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15/02/2020

Macché crisi di governo, è solo normalizzazione...

La crisi infinita della politichetta italiana sta collassando. Non esiste più alcuna differenza apprezzabile tra i vari “schieramenti politici”. L’unica novità sta nell’annullamento di quanto resta della “alternativa” malamente rappresentata per un decennio dai Cinque Stelle. Pura normalizzazione, insomma, condotta per via di logoramento quotidiano.

I due attori principali, per il momento, sono gli stessi che da un quinquennio dominano la scena mediatica: “i due Matteo”. Come in un serial ormai stanco e ripetitivo...

Che un governo possa cadere per via di una cosa poco chiara ai più, come la “prescrizione”, è indicativo del fatto che i veri giochi si stanno facendo su tutt’altro. E che ad aprire la crisi sia il gruppo di interesse – nessuno riuscirebbe a prendere sul serio “Itala viva” come “partito” – che meno di tutti ha la possibilità di trarre vantaggio da eventuali elezioni anticipate, la dice lunga sul ruolo di “killer su commissione” affidato a Renzi & co.

La prescrizione

Togliamo di mezzo questo tema, fonte solo di confusione. In qualsiasi paese di “democrazia liberale” – che è cominciata ad esistere affermando l’habeas corpus, ossia il diritto ad essere processati restando uomini liberi fino alla condanna (con tante e non sempre ovvie eccezioni) – il sistema giuridico deve tenere insieme due esigenze opposte: perseguire chi commette un reato, violando le leggi, e farlo in un processo che abbia “tempi ragionevoli”. Un’ottima panoramica è offerta, una volta tanto, dal Corriere della Sera.

La seconda esigenza, come è logico, vale soprattutto nei processi penali, in cui – a seconda della gravità del reato contestato – l’indagato può essere sottoposto a carcerazione preventiva; ossia in una condizione che equivale a scontare concretamente una condanna anche se non è ancora stata sentenziata né trasformata in definitiva.

Nei processi civili, dove ci sono in ballo “solo” soldi e proprietà, ma non la libertà personale, non esiste prescrizione. E infatti i tempi di celebrazione sono sempre infiniti. Alcune sentenze arrivano dopo diversi decenni, e interessano a quel punto gli eredi dei danti causa. Chi ci è passato sa che spesso è “normale” veder fissare la successiva udienza (e ogni processo, anche banale, ne prevede diverse) anche anni dopo. Impensabile che questo possa avvenire con persone imprigionate e che dunque potrebbero essere innocenti e, in percentuali rilevanti, lo sono.

La “riforma Bonafede” era ed è un’infamia da sbirri, perché blocca la prescrizione senza garantire “tempi certi e ragionevoli” allo svolgimento dei processi penali. E quindi crea un regime in cui delle persone possono restare sotto processo, e spesso in galera, per un tempo imprecisato.

Qualche “sinistro” equivoca sull’argomento, portando esempi di processi “finiti in prescrizione” che riguardavano potenti, imprenditori, ricchi in genere. Ed è ovviamente vero che “finire in prescrizione” è una tattica spesso usata da avvocati importanti con clienti importantissimi.

Ma non è eliminando la prescrizione che i potenti finiranno in galera anche se colpevoli di reati gravi. Con i soldi e il potere si possono usare decine di “tattiche processuali” diverse, sia legali che illegali.

Si possono portare migliaia di esempi in cui “i potenti” si sono salvati corrompendo i giudici e/o i testimoni (do you remember Berlusconi?), manipolando persino le nomine per gli uffici giudiziari più importati (il “caso Palamara-Csm”), facendo trasferire processi in sedi improprie (la strage di Piazza Fontana giudicata a Catanzaro grida ancora vendetta...) ecc. Il sistema giudiziario è largamente “permeabile” alle ragioni e agli interessi del potere. Nessuna legge può cambiare questa situazione di fatto.

Quindi la “battaglia di Renzi sulla prescrizione” è chiaramente una falsa “bandiera di civiltà” e persegue tutt’altro obbiettivo.

Matteo Primo, ossia Renzi

L’ex premier che aveva scalato il Pd per conto di Verdini, fino a diventarne segretario e addirittura presidente del Consiglio, ha di fatto posto le premesse per una crisi di governo. Eppure, come detto, se si andasse ad elezioni anticipate oggi non avrebbe i numeri per superare la “soglia di sbarramento” da lui stesso voluta nella legge elettorale in vigore – il Rosatellum, dal nome del suo fedelissimo.

Insomma, a meno di non volersi suicidare politicamente in via definitiva e tornare a lavorare per l’azienda di papà (nel frattempo finito sotto processo, ma deve essere una coincidenza...), il suo obbiettivo non può essere questo.

E quale può essere?

Matteo Secondo, detto Salvini

“Il Truce” ha appena inscenato un’altra figura di m..., facendo uscire i senatori leghisti dall’aula al momento del voto sull’autorizzazione a procedere nei suoi confronti, dopo aver giurato per mesi che li avrebbe fatti votare a favore, in modo che lui avrebbe potuto “dimostrare di aver difeso i confini della Patria”... impedendo per giorni a una nave militare della suddetta Patria di entrare in un porto della Patria stessa.

Il vecchio Umberto Bossi, da battitore libero, ha dato voce all’imprenditoria del Nord che non ha apprezzato la sua “svolta nazionale” (da “prima la Padania” a “prima gli italiani”), perché i legami di quel settore con le filiere produttive del Nord Europa (Germania in primis) sono in questo momento fonte di crisi e richiederebbero un di più di “attenzione differenziata”. E ben oltre i già ampi confini della famigerata “autonomia” richiesta anche dal dem Bonaccini per l’Emilia Romagna.

Dopo l’uscita “incomprensibile” dal governo gialloverde in pieno agosto, Salvini non ne ha imbroccata più una, fino a non sfondare nella “regione rosa” che doveva segnare l’inizio del suo trionfo finale. E i sondaggi, che fin lì lo avevano confortato, hanno preso a voltargli le spalle.

È ancora il leader del centrodestra, ma i concorrenti si moltiplicano. Anche lui si sta consumando, e persino dentro la sua cerchia si comincia a guardare oltre...

Il più concreto dei dirigenti leghisti, Giancarlo Giorgetti, neo “responsabile degli esteri” per il Carroccio, con un’intervista al Corriere si prende la libertà di ridurre tutta la stagione politica dei “porti chiusi” a poco più di una sceneggiata: «La politica di fermezza ha avuto risultati. Se ora l’Europa comincia ad accettare l’idea che l’Italia non può essere lasciata da sola, è grazie a Salvini. Se il ministro Lamorgese può andare a trattare in Europa è perché Salvini ha fatto il matto».

Ma è chiaro che “quella roba lì” non può essere la normalità della politica interna e delle relazioni internazionali di un partito “affidabile”. E liquida pure la “stagione filorussa” della Lega con parole di esplicito disprezzo: «Io a Mosca non ci sono mai stato. Ma la Russia è un Paese importante, sia per il commercio che per il suo peso strategico. Dunque dobbiamo avere rapporti buoni e proficui. Certo seri e formali, non dilettanteschi e carnevaleschi come nel caso che lei cita».

Per essere ancora più chiari: «siamo sempre stati filo-americani. Certo, Trump fa gli interessi dell’America. Sarebbe anzi giusto che anche l’Europa lo facesse, invece di andare in ordine sparso. Altrimenti i nostri prodotti prendono botte dall’America e anche dai partner europei».

È la fine della stagione dei “matti” e dei faccendieri da scantinato. La Lega – come vuole la sua vera base, la piccola e media industria del Nord – si ridisegna come un partito centrista, che entrerà presto nel Ppe, abbandonando Le Pen e Afd.

La svolta europeista della Lega

È qui il vero nocciolo dell’intervista di Giorgetti, del resto. Ricordate la Lega “sovranista”, quella che strepitava con gli “zero virgola di Bruxelles”, che voleva uscire dall’euro e mandare a quel paese la Merkel e Draghi? Noi dicevamo da anni che era tutto finto, ora lo dicono anche loro.

Giorgetti esplicita compiutamente la “svolta” senza possibilità di equivoci. E consegna i Borghi e i Bagnai al triste ruolo dei “leghisti dell’Illinois”.

Alla domanda di Antonio Polito – “Ma nel team dell’economia della Lega ci sono ancora Borghi e Bagnai, fautori dell’uscita dall’euro. Tenete il piedi in due staffe?” – risponde infatti col tono del capo assoluto: «Io sono il responsabile degli Esteri della Lega. E se dico che non usciamo, non usciamo. Punto».

Fine di un’epoca e di una presunta “vocazione sovranista”, che evidentemente era servita solo per raccogliere consensi elettorali tra “le larghe masse”, che da tempo stanno facendo i conti con quel “lo vuole l’Europa” che svuota le loro tasche e cancella la speranza nel futuro. Ora i leghisti copieranno il mantra che ha distrutto la ex “sinistra radicale”, pur partendo da numeri più consistenti: “molto deve cambiare. Per due ragioni: i trattati sono stati scritti in un’altra era geologica; l’epoca Merkel si avvia a conclusione. Così non si regge.”

Auguri! Come tutti sanno, anche se fanno finta di ignorarlo, gli unici trattati che si cambiano sono quelli decisi da Parigi e Berlino, e solo nella misura in cui corrispondono ai loro interessi (basta vedere la vicenda del Mes...). Facile prevedere, insomma, una lunga serie di “tematiche di distrazione di massa” sfornate dalla futura Lega affidabile per i poteri europei.

Il che pone un problema: nonostante l’insistenza di Salvini, con dichiarazioni ogni minuto, neanche la Lega può davvero credere all’ipotesi di “elezioni subito” perché la modifica costituzionale che ha ridotto – criminalmente – il numero dei parlamentari non è applicabile nella pratica se non vengono prima ridisegnati i confini dei collegi elettorali per farli corrispondere al nuovo numero dei seggi. E c’è, prima, anche il referendum confermativo...

Dunque, prima dell’autunno non si può votare neanche se i parlamentari non si presentassero più in aula a partire da domani...

Il fantasma di Mario Draghi

E allora che cavolo di idea è far cadere questo governo se non si può o non si vuole affatto (dal lato Renzi, ma non solo) “andare a votare”?

È l’idea di far fuori Conte e ciò che resta dei Cinque Stelle, aprendo la strada dell’ennesimo “governo tecnico” o di “salvezza nazionale” che possa durare almeno un paio d’anni. Almeno fino all’elezione del nuovo Presidente della Repubblica (2022).

La “svolta europeista” della Lega, già da sola, renderebbe possibile un governo comprensibile per Bruxelles e senza “sovranisti populisti” in pole position (ma con i loro voti).

Sull’altro lato, il Pd è da sempre il più fedele esecutore dei diktat della Troika (Ue, Bce, Fmi; come hanno sperimentato i greci) e quindi sarà comunque un pilastro di qualsiasi maggioranza gradita a Bruxelles. I berlusconiani residui devono pensare al (proprio) futuro senza il Cavaliere, e di certo non sono mai stati barricadieri; al massimo molto sbirri.

Restano da tritare definitivamente i Cinque Stelle, mentre la Meloni dovrà scegliere cosa vuol fare da grande: se la solita fascistella che si ammanta di “sovranità nazionale” (che è differente da quella “popolare”, ma è inutile rispiegarvelo...) oppure l’ennesima “politica affidabile” solo un po’ più di destra su immigrazione e dintorni.

La morsa congiunta su Conte dei “due Matteo” ha insomma un unico sbocco possibile, visto che per ora non si può andare al voto.

Il futuro presidente del consiglio, in questo quadro, quasi non ha importanza. Può essere la solita “riserva di lusso” che sta in panchina da qualche anno (Cottarelli o simili), ma di sicuro sarà un volto ben conosciuto ai piani alti dell’Unione Europea, tale da diradare qualsiasi dubbio sulle intenzioni del governo.

La svolta vera, par di capire, si avrà solo con l’elezione del prossimo presidente della Repubblica. Per quel ruolo – ed era impensabile quando la Lega fingeva di voler combattere “i poteri forti” – lo stesso Giorgetti mette in campo Mario Draghi. Interessante la motivazione, più ancora del nome: «Quello che so è che Draghi è il personaggio italiano che in giro per il mondo potrebbe parlare con qualsiasi interlocutore al suo stesso livello. Se dovesse ritirarsi al mare o in montagna sarebbe una perdita per l’Italia».

A quel punto, ma solo con una “garanzia” internazionale di quel livello, si aprirebbe anche per la Lega la possibilità di assumere (se dovesse mantenere i voti che ha ora) la carica di premier: «Siamo un partito. Lavoriamo per portare il nostro leader a Palazzo Chigi. Per riuscirci servono consenso elettorale, e ne abbiamo in abbondanza, e capacità di interloquire con il potere nelle sue sedi internazionali, e qui dobbiamo imparare dai nostri errori. [...] Prima o poi toccherà a noi. Ma intanto il Paese va a rotoli e l’economia è a rischio, soprattutto dopo questa epidemia. L’Italia è una pentola a pressione. Non può durare a lungo così».

Che quel leader possa essere ancora Salvini, per quell’appuntamento, sono in pochi a crederlo. Anche al vertice della Lega.

P.s. Stamattina Salvini se n’è uscito in modo opposto: «O si sta dentro cambiando le regole di questa Europa oppure, come mi ha detto un pescatore di Bagnara Calabra, ragazzi, facciamo gli inglesi. O le regole cambiano o è inutile stare in una gabbia dove ti impediscono di fare il pescatore, il medico e il ricercatore».

Troppo presto per dire se si tratti di una “divisione dei ruoli” – Giorgetti “europeo” e Matteo “nazionale” – per coprire il massimo possibile di potenziale elettorato (perdere gli “euroscettici” significa regalare voti alla Meloni o ad altri). Oppure se stia venendo allo scoperto una faglia che può spaccare la Lega. Però non è affatto secondario che sia proprio il “rapporto con l’Unione Europea” (e l’euro e la Nato) il punto discriminante su cui ogni “ipotesi politica” o fa chiarezza oppure si infrange.

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