Un cambiamento verificatosi all’insegna del progredire dell’innovazione tecnologica e del mutamento dei modelli a uso e consumo dell’intensificazione della sfruttamento e dell’individualizzazione del conflitto in un quadro di vero e proprio “arretramento storico”.
L’occupazione delle fabbriche è stata storicamente lo strumento adoperato nei momenti più alti della lotta operaia non solo in Italia, ma nel nostro paese ne ha rappresentato l’espressione più evidente della contraddizione di classe (assieme all’occupazione delle terre al Sud) assumendo anche aspetti propriamente politici.
Così fu nel corso del drammatico scontro verificatosi alla fine della prima guerra mondiale al termine del quale prevalse il fascismo; dalle fabbriche con lo sciopero del 1 marzo 1944 partì l’impulso decisivo della Resistenza e, in seguito, in quei mesi vi furono fabbriche occupate per impedire il trasferimento dei macchinari da parte dei tedeschi; poi nell’immediato dopoguerra la lunga fase di agitazioni sindacali nel periodo ad altissima tensione della riconversione dell’industria bellica, con le pesanti repressioni poliziesche culminate con l’eccidio di Modena del gennaio 1950.
Infine i 35 giorni alla FIAT nell’autunno del 1980: ultimo sussulto dell’intreccio autonomia operaia e rappresentanza politica emblematizzato dalla figura di Enrico Berlinguer che tiene il comizio alla Porta 5 di Mirafiori. L’icona della fine di un’epoca.
Oggi gli operai della Mondomarine si collocano in quel solco storico: resta da stabilire se si sia trattato di un gesto “antistorico”, ma non è questo il nostro compito di oggi.
Vale la pena, invece, tracciare un solco di continuità con la storia del movimento operaio savonese nel corso della quale gli episodi di occupazione della fabbrica hanno segnato le diverse epoche della presenza industriale nella nostra Città e nel suo circondario: dalla “settimana rossa” del 1919 fino alle grandi lotte di ILVA e Scarpa e Magnano negli anni’50 – ’60 senza dimenticare il primo caso di “sciopero della fame” in fabbrica attuato nel 1984 dai lavoratori della Fornicoke. In quell’occasione si sviluppò un forte dibattito sulle forme di lotta: personalmente, mi permetto la citazione, lo avvii con un editoriale pubblicato dal Manifesto sotto il titolo “Lo sciopero della fame al posto dello sciopero generale: davvero gli operai sono ridotti a questo?”. Davvero non avevamo idea di ciò che ci stava aspettando, dello sfacelo a venire, sia dal punto di vista della presenza industriale sul nostro territorio, sia del disfacimento dell’identità di classe che il ruolo della classe operaia portava naturalmente con sé.
Ci aspettavano gli anni delle privatizzazioni, dello scioglimento dell’IRI mallevadore Romano Prodi, della perdita da parte dell’Italia dei settori nevralgici della sua struttura industriale.
Non è questo però il tema dell'intervento bensì quello di una sorta di ricostruzione storica che riguarda, nella fattispecie, la “lotta” degli operai dell’ILVA attuata a Savona nel corso degli anni ’50.
Esiste, e se ne usufruisce in questo caso, una brillante ricostruzione conservata sul sito del Laboratorio audiovisivo “Buster Keaton” che ha sede, se non sbaglio, presso il Campus Universitario di Legino, e a essa si fa riferimento di seguito.
La vicenda dell’ILVA principia con il processo di ristrutturazione dell’industria siderurgica italiana, delineatosi ancora in epoca fascista, quello che passò alla storia come “Piano Sinigaglia”.
Il “Piano Sinigaglia” fu di fatto il primo piano di sviluppo IRI-Finsider dell’era Repubblicana, essendo operativo a partire dal 1948. Con esso si poneva l’attenzione sull’incremento della siderurgia a ciclo integrale e sulla specializzazione delle unità produttive, iniziative che consentirono alla siderurgia italiana di entrare nell’orbita della CECA tanto da raggiungere, nel 1958, l’ottavo posto su scala mondiale per tonnellate prodotte di acciaio.
Secondo Sinigaglia era necessario incrementare gli stabilimenti a ciclo integrale di Piombino e Bagnoli e costruirne uno ex novo a Genova-Cornigliano (entrato in funzione nel 1953). Nel giro di pochi anni però risultò evidente che la produzione di acciaio rimaneva inadeguata alla richiesta di consumo interno (si era negli anni del boom economico) e ci si doveva rifare a importazioni in modo sempre più massiccio.
Così il Comitato dei Ministri per le Partecipazioni Statali, nel giugno 1959, deliberò un nuovo piano di sviluppo della siderurgia con la costruzione di un impianto ex novo a Novi Ligure (laminazione a freddo), un raddoppio di Cornigliano, un rimodernamento di Bagnoli, una riconversione a Trieste e soprattutto la costruzione di un nuovo centro siderurgico a ciclo integrale a Taranto, in perfetta linea con i dettami socioeconomici che puntavano a riqualificare le depresse aree del Sud Italia, ben presto ribattezzata dalla stampa la “Rolls Royce di tutte le acciaierie del mondo”, un vero gioiellino di tecnica e progresso, un prototipo funzionante da prendere come esempio. Lo stesso impianto di Taranto oggi nella bufera di un tragico conflitto tra il lavoro e l’ambiente. Conflitto spinto dal padronato per dividere ancor di più e lasciare spazio alle ristrutturazioni imposte dalla globalizzazione.
Quando il 9 luglio 1960 fu posta la prima pietra del nuovo impianto pugliese, Savona già da cinque anni era stata declassata a fabbrica di serie B nella strategia di mercato italiana.
Nel frattempo però erano accaduti fatti molto importanti per la vita della nostra Città.
Il “Piano Sinigaglia” parlava chiaro: Savona avrebbe cessato di avere la sua fabbrica siderurgica, o almeno non sarebbe più stata la grande Ilva di un tempo. Il polo di Cornigliano a pochi chilometri, una produzione ancora sostanzialmente “di rottame”, una seconda parte di Novecento più competitiva sul piano economico internazionale... tutte ragioni che fecero ventilare per l’aria una sola inquietante parola: licenziamento.
Gli operai non rimasero a guardare: consci della propria professionalità (non si poteva fare a meno di loro) e forti di organizzazioni interne alla fabbrica quali il Comitato di Liberazione Aziendale (che si occupò delle prime riassunzioni appena finita la guerra), il Consiglio di Fabbrica e la Commissione Interna, si decise di dare il via a manifestazioni e scioperi. Tra il 5 e il 23 dicembre 1949 si ebbe la prima occupazione dell’impianto da parte delle maestranze, con la direzione costretta ad abbandonare la sede di lavoro: il Consiglio di Gestione optò per fa continuare la produzione.
Ottima scelta, in quanto qualche tempo dopo – in seguito anche a un altro importante episodio tra il 4 ottobre 1950 e il 12 febbraio 1951 – la direzione decise di pagare gli operai per il lavoro svolto durante l’occupazione. L’evento più toccante fu certamente il Natale 1951, l’ultimo dell’Ilva come impianto importante nel suo settore, quando intere famiglie festeggiarono in fabbrica nei locali mensa.
Nel frattempo il Comune e la cittadinanza crearono un “Comitato per la difesa della fabbrica” (donne di tutte le età chiedevano offerte di cibo a contadini e negozianti fino a Vado e nell’entroterra, famiglie borghese ospitavano a pranzo bambini figli di operai...): ma a nulla valsero queste dimostrazioni di solidarietà se non a dimostrare che esisteva un tangibile legame tra la fabbrica e la città.
Malgrado tutto ciò, a ogni sciopero si riusciva solo parzialmente ad averla vinta: si guadagnavano altri mesi di lavoro, ma i licenziati di volta in volta erano sempre di più. Un poco si guadagnava in speranze per il futuro quanto tanti cessavano del tutto di sperare.
Il clima sociale era tesissimo e decisamente sconfortante: nel romanzo di Guido Seborga “Gli innocenti” ben si possono “rileggere” gli stati d’animo di operai e cittadini.
Tuttavia, malgrado i tumulti e le proteste, la siderurgia lasciò Savona: acciaieria, reparti laminazione, serpentaggio e latta furono chiusi per sempre. Furono demoliti alcuni capannoni e le alte ciminiere (tranne una, ancor oggi esistente).
Gli occupanti precipitarono a 1.750 unità.
Comparto privilegiato della nuova condotta industriale sarebbe stata la carpenteria (costruzione di carri siderurgici e rimessa in sesto di elementi provenienti da altri siti italiani) e su questa linea si continuò a produrre anche quando nel 1961 l’Ilva divenne Italsider (nata dall’unione di Ilva e Cornigliano s.p.a), con l’aggiunta del laminatoio, della fonderia di ghisa per lingottiere e altri materiali.
In conclusione di questo ricordo è il caso di tornare sul romanzo di Guido Seborga già citato considerando la testimonianza più efficace del clima sociale, politico, culturale, che si respirava all’epoca.
Il clima di una Città che visse quel periodo come una ferita collettiva che mai più si sarebbe rimarginata nonostante la lotta unitaria condotta dagli operai, dal sindacato, dall’amministrazione comunale, da tutte le categorie produttive e commerciali.
Una pagine triste e insieme gloriosa nonostante la sconfitta del nostro comune passato.
Ecco l’incipit del romanzo di Seborga:
“Matteo per ore chiuso nella fabbrica era straziato dal lavoro; e non poteva permettersi la minima disattenzione. Doveva curare con sveltezza e abilità che i lunghi e infuocati fili di metallo incandescente che uscivano dal forno si deponessero sugli schermi dopo aver paurosamente volteggiato in aria. I suo gesti precisi costringevano il filo al suo posto; la sua fronte era madida di sudore; il suo volto dai tratti salienti come arrossato dal fuoco.Il tutto non solo a memoria per gli operai della Mondomarine, ma per ricordare a tutta la Città pagine di storia che Savona, così cambiata (davvero una Città dall’identità perduta) non può permettersi il lusso di cancellare.
I compagni di lavoro, Milano, Flico, Giovanni, non perdevano mai una battuta, e armonizzavano nel lavoro i loro movimenti funzionali, che li stancavano. La porta del forno aperta sembrava un braciere ardente, ed emanava un caldo insopportabile. Le loro bluse azzurre e nere di grasso, logore, davano ai loro corpi uniformità; ma i volti erano diversi, gli occhi esprimevano la loro personalità, come affilata dal pericolo: se un filo sfuggiva alla presa di uno poteva avvolgere bruciare mutilare la carne loro. Due inservienti entrarono nel reparto, Carlo che mancava di un braccio, Mario che zoppicava; entrambi erano stati mutilati in giorni diversi, ma sempre verso la fine del turno, quando un attimo di disattenzione, dovuta alla fatica, può essere fatale all’operaio. Si misero a pulire un forno che era spento.
Carrette piene di rottami di ferro giungevano nel reparto, e il forno acceso inghiottiva tutto il materiale; si era in piena lavorazione, gli uomini si prodigavano senza un attimo di pausa.
La fabbrica sorgeva tra i vecchi fortilizi di Savona, in riva al mare, dalla parte opposta di un ampio cortile c’erano gli uffici che confinavano con la banchina del porto, e il terreno era attraversato da rotaie per i vagoni che giungevano dalla stazione, e c’erano ponti e gru per scaricare ferro dalle navi o dai vagoni ferroviari. Un alto muro impediva ogni visione, verso terra, di fronte il mare aperto. Quest’ubicazione dava agli uomini il senso d’essere come interrati; solo sopra il cielo azzurro era visibile.
Era una lucente mattina invernale, il mare blu scuro, l’aria fredda. Gli operai non s’accorgevano che esistesse un mondo esteriore. Matteo soprattutto aveva perfezionato se stesso rendendo i suoi gesti sempre più sintetici e necessari: era diventato il migliore operaio del forno.
Ne faceva interamente parte, la sua vita era lì, ciminiere, altiforni, gasometri, rottami, sacchi di coke, montagne di carbone, acciaio effervescente, rigòla di ghisa liquida, il forno durante la colata. Ogni giorno la vita ricominciava per tutti tra quelle mura, dura e difficile, senza possibile evasione.
Solo quando il turno era finito potevano andare sullo spiazzo e guardare il cielo; sedersi su qualche rottame di ferro, aprire la valigetta che conteneva il cibo; bere golate di vino, refrigerio per le gole arse e assetate. A poco a poco le loro membra si distendevano; cominciavano a pronunciare qualche parola.
Il più loquace era Flico, giovane di ventidue anni; il più invariabilmente taciturno era Matteo, alto e magro, uomo sui trentacinque anni; Milano e Giovanni si adattavano facilmente al silenzio o ai discorsi dei compagni. Ma tutti erano accomunati dal sacrificio, un battaglia quotidiana che non aveva mai termine, che durava quanto la loro vita; da anni mesi ore minuti, sempre così, ineluttabilmente.”
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