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14/06/2020

La puzza di austerità che viene da Villa Pamphili...

Stati generali a porte chiuse. E se non è difficile capire il “clima” delle discussioni, c’è invece una blindatura molto severa sul “cosa” si stia discutendo lì dentro.

Sul piano politico, la scelta di Conte di mettere in scena una “dieci giorni” di confronto sulle scelte economiche da fare nei prossimi mesi è sicuramente un tentativo di mettere al riparo l’esecutivo dalle tensioni quotidiane e perciò dalla perdurante incertezza sulla sua stabilità.

Per riuscirci, è stata convocata “L’Europa” – nelle persone di Ursula von der Leyen, presidente della Commissione, e Cristine Lagarde, alla guida della Bce –. Ma anche il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, il segretario generale dell’Ocse, Ángel Gurría, e la direttrice del Fondo Monetario Internazionale, Kristalina Georgieva.

Uscire dalle secche dello sterile battibecco tra deficienti, tipico dello scambio di battute quotidiane della “politica italiana”, era del resto l’unico modo per “alzare l’asticella” della discussione, chiarendo che la posizione dell’Italia è inchiavardata in un sistema internazionale che ne determina sia il destino sia le scelte quotidiane.

Non è detto, però, che alla fine questa scelta sia anche quella giusta perché, sul “cosa” bisogna fare per “far ripartire” questo Paese, dagli ospiti più importanti sono arrivati ammonimenti e velate minacce, più che testimonianze di solidarietà.

La circostanza non è sorprendente, perché solo gli imbecilli che credono alle favole della “informazione mainstream” potevano cullarsi nell’illusione che stessero per arrivare un fiume di soldi a fondo perduto, con cui fare un po’ quello che ti pare. Ma soprattutto perché la comunità di riferimento cui l’Italia è sottomessa – per libera scelta di qualche decennio fa, ma sottomessa – non è affatto un “circolo di amici che si danno una mano”, ma un insieme rissoso perché competitivo al proprio interno. Ossia partner che si fregano a vicenda.

Mettiamo in fila gli ammonimenti più seri.

Il governatore della Banca d’ Italia, Ignazio Visco, ha subito smontato il pilastro principale della narrazione ottimistica: “I fondi europei non potranno mai essere ‘gratuiti’: un debito dell’Unione europea è un debito di tutti i paesi membri e l’Italia contribuirà sempre in misura importante al finanziamento delle iniziative comunitarie, perché è la terza economia dell’Unione“.

Detto più cautamente, è quello che andiamo spiegando fin dall’inizio della discussione sul Recovery Fund: i “fondi europei” sono messi direttamente dagli Stati, oppure chiesti in prestito sui “mercati” con la garanzia che saranno gli stessi Stati a restituirli. Non nascono dal nulla insomma. Quindi l’Italia, come tutti gli altri Paesi, con una mano versa fondi dentro il “bilancio europeo” e con l’altra ritira una quota che può essere in tutto o in parte uguale a quella versata (secondo molti calcoli saranno almeno 14 miliardi in meno rispetto al contributo versato).

Il vero problema è che questa “restituzione del versato” non è affatto scontata, perché deve sottostare a condizioni precise e vincolanti poste dall’Unione Europea.

Non è un’illazione “sovranista”, ma quanto spiegato in modo neppure tanto soft da Paolo Gentiloni, ex premier Pd e ora Commissario europeo agli affari economici: “So che il governo italiano è pienamente consapevole che non si tratta di spese facili, tesoretti o libri dei sogni ma di un impegno che ci metterà alla prova”, ha commentato il commissario Gentiloni.

“Ora dobbiamo dirci che queste ingenti risorse metteranno alla prova tanto la Commissione che il sottoscritto nelle sue responsabilità, quanto i singoli Paesi e governi. Per l’Italia si tratta di un’occasione irripetibile per riforme che eliminano le strozzature che hanno limitato la crescita e per investimenti per rendere l’Italia più competitiva. Si tratta di risorse senza precedenti”.

Insomma, quei soldi che saranno versati anche dall’Italia torneranno (in parte) indietro sotto forma di “fondi europei” se, e solo se, saranno effettuate quelle “riforme” che la stessa Ue pretendeva da molti paesi prima che il coronavirus facesse strage e aprisse ufficialmente lo stato di crisi.

Nulla è cambiato, se non la tempistica con cui si chiedono “riforme” e “aggiustamento di bilancio”.

Altrettanto esplicita Christine Lagarde: “Il recovery fund raggiungerà il suo pieno potenziale solo se sarà saldamente inserito in riforme strutturali concepite e attuate a livello nazionale”.

“Le raccomandazioni specifiche per l’Italia” stilate dalla Commissione Ue identificano “gli investimenti in infrastrutture digitali per l’istruzione e la formazione, la promozione della produzione di energia rinnovabile, lo sviluppo di modelli di e-business e la modernizzazione della pubblica amministrazione. Queste riforme sono indispensabili per capitalizzare questo momento”.

Inoltre “la mobilitazione degli investimenti richiede soprattutto un quadro economico favorevole alle imprese, con servizi pubblici e privati efficienti e flessibili, adeguate infrastrutture fisiche e digitali, un sistema giudiziario ben funzionante e un settore finanziario forte”.

Tutti obiettivi formalmente asettici, perché generici. Chi potrebbe contestare che infrastrutture digitali o la modernizzazione del diritti civile, per esempio, non siano obbiettivi desiderabili?

I problemi diventano più chiari quando si nominano il “quadro economico favorevole alle imprese”, o “il mercato del lavoro” (ampiamente massacrato nel corso degli ultimi 20 anni, tanto che non esistono praticamente più diritti esigibili).

Non si parla ancora di tagli, ufficialmente, ma dovrebbe suonare sinistramente la notizia che diversi giornali riportano stamattina: “Le pensioni decorrenti dal 1° gennaio 2021 avranno una quota contributiva più leggera. A stabilirlo è stato il decreto 1° giugno 2020 di revisione triennale dei coefficienti di trasformazione del montante contributivo”. Pochi spiccioli in meno, per ora, ma la direzione è chiara...

Qualcuno potrebbe pensare: “Sì, va bene, c’è un prezzo da pagare, però almeno saremo obbligati a fare quel che ci serve e altrimenti non faremmo...”.

È sempre la stessa idiozia ripetuta dal 1981 – quaranta anni fa! – quando il ministro Beniamino Andreatta decretò il “divorzio” tra la Banca d’Italia e Ministero del Tesoro, per vietare alla prima di comprare in asta i titoli di Stato emessi dal Tesoro stesso; pratica che contribuiva a tenere alto il prezzo e quindi bassi gli interessi da pagare. L’intento era anche lì “virtuoso”; ossia “costringere lo Stato a spendere meno, eliminando sprechi e ruberie”.

Sprechi e ruberie sono rimasti, com’è noto. Sanità, pensioni e istruzione sono state massacrate e su di loro si addensano altre nubi tempestose.

In ogni caso, ha spiegato Charles Michel, presidente del Consiglio europeo (il vertice dei capi di Stato e di governo della Ue), “Vorrei mettere tutti in guardia dal sottovalutare la difficoltà dei negoziati che stanno per iniziare”.

Sul Recovery fund “c’è ancora strada da fare. Come sapete, su vari punti chiave del progetto esistono divergenze significative: sulla dotazione globale, sulla ripartizione tra prestiti e sovvenzioni, sui criteri di distribuzione delle risorse finanziarie, sulle condizioni di assegnazione dei fondi... Ora più che mai, questi negoziati sono irti di difficoltà, poiché costringono tutti gli Stati membri a riconsiderare determinati principi cui sono fedeli da così lungo tempo. Non tutti condividono la stessa interpretazione di cosa sia nel concreto la solidarietà. Così come non tutti sono istintivamente d’accordo sulle implicazioni pratiche che derivano necessariamente dal principio di responsabilità. Potremo riuscire solo se sia gli uni chesia gli altri faranno lo sforzo di mettersi nei panni dei rispettivi interlocutori”.

Niente è certo, tranne il fatto che le “condizionalità” per avere in prestito parte dei fondi che il Paese deve versare (o impegnarsi a farlo) potranno solo essere peggiori di quelle fin qui prospettate. Olanda, Austria, Finlandia e il “gruppo di Visegrad” (Polonia, Cechia, Slovacchia, Ungheria) pretendono infatti che nulla venga “regalato” ai paesi mediterranei. Per ragioni diverse, oltretutto. Perché i primi tre paesi dovrebbero versare un po’ di più di quel che riceverebbero; gli altri quattro perché vedrebbero in parte scendere il contributo europeo a loro destinato.

Ecco, dato questo contesto, la formulazione di un “Piano nazionale di riforme” – indispensabile per poter cominciare a chiedere e ottenere almeno la prima rata del Recovery Fund a gennaio (o più in là, probabilmente) – diventa per il governo Conte un letto di Procuste che quanto prima dovrà far vedere i chiodi al posto della pelliccia.

Decisamente, quanti ieri si sono presentati fuori Villa Pamphili per contestare un vertice-fregatura, hanno messo in campo l’unica risposta possibile: l’organizzazione di un fronte di lotta popolare, che unisca i settori sociali colpiti dalla crisi e che le politiche europee – che Conte chiama a protezione del suo governo – vogliono peggiorare oltre ogni immaginazione.

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