di Michele Giorgio – il Manifesto
Il sodalizio
Trump-Netanyahu procede come un bulldozer. Il premier israeliano, forte
dell’appoggio della Casa Bianca – che ha appena presentato un «piano di
pace» che offre a Israele buona parte della Cisgiordania occupata e
relega i palestinesi in un bantustan – non bada all’opposizione di varie
parti internazionali alle mosse americane e raccoglie successi
diplomatici dove meno te lo aspetti. Il ministero degli esteri
israeliano ieri ha rispedito al mittente le critiche dell’Alto
rappresentante dell’Unione europea per la politica estera e di
sicurezza, Josep Borrell, che ha sottolineato come la soluzione proposta
da Washington per Israele e palestinese si discosti dal diritto
internazionale. Borrell ha avvertito che «I passi verso
l’annessione (a Israele della Cisgiordania), se attuati, non potrebbero
passare incontrastati», lasciando così immaginare possibili contromisure europee.
Netanyahu sa che l’Ue non è unita quando affronta la questione palestinese
– Ungheria e Repubblica Ceca hanno impedito che l’Unione adottasse una
posizione unita contro il piano Trump, depotenziando le critiche di
Borrell – e si gode i risultati diplomatici ottenuti nelle ultime ore, durante il suo viaggio in Africa. A
soddisfarlo non è solo la possibilità concreta che l’Uganda apra la sua
ambasciata a Gerusalemme, dopo Stati Uniti e Guatemala. I rapporti tra Kampala e Tel Aviv vanno avanti dietro le quinte da decenni e ora si rafforzeranno alla luce del sole. Piuttosto è l’ipotesi che Israele normalizzi le relazioni con il Sudan, da decenni un accanito nemico.
Lunedì a sorpresa il premier israeliano ha incontrato in Uganda anche
il generale Abdel Fattah Al Burhan, capo del consiglio sovrano sudanese
che lo scorso anno ha rovesciato Omar Al Bashir sull’onda di prolungate
proteste popolari. I due, secondo i media israeliani, avrebbero deciso
di stringere relazioni normali. Non è sfuggito che il clamoroso
faccia a faccia sia avvenuto il giorno dopo l’invito a visitare
Washington rivolto da Trump al generale Al Burhan e due giorni dopo la
riunione al Cairo della Lega araba, di cui il Sudan fa parte, che ha
respinto il «piano di pace» Usa.
Ma nulla accade per caso in Medio Oriente. Già durante le
manifestazioni contro Al Bashir era emerso l’appoggio aperto di Arabia
saudita, Emirati e altre monarchie del Golfo – strette alleate degli Stati Uniti e, in segreto, di Israele – al «desiderio di cambiamento» in Sudan, paese che aveva ottimi rapporti con l’Iran (ora congelati su richiesta di Riyadh pronta a generosi finanziamenti ai sudanesi) e manteneva una posizione di netta chiusura nei confronti di Tel Aviv. Al
Burhan ha capito che il Sudan sarà rimosso in tempi relativamente brevi
dalla lista nera di paesi considerati dagli Usa «sponsor del
terrorismo», se si mostrerà disposto a voltare pagina con
Israele. E infatti il segretario di Stato Mike Pompeo ha subito
ringraziato Burhan per il suo passo verso la «normalizzazione dei legami
con Israele». Il generale però avrebbe fatto tutto da solo. Il governo
del Sudan non era stato informato e un portavoce ha detto che si
attendono «chiarimenti». Gran parte dei sudanesi ritengono che la revoca
delle sanzioni americane e internazionali sia un diritto legittimo del
loro paese per il quale non dovrebbe essere pagato alcun prezzo
politico.
I palestinesi considerano il meeting tra Netanyahu e Al Burhan un altro colpo basso ai loro diritti.
Saeb Erekat, segretario generale dell’Olp, ha parlato di «pugnalata
alle spalle», simile a quella inferta la scorsa settimana dagli Emirati
che hanno applaudito al piano Trump. «Pugnalate» ne riceveranno ancora.
Stando a quanto riferiscono i media israeliani, l’Amministrazione
Trump sarebbe pronta a riconoscere unilateralmente l’occupazione del
Sahara occidentale e a negare le rivendicazioni del popolo Sahrawi se il
Marocco avvierà relazioni diplomatiche con Israele.
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