“Non parlarci dei saccheggi. Siete tutti saccheggiatori. L’America ha saccheggiato i neri. L’America ha saccheggiato i nativi americani quando sono venuti qui per la prima volta, quindi il saccheggio è quello che fai. L’abbiamo imparato da te. Abbiamo imparato la violenza da te. La violenza è stata ciò che abbiamo imparato da te. Quindi se vuoi che facciamo meglio, allora, dannazione, fai di meglio”.
Tamika Malcony, attivista afro-americana
Anche lunedì gli Stati Uniti sono stati teatro di mobilitazioni “pacifiche” diurne e di insurrezioni urbane notturne, che hanno sfidato il coprifuoco imposto in varie città e dato vita a saccheggi, come a Los Angeles o New York, dove sono impiegati ben 8 mila poliziotti.
Ci sono stati feriti sia tra i manifestanti sia tra gli agenti intervenuti, la polizia ha usato gas lacrimogeni, pallottole di gomma e “granate stordenti” (flash granades), anche in contesti differenti dal riot.
New York, Filadelfia, Los Angeles, Minneapolis, Louisville, Austin, Seattle, Las Vegas sono state teatro di violenza.
I media mainstream si concentrano sulle sommosse, producendo una narrazione che tenta di sviare l’attenzione dalle profonde ragioni delle rivolte in corso e dalle responsabilità bipartisan dell’establishment.
Rimangono tutt’ora valide le parole pronunciate a suo tempo da Martin Luther King: “la rivolta è il linguaggio degli inascoltati”.
L’America scopre che le lancette dell’orologio sociale si sono in gran parte fermate alla fine degli anni ’60, quando la Kerver Commision voluta dal presidente Lyndon Johnson, il 28 luglio del 1967, per indagare sulle cause delle rivolte urbane sentenziò: “le istituzioni bianche le hanno create, le istituzioni bianche le mantengono, e la società bianca le perdona”.
È l’establishment, oggi più di ieri, quell’1% che è riuscito ad approfittare anche della pandemia per arricchirsi, che ne porta la responsabilità.
Trump, alla fin fine, ne è l’espressione più coerente. Senza ipocrisie...
Dopo essersi fatto spianare la strada dalle forze dell’ordine, a Washington, per recarsi dalla Casa Bianca alla Chiesa Episcopale di San Giorno e farvi ritorno, il tutto per posare per una foto con la Bibbia, Trump si rifiuta di rispondere alle domande dei giornalisti.
In questa cornice che ricorda una delle scene cult di Apocalypse Now, in cui, per fare surf un ufficiale statunitense in Vietnam fa “ripulire” la baia popolata di vietnamiti – ci mancava solo il Presidente che dichiarasse: I love the smell of teargas in the morning – un giornalista gli ha chiesto: “Presidente è ancora una democrazia?”.
Se dovessimo giudicare dalle sue parole, dovremmo definirla una democrazia piuttosto “castrense”, dove la vocazione bellica esterna si coniuga con la militarizzazione all’interno.
Come ha ricordato Cornel West, storico studioso e militante afroamericano sul The Guardian, questo martedì: “l’incremento della militarizzazione della società statunitense è inseparabile dalle sue politiche imperiali” (211 interventi delle forze armate degli USA in 67 paesi dal 1945).
Ma stavolta il mentitore seriale, imprenditore del razzismo e istigatore all’odio, forse ha superato la soglia dello sceriffo “Legge ed Ordine” – una reincarnazione in sedicesimi di Nixon – con una vera e propria dichiarazione di guerra al popolo americano.
Persino il capo della polizia di Houston, Art Acevedo, ha dichiarato di fronte alle telecamere della CNN, rivolgendosi direttamente al Presidente “se non hai niente di costruttivo da dire, per favore, tieni la bocca chiusa!”
Ecco cos’ha detto Trump:
“Se una città o uno stato rifiuta di intraprendere le azioni necessarie per difendere la vita e la proprietà dei propri residenti, dispiegherò l’esercito degli Stati Uniti e risolverò rapidamente il problema al posto loro. Sto anche intraprendendo azioni rapide e decisive per proteggere la nostra grande capitale, Washington, DC. Quello che è successo in questa città ieri sera è stato una vera vergogna. Mentre parliamo, sto inviando migliaia e migliaia di soldati pesantemente armati, personale militare e forze dell’ordine per fermare la rivolta, il saccheggio, il vandalismo, gli assalti e la distruzione sfrenata della proprietà”.
Parole che sono macigni, e che colpiscono per il doppio standard che il Presidente ha sempre tenuto, da un lato, nei confronti dei suprematisti bianchi armati di tutto punto, nonostante i reiterati episodi di violenza di cui sono stati protagonisti – tra cui la morte di Heather Heyers nel 2017 a Charlottesville – e dall’altro nei confronti di coloro che si stanno mobilitando (anche pacificamente) contro l’ennesimo omicidio di un afroamericano da parte della polizia.
Lasciamo il commento a Kristen Clarke intervistato dal canale di informazione nord-americana indipendente “Democracy Now”.
Queste le parole del presidente e direttore esecutivo del Lawyers’ Committee for Civil Rights Under Law:
“Il discorso del presidente Trump equivaleva quasi a una dichiarazione di guerra agli americani, agli americani pacifici che sono in strada in questo momento e stanno esercitando il Primo Emendamento per parlare, e per discutere del problema di lunga data della violenza della polizia e della violenza razziale che ha assediato la nostra nazione.
Il presidente Trump ha invocato l’Insurrection Act del 1807. È una legge che è stata usata in passato per schierare i militari negli Stati per affrontare, ad esempio, la resistenza agli ordini di “desegregazione” messi in atto per l’Università del Mississippi. Quando i funzionari erano ostili e recalcitranti, il presidente Kennedy ordinò che le truppe entrassero per costringere lo Stato a conformarsi alla legge, in questo caso la legge sui diritti civili che richiedeva la desegregazione.
Abbiamo visto il presidente Bush schierare le forze armate in Louisiana per aiutare i soccorsi dopo l’uragano Katrina, ma ciò è accaduto in coordinamento con i funzionari dello Stato della Louisiana.
Oggi, invece, Trump cerca di schierare i militari negli Stati di tutto il nostro paese passando sopra le obiezioni dei funzionari statali e con l’unico e singolare scopo di mettere a tacere gli americani.
In molti modi, questa è la morte della democrazia, perché le persone che sono in strada in questo momento hanno un unico obiettivo: garantire che in questo momento non voltiamo le spalle al lavoro da tempo necessario per liberare la nostra nazione dal flagello della violenza della polizia, che ha provocato innumerevoli morti di afroamericani disarmati.”
Bisogna sempre distinguere tra le semplici minacce e l’iniziativa vera e propria. Ma con la Guardia Nazionale dispiegata in 26 Stati – più della metà, quindi – per volere dei governatori locali, sarebbe comunque un discreto salto di qualità.
Lasciamo la parola a Wiliam Arkin – autore tra l’altro di Top Secret America: The Rise of the New American Security State – intervistato insieme a Clark dallo stesso canale di informazione:
“Questa non è l’unica condizione in cui il presidente può chiamare le forze federali. E nel caso del Distretto di Columbia, ad esempio, ha già attivato la Guardia Nazionale.
Quindi, in effetti, ora abbiamo una guardia nazionale nel nostro paese, da ieri, sotto il controllo federale. E ci sono stati poliziotti militari e soldati di fanteria trasferiti da Fort Drum, New York, da Fort Riley, Kansas e da Fort Bragg, nella Carolina del Nord, verso l’area DC, e ora si stanno radunando nelle basi militari in quella che viene chiamata Force Protection Condizione Delta, la più alta condizione, pronta a prendere il controllo di Washington, DC, se il presidente lo ordina.
Quindi abbiamo questa situazione molto fluida e difficile perché ci sono già 20.000 guardie nazionali per le strade dell’America. La Guardia è stata mobilitata in 26 diversi stati e nel Distretto di Columbia.”
Ma non si tratta solo di un dispiegamento di forza che non ha precedenti recenti; è un controllo “molecolare” di tutto ciò che sta accadendo, come se chi si stesse mobilitando risultasse più all’interno del paradigma del “nemico interno”, un vecchio vizio degli apparati che dal maccartismo degli anni ’50 al Cointelpro negli anni ’60-‘70 – rimanendo al “Dopoguerra” – non è mai stato dismesso.
Ancora Arkin:
“Il governo federale ha fatto molte cose, tra cui il monitoraggio dei social media, l’intercettazione delle telefonate, l’intercettazione dei cellulari, l’uso dei cellulari per localizzare le persone, l’uso di droni, aerei di sorveglianza, pilotati dall’FBI, dalla dogana e Protezione delle frontiere e da parte dei militari, compresi elicotteri che hanno sorvolato le città degli Stati Uniti per condurre missioni di sorveglianza.
Tutto ciò è stato fatto nelle ultime 24-48 ore. Ed è un uso discutibile della forza militare. Ma in aria e facendo quella sorveglianza, se in effetti è fatto sotto il controllo dei governatori e fornisce tali informazioni ai governatori in modo che siano in grado di comandare le loro forze, per ottenere una migliore consapevolezza della situazione e migliorare”.
La rabbia non sembra placarsi, non sembrano esserci exit strategy all’orizzonte vista tra l’altro la pandemia e le sue conseguenze.
“Enough is enough” ha gridato Tamika Malcony, più che uno sfogo una canzone di battaglia che sta risuonando ogni giorno e soprattutto ogni notte negli States.
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