparso, la lucidità che non si trovava più, con “rappresentanti” veri e vivi di una classe disorientata ma ancora capace di resistenza. Il compito è far sì che questa resistenza, oggi per lo più localizzata, torni ad essere generale. Cioè politica.
Per questo la sfida va accettata e vinta.
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