16/06/2020
Comunità rurali e crisi economiche nella Cina moderna (Seconda parte)
Prima parte
di Sit Tsui (professore associato della Southwest University di Chongqing), Qiu Jiansheng (docente presso l’Istituto di ricostruzione rurale di Fuzhou), Yan Xiaohui (dottoranda in studi culturali alla Lingan University di Hong Kong), Erebus Wong (ricercatore senior della Lingan University) e Wen Tiejun (direttore del Centro di ricostruzione rurale dell’Università Renmin di Pechino). Tutti sono membri fondatori della Global University for Sustainability.
Recupero dell’economia rurale
Quando lo Stato ritirò il sostegno fiscale alla società rurale, restituì ai contadini il diritto al surplus rurale, insieme al diritto alla capitalizzazione di fattori di produzione come la terra arabile e il lavoro.
All’inizio degli anni ‘80 l’accumulazione primaria nell’industria e nel commercio rurali dipendeva principalmente dal meccanismo di internalizzazione della comunità rurale e delle famiglie contadine. Fu un processo di accumulazione intensiva attraverso l’auto-sfruttamento della forza lavoro, usando il lavoro in sostituzione del capitale. Ciò era in contrasto con il settore industriale statale, che richiedeva entrate e prestiti nazionali. Negli anni ‘80 la domanda di beni di consumo nel mercato cinese eccedeva generalmente l’offerta, dando spazio alla crescita delle imprese rurali. Lo sviluppo generale dell’economia rurale aumentò i redditi dei contadini, il che a sua volta stimolò l’economia nazionale consentendo una rapida ripresa. Nel 1981, lo Stato non registrò alcun deficit fiscale ma un avanzo primario di 3,74 miliardi di RMB.
Con lo scoppio di una nuova crisi nel 1981, il governo non riuscì più a trasferire il lavoro urbano in eccesso nei villaggi attraverso la mobilitazione ideologica così come aveva fatto negli anni ‘60 e ‘70. Anzi, le decine di milioni di giovani istruiti che erano stati inviati in campagna tornarono in città. La crisi sembrava quindi destinata ad un “impatto duro” nelle città. Allo stesso tempo il Partito Comunista aveva abbracciato le riforme rurali per aumentare la produttività delle campagne. Dal 1982 l’economia rurale crebbe rapidamente, soprattutto prima che i TVE (Township and Village Enterprises, imprese pubbliche orientate al mercato sotto la competenza dei governi locali ndt) fossero soppressi da politiche loro sfavorevoli al servizio degli interessi acquisiti dai settori urbani. Infatti, dopo il 1984, i TVE divennero la principale spinta della ripresa economica.
Durante questo processo si distinsero tre aspetti della politica cinese.
Il primo era la popolazione contadina. Il loro crescente potere d’acquisto a seguito dell’aumento del reddito in contanti compensò la diminuzione della domanda da parte dei settori urbani. L’economia rurale in forte espansione sostenne l’economia nazionale nel suo insieme. Dopo aver condiviso i benefici iniziali della riforma, i contadini aumentarono gli investimenti con l’aspettativa di rendimenti più elevati. Ciò fece salire la domanda di beni industriali e fornì molti beni di consumo di bassa fascia. Gli incrementi nella circolazione delle merci fisiche assorbì l’espansione monetaria e il deficit fiscale che altrimenti avrebbero portato all’inflazione.
Il secondo fattore era la comunità di villaggio. Negli anni ‘80 circa due terzi dei villaggi possedeva ancora beni collettivi e il diritto di distribuire i guadagni. Le collettività rurali, facendo uso dei fattori di produzione (capitale collettivo, forza lavoro di alta qualità e risorse della terra) da poco sotto il loro controllo, poterono iniziare l’accumulazione primaria industriale a basso costo attraverso l’internalizzazione del rischio esterno, una caratteristica tradizionale delle comunità rurali.
Il terzo fattore era il mercato. Le riforme del mercato e l’apertura economica preliminare della Cina portarono a un’esplosione della domanda di beni di consumo di bassa fascia. I settori industriali urbani erano allora ancora sbilanciati a favore delle industrie militari e pesanti e non erano in grado di soddisfare quella domanda. Quasi priva di concorrenti, l’industria rurale riuscì ad assumere una quota considerevole della produzione per il mercato dei beni di consumo di bassa fascia.
Numerosi studi hanno concluso che le riforme della Cina negli anni ‘80 hanno rappresentato un adeguamento graduale. Nei fatti, la riforma fu un aggiustamento delle attività fisiche, sia vista in termini di riforma fondiaria (che modificò sostanzialmente i rapporti di proprietà) sia come modifica alla struttura distributiva nazionale. Si trattò, in sostanza, di un cambiamento radicale nella struttura delle attività fisiche.
Se esiste un aspetto di questo processo che può essere definito incrementale, certamente questi sono i rendimenti marginali degli investimenti nel settore rurale, decisamente più alti di quelli dei settori industriali. Data la possibilità di investimenti autonomi e di sostegno al capitale, l’economia rurale ebbe la possibilità di generare tassi di rendimento molto più elevati rispetto a quelli dell’industria urbana con la stessa quantità di concessioni fiscali.
Nonostante una politica macroeconomica tesa a favorire l’industria urbana, questo sviluppo rurale autonomo dimostrò rapidamente il suo vantaggio istituzionale. Dall’industrializzazione rurale alla fine degli anni ‘70 fino al 1988, la produzione dei TVE crebbe generalmente a un tasso annuo del 30%, il 10% in più di quello dell’industria statale e quasi il 10% in più del tasso di crescita della produzione lorda sociale generale. Fu la principale forza trainante dello sviluppo rurale e della crescita economica nazionale in generale.
In sintesi, durante gli anni ‘80, le regioni rurali avevano completato l’accumulazione primaria di capitale per l’industrializzazione. La cosiddetta accumulazione primaria di capitale è generalmente un processo sanguinoso. Eppure negli anni ‘80 il processo di industrializzazione rurale in Cina fu tutt’altro che violento, sebbene non poco complicato. Anche le rivendicazioni erano molto rare in quel periodo. Questo perché i contadini avevano il diritto di sviluppo autonomo, il che portò loro un reddito più elevato e, a sua volta, guidò la crescita dei consumi interni che aiutò l’economia urbana. Pertanto si potrebbe dire che per un certo periodo il paese non conobbe gravi disparità tra città e campagna. Ma verso la fine del decennio ‘80 e in particolare durante gli anni ‘90 nuove politiche iniziarono ad erodere il diritto allo sviluppo autonomo dei contadini.
Riequilibrare le tre principali disparità
Le misure contro la crisi del governo fecero ancora una volta affidamento sul trasferimento dei costi istituzionali sulla società rurale. In nome della strategia di sviluppo economico costiero, ai TVE fu chiesto di importare materie prime dall’estero e di concentrarsi sulla produzione per i mercati esteri, ritirandosi quindi dal contesto nazionale. Le imprese urbane principalmente di proprietà statale e gravate dal debito riuscirono quindi a evitare la concorrenza con le imprese rurali emergenti, che non erano appesantite come quelle cittadine. Tuttavia, quanto deciso si rivelò devastante per i TVE ancora in una fase iniziale di sviluppo. E come se non bastasse, furono tagliati gli investimenti statali in beni pubblici come istruzione, cure mediche, governi locali e organizzazione di partito.
Dal 1989 il reddito in contanti pro capite dei contadini diminuì per tre anni consecutivi. Un numero enorme di braccianti rurali non ebbe altra scelta che trasferirsi in città per cercare lavoro: nel 1993 il deflusso di manodopera rurale raggiunse i 40 milioni di unità. Allo stesso tempo, i governi locali e le organizzazioni di base trasferirono i costi ai contadini imponendo tasse e imposte. Naturalmente i conflitti sociali nelle regioni rurali aumentarono notevolmente e le tensioni si intensificarono.
Una drammatica conseguenza dell’orientamento strategico verso gli interessi urbani fu la soppressione dell’economia rurale e la drastica diminuzione del consumo da parte dei contadini, che costituivano ancora la maggioranza della popolazione. La domanda interna nazionale diminuì e le contraddizioni interne della struttura economica peggiorarono. L’economia cinese fu costretta a passare dal soddisfacimento della domanda interna alla crescita trainata dalle esportazioni. Un simile cambiamento spiega in parte perché la Cina negli anni ‘90 fu così ansiosa di abbracciare la globalizzazione e di integrarsi nell’economia capitalista globale.
Durante questo periodo, il problema principale riscontrato dalla Cina venne dalla sua prima ondata di sovrapproduzione. Uno dei primi esperti a proporre politiche per affrontare questo problema fu Justin Lin Yifu dell’Università di Pechino, che dichiarò già nel ‘97, quando scoppiò la Crisi Finanziaria Asiatica, che il problema della Cina era un “circolo vizioso causato da un doppio surplus (eccedenza produzione e surplus di manodopera)”. La conseguenza di questa crisi fu che 400.000 imprese statali chiusero i battenti e 40 milioni di lavoratori furono licenziati. Coloro che sopportarono i costi di una tale crisi furono tanto gli operai industriali urbani quanto i contadini rurali.
La risposta del governo alla crisi si basò sulle considerazioni politiche dei più importanti economisti del paese, come lo stesso Justin Lin Yifu, Ma Hung e Lu Baifu. Anche i funzionari cinesi responsabili delle politiche economiche avvertivano la gravità del problema. Di conseguenza, a partire dal 1998 furono adottate forti misure di aggiustamento. Per stabilizzare la crescita economica, il governo centrale emise direttamente debiti nazionali a sostegno degli investimenti.
Nel 1998 l’economia cinese venne rapidamente rimodellata dalla riforma della commercializzazione delle istituzioni finanziarie. Le quattro principali banche – Bank of China, Agricoltural Bank of China, Industrial and Commercial Bank of China, China Construction Bank – presentavano sofferenze per un totale di oltre un terzo del loro capitale. Le banche mancavano di fondi sufficienti per finanziare gli investimenti. Ecco perché il governo centrale dovette emettere direttamente i debiti nazionali per sostenere gli investimenti nelle infrastrutture; per fare un esempio, dei 33,6 trilioni di RMB investiti nello sviluppo del Great West, oltre i due terzi erano investimenti del debito nazionale.
Molte persone si sono chieste perché la Cina sia stata così fortunata da essere risparmiata dalla crisi finanziaria asiatica. In realtà, all’inizio della crisi il paese non è stato assolutamente risparmiato. Come abbiamo detto, negli anni ‘90 la Cina presentava un’economia trainata dalle esportazioni, e si basava dunque sulla domanda d’oltremare per sostenere la sua crescita: l’improvviso declino di quella domanda minacciò, com’è evidente, una crisi imminente. La cosiddetta “esperienza cinese” che permise di evitare la crisi non fu altro che una mossa fatta direttamente dalle mani visibili del governo, nella forma di un aggiustamento anti-ciclico.
Le misure in risposta alla prima ondata di sovrapproduzione non solo furono efficaci ma affrontarono anche la questione dello sviluppo regionale squilibrato. Lo sviluppo del Great West iniziato nel ‘99 vide uno stanziamento complessivo di 3,6 trilioni di RMB. L’ascesa di Chongqing non sarebbe stata possibile senza gli investimenti infrastrutturali su larga scala dello Stato nelle regioni montuose. Oggi Chongqing è tra i leader nella crescita del PIL non solo nella Cina occidentale, ma anche considerando tutta la nazione. Questa crescita è stata resa possibile dagli investimenti statali durante lo sviluppo del Great West. Nel 2001 il progetto Northest Revival portò un investimento complessivo di 2,4 trilioni di RMB e nel 2003, quando l’ex premier Wen Jiabao entrò in carica, furono avanzate nuove politiche di crescita per le regioni centrali. Tutti gli investimenti del governo erano finalizzati all’aggiustamento dello sviluppo diseguale tra le regioni.
Il Sannong New Deal del 2006
Alla fine degli anni ‘90 le fluttuazioni macroeconomiche portarono a un deterioramento e poi a una crisi della governance rurale. A partire dal 2003 il Partito ribadì l’importanza del Sannong, sottolineandolo come il problema più importante che il Paese doveva affrontare. Nel 2005 la nuova politica della Campagna Socialista fu evidenziata come la principale strategia nel futuro sviluppo della Cina.
Dopo che furono attuate una serie di politiche pro-rurali, il settore rurale ebbe la possibilità di riprendersi e la funzione di regolamentazione del suo bacino di forza lavoro fu parzialmente ripristinata. Queste politiche svolsero un ruolo positivo nel correggere lo squilibrio strutturale di lunga durata nell’economia nazionale (sovra capacità industriale, eccesso di capitale, surplus di manodopera, disparità tra le regioni costiere e l’interno, polarizzazione rurale-urbana e disuguaglianza di reddito) e migliorare la sostenibilità dello sviluppo della Cina. Lo fecero seguendo tre direzioni principali.
Innanzitutto, nel periodo 2003-08 gli investimenti nel settore rurale (compresi agricoltura, silvicoltura, irrigazione, meteorologia, tecnologia agricola, aiuti agrari e infrastrutture agricole) ammontarono a 1.473,1 miliardi di RMB. L’investimento fiscale nei tre settori agricoli nel periodo 2003-09 fu di 3.096,7 miliardi di RMB, con una media di 15.000 RMB per famiglia. Fu significativamente aumentato lo stock di capitale nel bacino di capitale rurale e vennero stanziati investimenti infrastrutturali che aumentarono notevolmente le opportunità di lavoro locale non agricolo. La funzione di regolamentazione, un tempo indebolita, del bacino di forza lavoro rurale fu quindi ripristinata.
In secondo luogo, gli investimenti pro rurali stimolarono la domanda di consumi rurali. Nel periodo 2000-03 l’aumento annuale del volume delle vendite al dettaglio per il mercato rurale al di sotto del livello della contea dei beni di consumo era stato di soli 100 miliardi di RMB. Nel 2004 il dato si ritrovò più che raddoppiato, raggiungendo i 231,2 miliardi. È stato stimato che la grande spinta dell’iniziativa “Nuova ricostruzione rurale” avrebbe aumentato ulteriormente il volume delle vendite al dettaglio rurale di beni di consumo di 400 miliardi di RMB all’anno, con un aumento di oltre il 2% del PIL.
In terzo luogo, un flusso di risorse significative verso il settore rurale contribuì ad allentare le tensioni tra contadini e governi rurali. Ora il conflitto principale riguardava la distribuzione dei benefici all’interno delle comunità rurali. Il settore rurale divenne più stabile, una condizione importante e necessaria, poiché costituiva la base sociale del Sannong. Queste furono le condizioni di partenza che offrirono alla Cina un ampio margine di manovra per far fronte alla crisi globale del 2008.
Un confronto tra le risposte alle crisi del 1997 e del 2008
Dopo la metà degli anni ‘90 la Cina è diventata dunque sempre più dipendente dai mercati esterni. Durante l’integrazione del paese nel mercato globale, il capitale straniero divenne un fattore dominante nell’adeguamento strutturale causato dall’espansione all’esterno del capitale industriale cinese. Sia la crisi finanziaria asiatica del 1997-98 sia la crisi finanziaria globale del 2008 sono state crisi “importate” dall’esterno. Questi due eventi esogeni furono molto simili nei loro sintomi e nelle risposte che provocarono.
Innanzitutto i sintomi. Prima di ogni crisi, l’economia nazionale si trovava nella condizione di dipendere fortemente dalle esportazioni. Una volta scoppiata la crisi, l’improvviso calo delle esportazioni ha immediatamente portato a un calo del tasso di crescita e all’aumento della disoccupazione. Nel valutare la risposta ufficiale, è importante notare che, contrariamente alle misure deflazionistiche adottate nelle crisi precedenti, il governo cinese nel 1997 e nel 2008 ha adottato una politica espansiva su larga scala per allargare gli investimenti e stimolare la domanda interna nel tentativo di salvare la crescita economica da un forte calo.
Nonostante il successo nel rianimare l’economia, le misure di salvataggio del 1997-98 sono state distorte a favore degli interessi urbani, portando a un’appropriazione eccessiva delle risorse rurali. Si è deciso di far sostenere al settore rurale la maggior parte dei costi istituzionali, infiammando così ulteriormente i conflitti sociali.
Al contrario, le misure di salvataggio del 2008-09 hanno enfatizzato gli investimenti nel settore rurale, in continuazione con le politiche “Sannong” del governo in carica dal 2003. Due dei tre fattori di produzione (vale a dire: capitale e lavoro) sono rifluiti nei settori delle zone rurali in modo significativo e hanno parzialmente ripristinato la funzione di regolamentazione del bacino di forza lavoro rurale. Si è iniziato a costruire un secondo bacino di capitale (il primo era quello nel settore urbano) nell’economia rurale a livello di contea.
Tali politiche si sono quindi rivelate reciprocamente vantaggiose sia per il settore urbano sia per quello rurale. Tuttavia fu anche in questo periodo che l’intera società dovette sostenere l’enorme costo dell’industrializzazione nazionale. Per la prima volta, l’industria secondaria cinese rappresentava oltre il 40% dell’economia nazionale.
Dalle esperienze della Cina nell’affrontare le crisi è evidente che il Sannong è stato il principale portatore delle pressioni economiche e sociali causate dalle fluttuazioni cicliche macroeconomiche. È stato anche un ammortizzatore capace di regolare l’instabilità economica. L’importanza del Sannong per la sicurezza economica e lo sviluppo sostenibile in Cina è fuori discussione. Va detto però che, nella fase della tarda industrializzazione, la struttura socioeconomica della Cina rurale, che era sempre stata la base stabilizzatrice e il regolatore dello sviluppo economico, stava subendo cambiamenti drastici e fondamentali.
Risorse sulle terre rurali
Dopo che nel 2003 il governo centrale aveva sottolineato l’importanza del Sannong per tutti i compiti economici importanti, la nuova Campagna Socialista è stata finalmente avviata nel 2005. Finora il progetto ha portato investimenti di oltre 1 trilione di RMB, principalmente finalizzati alla correzione dello squilibrio urbano-rurale nello sviluppo. Al di fuori di alcune sacche di povertà, oltre il 98-99% delle regioni rurali ora dispone di elettricità, acqua, banda larga e gas naturale, oltre all’accesso stradale. Di conseguenza, le piccole e medie imprese sono fiorite. In precedenza i contadini erano felici di rinunciare ai loro contesti rurali per diventare famiglie urbane: ora la situazione si è in qualche modo invertita, dal momento che molte famiglia urbane sono tornate nei loro villaggi originari chiedendo di ritornare alla loro identità contadina e registrandosi come famiglie rurali.
Gli investimenti del governo destinati alle infrastrutture, intesi ad affrontare il problema della sovrapproduzione, hanno notevolmente aumentato il valore delle attività fisiche. Allo stesso modo, attraverso gli sforzi dello Stato nella costruzione di strade e nella fornitura di servizi e comunicazioni alle regioni rurali, risorse che prima non venivano contabilizzate hanno aumentato molto il loro valore in termini monetari. Con l’accesso ai trasporti e alla comunicazione, i prodotti, i paesaggi e l’ambiente non inquinato delle regioni rurali sono diventati preziosi e attrattivi, cosa che ha a sua volta aumentato il valore delle proprietà fisiche. Alla fine degli anni ‘90 il valore delle proprietà reali dei contadini ammontava solo a circa 10 trilioni di RMB. Ora ha superato i 100 trilioni. Questo enorme aumento ha raggiunto ogni singolo possessore di tali beni, compresi i contadini ai livelli più bassi della società.
L’aumento del valore delle proprietà fisiche ha anche offerto un’altra opportunità, sotto forma di una disposizione del governo centrale per aumentare notevolmente l’offerta di moneta. La crescita del commercio internazionale e degli investimenti esteri, nonché la crescita dei valori patrimoniali e del volume delle transazioni, facilitano ulteriormente l’espansione monetaria. Inoltre, le entrate del signoraggio generate dalla monetizzazione vanno al governo centrale. Dato che il conto capitale cinese non è completamente aperto verso l’estero, gli investimenti esteri che vi entrano possono entrare solo in aree legate alla produzione. Non sarebbe permesso entrare direttamente in Cina per guidare la speculazione sulla valuta e sul mercato dei capitali.
È questo un punto che vale la pena sottolineare: è proprio perché la valuta nazionale e il mercato dei capitali non sono aperti che l’impennata domestica del capitale finanziario è stata possibile. Il paese ospita già il maggior volume di transazioni finanziarie al mondo e quattro delle cinque maggiori banche mondiali sono cinesi.
La maggior parte dei cinesi non crede che queste grandi banche potrebbero fallire. Questo perché oltre l’80% del fondo di capitale di queste banche proviene dallo Stato. Supportate dalla credibilità dello Stato, le banche possono sopportare obblighi di debito a lungo termine. C’è certamente molto da criticare in un tale sistema di capitale finanziario statale, ma un punto a suo favore è la stabilità. Se diventa bancarotta, ciò significa che è fallita la credibilità stessa dello Stato.
Nel 1998, quando è scoppiata la crisi finanziaria dell’Asia orientale, oltre un terzo dei bilanci delle quattro principali banche era costituito da crediti inesigibili. Nella maggior parte delle nazioni occidentali, tale banche sarebbero state insolventi, secondo il requisito patrimoniale del 8% stabilito dagli accordi di Basilea. Ciò non è accaduto in Cina. Con la politica stabilita dal governo centrale, i crediti inesigibili sono stati rimossi e gestiti da quattro società di gestione patrimoniale. Le banche hanno quindi ricevuto nuovo capitale per soddisfare gli accordi di Basilea e quotate in borsa per il finanziamento. Questo è l’approccio cinese alla crisi finanziaria.
Autogoverno rurale
Con l’affermazione ufficiale della “civiltà ecologica” come obiettivo della trasformazione strategica della Cina nel nuovo secolo, i continui squilibri e le carenze nello sviluppo del paese sono diventati la contraddizione principale. Lo squilibrio e le carenze hanno assunto la forma di tre grandi disparità: quella tra le regioni costiere e l’interno, tra le aree urbane e rurali e tra ricchi e poveri.
Il grave squilibrio urbano-rurale deriva dalle politiche adottate negli anni ‘90. Il problema principale è la questione dei contadini, ed in particolare i loro diritti. Ecco perché il punto di vista del 19esimo Congresso [nell’ottobre 2017, ndr], che individua nello sviluppo squilibrato e insufficiente la contraddizione principale, è molto rilevante.
L’adeguamento strategico e la riorganizzazione strutturale sono le scelte necessarie per la nuova era, perché oltre alle questioni del debito elevato e del grave inquinamento, la Cina deve affrontare anche il problema di una seconda ondata di sovrapproduzione.
Di recente, Xi ha proposto due principali politiche strategiche nazionali per affrontare queste sfide. La prima è l’iniziativa One Belt, One Road, che comprende la creazione dell’Asia Infrastructure Investment Bank, intesa ad alleviare la crisi di sovrapproduzione. Questo progetto ha portato a un aumento della costruzione finalizzata al trasporto terrestre, per collegare la Cina ai paesi vicini e stimolare lo sviluppo di risorse ed energia; prevede poi investimenti in infrastrutture per trasferire industrie e tecnologie appropriate nei paesi meno sviluppati, nonché per stimolare l’occupazione non agricola e lo sviluppo sostenibile nei paesi ricchi di manodopera; infine vuole aumentare lo scambio culturale per facilitare l’integrazione economica e risolvere i conflitti geopolitici. La seconda politica importante è l’integrazione di “una Bella Cina” con la “Civiltà Ecologica”, per alleviare la crisi ambientale e sociale: mira a ridurre le disparità nello sviluppo urbano-rurale, nello sviluppo tra regioni e nel tenore di vita, e garantisce un accesso equo ai servizi pubblici di base e un buon ambiente di vita, come anche un consolidato sistema di governance sociale.
Inoltre, nel rapporto del 19esimo Congresso, l’accento non è più sulle elezioni dirette rurali ma piuttosto su un’efficace governance di queste zone. La differenza principale tra governo e governance è che il primo è un sistema esecutivo dall’alto verso il basso, mentre il secondo implica interazioni dinamiche e sfaccettate tra diversi gruppi. Solo attraverso l’espressione adeguata di opinioni diverse si può ottenere una sana governance. Ma anche oggi, la maggior parte degli studiosi di governance rurale prendono il “governo” come concetto cardine e non propongono altro che il rafforzamento di norme e regolamenti. Una buona governance richiede l’instaurazione di relazioni strutturate tra diversi gruppi sociali, attraverso diverse attività economiche e culturali basate sulla naturale diversità che deriva dal clima, dall’area geografica e da altri fattori.
Nella storia, la governance del basso strato della società rurale differiva fortemente dal sistema di rango superiore rappresentata dal controllo imperiale centralizzato. Quest’ultimo ha realizzato il controllo sociale e la collaborazione in gran parte attraverso le contee e le prefetture, mentre le regioni rurali al di sotto del livello delle contee e delle prefetture erano autosufficienti e autonome.
Dall’emergere del sistema di contea e prefettura, le regioni rurali della Cina sono state la struttura fondamentale della stabilità sociale. I due sistemi hanno formato un binario di istituzioni governative per una società agricola: lo standard di rango ufficiale per la società di livello superiore e l’autogoverno rurale per il livello inferiore. In termini di rilancio rurale, un compito essenziale dovrebbe essere il rilancio dell’autogoverno rurale.
Osservazioni conclusive
La politica di redistribuzione della terra alle famiglie rurali è stata a lungo un mezzo efficace per risolvere le crisi urbane, sfruttato non solo nel 1950 da Mao, ma anche trenta anni dopo da Deng Xiaoping. Chiaramente la doppia struttura rurale-urbana rimane di fondamentale importanza. Sappiamo che le dinastie che hanno attuato una politica di distribuzione della terra e di esenzione fiscale hanno generalmente mantenuto una stabilità a lungo termine. Solo i riformatori neoliberisti nella Cina continentale hanno tentato di cambiare questa istituzione.
Quando la Cina è entrata nel sistema capitalistico globale, i fattori chiave del suo successo economico sono stati la capacità del governo centrale di attuare misure anticicliche, nonché la capacità dei governi di basso livello di sostenere la base rurale per garantire un “atterraggio morbido” al resto dell’economica cinese nei momenti di crisi. Questo, a sua volta, è il motivo per cui la Cina sta ora cercando di affrontare le persistenti carenze nel suo sviluppo, dalla riforma del “lato dell’offerta” nelle industrie e nell’agricoltura alla realizzazione delle principali strategie statali di civiltà ecologica e rivitalizzazione rurale.
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