Gli autori di questo post sono Emiliano Brancaccio, professore di Politica economica presso l’Università del Sannio, e Luigi Cavallaro, magistrato e consigliere della Corte di Cassazione.
Nell’infinita controversia con la Corte di giustizia dell’Unione
Europea, la Corte costituzionale tedesca ha ragione nel sostenere che
l’azione della Bce potrebbe aver violato il principio di “neutralità”
della politica monetaria e i Trattati che ne disciplinano le
attribuzioni. Ma questa ragione si fonda su un fatto che né i giudici di
Lussemburgo né quelli di Karlsruhe possono ammettere: la Bce non può
perseguire l’agognata neutralità semplicemente perché questa non esiste.
E se non esiste la neutralità, non è ammissibile nemmeno l’indipendenza
politica del banchiere centrale.
«Pazzi al potere, che odono voci nell’aria, distillano le loro
frenesie da qualche scribacchino accademico di pochi anni addietro».
Per irriverente che possa sembrare ai benpensanti, solo il sarcasmo
di Keynes può descrivere la genesi dei Trattati europei e della
posizione che vi occupa la Banca centrale europea. I padri fondatori
dell’unione monetaria ne hanno infatti edificato l’ordinamento
“distillandolo”, per l’appunto, dagli alambicchi della teoria
macroeconomica neoclassica nelle sue più aggiornate varianti, e in
particolare da quel suo fondamentale caposaldo che è il principio di
“neutralità” della politica monetaria.
In grazia di questo principio, il banchiere centrale deve perseguire
il solo obiettivo della stabilità dei prezzi senza mai interferire sul
livello, sulla composizione e sulla distribuzione della produzione di
“equilibrio”, che corrisponde a quella posizione del sistema economico
in cui i prezzi di mercato di tutte le risorse riflettono le loro
scarsità relative e quindi ne garantiscono l’impiego pieno e ottimale.
Soprattutto, il banchiere centrale non deve mai interferire sul tasso
d’interesse di equilibrio, che è determinato dalla scarsità dei risparmi
disponibili delle famiglie rispetto alle richieste di finanziamento
degli investimenti da parte delle imprese: spetta infatti solo al gioco
concorrenziale condurre i mercati verso questo magnifico equilibrio
ideale, nel quale ogni risorsa è allocata secondo criteri di efficienza e
non è possibile migliorare la situazione di un individuo senza
peggiorare quella di qualcun altro. Questo gioco, anzi, la politica
monetaria non deve in alcun modo ostacolarlo: da Sargent a Taylor, i
vari eredi dell’ortodossia in ultima istanza fanno tutti voto di fedeltà
a questo irrinunciabile precetto.
Sono esattamente queste le radici teoriche delle fondamentali
previsioni degli artt. 119 e 127 del Trattato sul funzionamento
dell’Unione europea, che affidano alla Banca centrale europea il compito
di mantenere la stabilità dei prezzi e, fatto salvo quest’obiettivo, di
«sostenere» l’azione di coordinamento delle politiche economiche dei
singoli Stati dell’Unione «conformemente al principio di un’economia di
mercato aperta e in libera concorrenza». Nel disegno dei Trattati,
l’unica “politica economica” comune agli Stati membri dell’Unione è
appunto la concorrenza e l’unico modo in cui la Bce può “sostenerla”
consiste nel rispetto del principio di neutralità della politica
monetaria, che può ammettere solo interventi volti a mantenere il tasso
d’interesse in prossimità dell’equilibrio concorrenziale. Ogni diversa
azione del banchiere centrale è perciò fuorilegge: in specie quella che,
favorendo alcuni soggetti a scapito di altri, possa determinare
un’allocazione inefficiente dei risparmi e delle altre risorse
produttive, allontanando così il sistema dalla posizione di equilibrio.
Tener conto della matrice teorica dei Trattati è indispensabile se –
anziché aggiungere l’ennesimo commento senza cognizione – si vuol
davvero cogliere la sostanza della disputa in corso ormai da anni tra la
Corte di giustizia dell’Unione Europea e la Corte costituzionale
tedesca, e di cui, il 5 maggio scorso, i giudici di Karlsruhe hanno
scritto un capitolo di inusitata durezza.
Alla base dell’intimazione rivolta alla Bce di giustificare entro tre
mesi il massiccio acquisto di titoli pubblici previsto dai programmi di
quantitative easing c’è infatti il dogma – la «decisione politica
fondamentale», dice la Corte tedesca – della separazione tra politica
economica e politica monetaria, che a sua volta discende dal postulato
di neutralità di quest’ultima. Comperare titoli pubblici, dicono i
giudici tedeschi, tiene artificiosamente bassi i tassi di interesse,
agevola il rifinanziamento agli Stati indebitati, li distoglie dalle
buone regole della finanza sana, pregiudica i risparmiatori e tiene in
vita imprese altrimenti destinate a fallire: tutte conseguenze
allocative e distributive che non possono tollerarsi senza che si
spieghi in che misura sarebbero “proporzionate” all’unico obiettivo che
la Bce è legittimata a perseguire, cioè la stabilità dei prezzi.
I giudici della Corte costituzionale tedesca
Di qui l’accusa infamante rivolta ai giudici di Lussemburgo di avere
abdicato alla funzione di controllo dell’operato della Bce: se
s’interpreta il principio di proporzionalità che presiede all’esercizio
delle sue competenze così come ha fatto la Corte di giustizia, cioè
senza verificare se gli effetti distributivi del quantitative easing
possano realmente giustificarsi in relazione all’obiettivo di riportare
il tasso d’inflazione ad un livello prossimo al 2% all’anno, allora non
ci può più essere alcuna distinzione tra politica monetaria e politica
economica e di fatto – conclude la Corte di Karlsruhe – si autorizza la
Bce ad agire ultra vires, cioè ad invadere il campo della politica economica, che i Trattati invece hanno riservato agli Stati membri.
Non è questo il luogo per dire se i giudici costituzionali tedeschi
abbiano ragione in punto di diritto. Ciò che reputiamo fondamentale
chiarire qui è che le loro accuse hanno senso solo leggendo i Trattati
alla luce della teoria economica dominante, per la quale gli effetti del
denaro a buon mercato – dal pregiudizio arrecato ai risparmiatori
all’indebita salvaguardia di imprese decotte – rappresentano violazioni
del principio di neutralità monetaria e di un conseguente allontanamento
dall’equilibrio di concorrenza.
Resta tuttavia un problema: salvo che nella mente degli economisti neoclassici, in realtà non esiste alcuna possibile “neutralità” della politica monetaria.
La banca centrale non svolge affatto l’asettico compito di mantenere il
sistema economico nei paraggi di un equilibrio che garantirebbe
l’impiego pieno e ottimale di tutte le risorse, né risulta in grado di
governare la dinamica dei prezzi. Piuttosto, intervenendo sul tasso
d’interesse e più in generale sulla regolazione dei flussi monetari e
finanziari, il banchiere centrale fissa l’asticella delle condizioni di
solvibilità degli attori del sistema economico e per questa via
influenza il ritmo dei fallimenti e delle bancarotte e contribuisce a
rallentare o a velocizzare l’uscita dal mercato dei capitali più fragili
o il loro assorbimento da parte dei più forti. Insomma, l’indicibile
verità è che il banchiere centrale agisce sempre come regolatore di un conflitto
feroce in seno alla società: quello tra capitali solvibili e capitali
insolventi, tra creditori e debitori e, in una unione monetaria, anche
tra nazioni in attivo e nazioni in passivo. La funzione del banchiere
centrale è dunque sempre inesorabilmente politica: nel senso
che, lungi dal preservare un immaginario equilibrio concorrenziale,
contribuisce piuttosto a regolare una cruciale legge di movimento del
capitalismo, vale a dire la tendenza verso la centralizzazione dei
capitali. [1]
Vista in quest’ottica, quella che giuridicamente appare come una
controversia indecidibile porta invece ad alcune conclusioni obbligate.
La Corte costituzionale tedesca ha ragione nel sostenere che
l’azione della Bce potrebbe violare la neutralità della politica
monetaria e dunque i Trattati che ne disciplinano le attribuzioni. E ha ancor più forte ragione
nel sostenere che solo la neutralità della politica monetaria può
giustificare l’indipendenza della Bce dal potere politico. Su questo
punto, anzi, è perfino risibile il goffo tentativo della Corte di
giustizia europea di voler salvare il bambino del quantitative easing insieme all’acqua sporca dell’indipendenza della politica monetaria.
Ma le inoppugnabili ragioni della Corte costituzionale tedesca si fondano su un fatto che né i giudici di Lussemburgo né a fortiori quelli di Karlsruhe possono ammettere: la Bce non può perseguire la neutralità della politica monetaria semplicemente perché questa non esiste.
Esiste invece, e di conseguenza, un gigantesco problema di democrazia,
perché se la politica monetaria non è e non può essere neutrale, allora
non può nemmeno essere affidata a una banca centrale indipendente dalle
istituzioni politiche.
L’agognata neutralità è dunque solo l’ennesima, perniciosa fantasia
concepita dagli apologeti dell’ortodossia neoclassica, che in Europa più
che in ogni altra parte del mondo ha trovato “pazzi al potere” disposti
all’ascolto, e ha dato vita a un Trattato che rende la banca centrale
tra le più refrattarie a qualsiasi forma di controllo democratico. Lo
scontro tra questa follia normativa e la dura realtà della crisi è solo
iniziato.
Twitter @emibrancaccio
Note:
[1] Abbiamo anticipato questo punto in Brancaccio, E., Cavallaro, L. (2011). Leggere Il capitale finanziario. Introduzione a Hilferding, R., Il capitale finanziario. Milano, Mimesis. Per approfondimenti ulteriori: Brancaccio, E., Moneta, A., Lopreite, M., Califano, A. (2020). Nonperforming Loans and Competing Rules of Monetary Policy: a Statistical Identification Approach.
Structural Change and Economic Dynamics. Volume 53, pages 127-136.
Brancaccio, E., Giammetti, R., Lopreite, M., Puliga, M. (2019). Monetary Policy, Crisis and Capital Centralization in Corporate Ownership and Control Networks: a B-Var Analysis. Structural Change and Economic Dynamics, Volume 51, December, pages 55-66. Brancaccio, E., Fontana, G. (2016). ‘Solvency rule’ and capital centralisation in a monetary union, Cambridge Journal of Economics, 40 (4).
Fonte
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