Domenico Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Editori Laterza, 2017, pp. 210, € 20,00
Nel 1976 Perry Anderson, nelle sue Considerations on western marxism (tradotto in Italia da Laterza e pubblicato nel 1977 col titolo: Il dibattito nel marxismo occidentale),
invitava a prendere atto della scissione epistemologica avvenuta nel
campo del marxismo. Da una parte il cosiddetto “marxismo occidentale”,
inaugurato nel 1923 dalla pubblicazione dei saggi di György Lukács (Storia e coscienza di classe) e Karl Korsch (Marxismo e filosofia);
dall’altra il “marxismo orientale” dei paesi socialisti. Coi lavori di
Lukács e Korsch il marxismo inaugurava l’epoca della sua completa
maturità filosofica, in grado finalmente di confrontarsi col pensiero
borghese su di un piano di parità intellettuale. In Unione sovietica, in
Cina, così come nei paesi in lotta contro il colonialismo, il marxismo
era andato trasformandosi in una rozza teoria del potere che poco o
nulla più condivideva col marxismo propriamente detto.
Questa differenza sostanziale tra i due marxismi era in realtà stata
rilevata prima di Anderson dal filosofo francese Maurice Merleau-Ponty,
che già nel 1955 riconosceva una divaricazione lampante tra un marxismo
grezzo ma utile alle rivoluzioni anticoloniali (il marxismo orientale), e
un marxismo occidentale filosoficamente adulto ma politicamente
impotente nei contesti a capitalismo maturo. Domenico Losurdo prende le
mosse da questa dicotomia, la fa propria e ne indaga i caratteri
originari. Per l’autore, il nodo di gordio prende forma durante la Prima
guerra mondiale: «a partire dall’orrenda carneficina, ufficialmente
scatenata da una parte e dall’altra in nome della difesa della patria,
si diffonde in larghi settori del marxismo occidentale un
internazionalismo esaltato e astratto, incline a considerare superata la
questione nazionale e di conseguenza a delegittimare i movimenti di
liberazione nazionale dei popoli coloniali».
Questa intervenuta difficoltà nel conciliare il proposito
internazionalista con le contraddizioni generate dalla lotta per
l’indipendenza nazionale delle popolazioni colonizzate porterà, secondo
Losurdo, al problema da cui prenderà forma la scissione nel marxismo: il
«mancato incontro» tra marxismo occidentale e rivoluzione anticoloniale
(continuamente evocata dall’autore come principale avvenimento del XX
secolo). In effetti tale mancato incontro è il prodotto di propositi
politici differenti, a loro volta frutto di contesti sociali e nazionali
in contraddizione tra loro: «A partire dal caso esemplare di Lenin
possiamo comprendere il processo di apprendimento attraverso cui è
costretto a passare il gruppo dirigente bolscevico: prima della
conquista del potere esso tende a pensare la società postcapitalistica
come la negazione totale e immediata del precedente ordinamento
politico-sociale; con le prime esperienze di gestione del potere si fa
strada la consapevolezza che la trasformazione rivoluzionaria non è
un’istantanea e indolore creazione dal nulla, ma una complessa e
tormentata Aufhebung (per riprendere una categoria centrale
della filosofia hegeliana) e cioè un negare che è al tempo stesso un
ereditare i punti più alti dell’ordinamento politico-sociale negato e
rovesciato». In altre parole, se in Occidente il comunismo assume i
caratteri dell’«Altro assoluto» rispetto al capitalismo, in Oriente «i
paesi meno sviluppati, prima di abbattere completamente il capitalismo,
hanno bisogno e sono desiderosi di usufruire delle “meraviglie”, del
meraviglioso sviluppo delle forze produttive, che il Manifesto del partito comunista a
ragione attribuisce a tale regime sociale. Vedremo Mao dichiarare nel
1940 che la rivoluzione da lui promossa, prima di conseguire il
socialismo, intende “sgomberare il terreno allo sviluppo del
capitalismo».
Con ciò prende forma quella che può legittimamente indicarsi come
caratteristica distintiva tra i due marxismi: da una parte, nei paesi
socialisti (o in lotta contro il colonialismo) il marxismo conserva il
suo carattere prioritario di “filosofia della prassi”, sistema poco
organico filosoficamente ma capace di dare voce alle istanze di
liberazione delle popolazioni subalterne. Un sistema di idee forse
“rozzo” ma efficace ai suddetti propositi di liberazione. Nell’Occidente
capitalistico il marxismo procede slegandosi da una prassi immediata,
trasformandosi in coerente filosofia matura in grado di dialettizzare e
contaminarsi col pensiero filosofico borghese: il nichilismo
nietzschiano, l’esistenzialismo, lo strutturalismo, la psicologia,
eccetera. Perdendo la relazione con “l’immediatezza” della rivoluzione,
al marxismo occidentale non resterebbe che convertirsi in “teoria
critica” dell’esistente, mantenendo i caratteri profetici del marxismo
originario, tradotti però in una religiosa attesa messianica, per ciò
stesso impotente di fronte al mondo.
Da Horkheimer («La nostra teoria critica più recente non si è più
battuta per la rivoluzione, perché dopo la caduta del nazismo nei paesi
dell’Occidente la rivoluzione condurrebbe a un nuovo terrorismo, a una
situazione terribile. Si tratta piuttosto di preservare ciò che ha un
valore positivo, per esempio l’autonomia, l’importanza del singolo, la
sua psicologia differenziata, taluni momenti della cultura, senza
arrestare il progresso») ad Adorno («Indubbiamente, oggi l’ideale
fascista si fonde tranquillamente con il nazionalismo dei paesi
cosiddetti sottosviluppati»), da Tronti («Ci deve essere dato atto che
non cademmo mai nel terzomondismo, delle campagne che assediano le
città, delle lunghe marce contadine, non fummo mai “cinesi”») ad Hardt e
Negri («Il concetto di una sovranità nata da un processo di liberazione
nazionale è ambiguo, se non completamente contraddittorio. Nel momento
stesso in cui il nazionalismo si batte per liberare la moltitudine dal
dominio straniero, esso istituisce strutture di dominio interno
ugualmente dure. […] Dall’India all’Algeria, da Cuba al Vietnam, lo stato è il regalo avvelenato della liberazione nazionale»),
il «mancato incontro» di cui parla Losurdo non sembra situarsi tanto
rispetto alla rivoluzione anticoloniale, quanto con la categoria del
potere. In altri termini, mentre a Oriente il marxismo viene utilizzato
come teoria per l’edificazione di un potere alternativo a quello
capitalista, a Occidente il marxismo si riduce a speculazione critica
del potere stesso. Il risultato, secondo Losurdo, è quello di una
negazione indeterminata del capitalismo che sfocia nella
completa astrazione filosofica, non in grado di interagire politicamente
col presente, decretando così la morte del marxismo come teoria e come
prassi. Il marxismo occidentale, secondo il filosofo pugliese, verrebbe
confinato a un’«ermeneutica dell’innocenza», peraltro totalmente
eurocentrica.
Se questa è la diagnosi, la prognosi proposta da Losurdo rifugge ogni
determinismo e auspica l’incontro tra queste due “esigenze” del
marxismo: «a Oriente la prospettiva socialista non può fare astrazione
del compimento a ogni livello della rivoluzione anticoloniale; in
Occidente la prospettiva socialista passa attraverso la lotta contro un
capitalismo che è sinonimo di acutizzazione della polarizzazione sociale
e di crescenti tentazioni militari. Non si vede, tuttavia, perché
queste differenze si debbano trasformare in antagonismo». Facile a
dirsi, complicato tradurlo in pratica. In effetti, la sintesi
losurdiana, sebbene in alcuni passaggi eccessivamente schematica (in
“Occidente” il marxismo è stato molte cose, non solo la Scuola di
Francoforte o la biopolitica foucaultiana, come d’altronde riconosce
Losurdo parlando di Sartre o Marcuse), ha il pregio di indicare uno dei
caratteri limitanti che è andato assumendo nel corso del tempo il
pensiero marxista: è un dato di fatto che il marxismo in Occidente
sopravvive in taluni dipartimenti universitari ma è completamente
espunto dall’attualità politica. Nonostante ciò, la progressiva deriva
capitalista cinese (anche ammettendo, ma non concedendo, la natura
“tattica” del suo contingente modello di sviluppo, secondo Losurdo)
difficilmente può costituire un esempio edificante al fine di riattivare
un’efficace prassi marxista in Occidente. Di certo, l’attuale fortuna
delle forze populiste deve molto alle difficoltà incontrate dal marxismo
nell’organizzare un’efficace discorso sul potere.
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