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17/08/2020

Bielorussia - Obiettivi e interessi di classe delle parti in campo

Due manifestazioni hanno segnato la giornata del 16 agosto a Minsk: quella dell’opposizione (la russa Interfax, parlava ieri di “alcune centinaia di migliaia” di persone) e quella pro-Lukašenko, cui, secondo il Ministero degli interni bielorusso, avrebbero preso parte circa 70.000 persone.

Sempre ieri, Lukašenko e Putin hanno discusso telefonicamente della situazione bielorussa e il presidente russo ha ribadito la “disponibilità a fornire la necessaria assistenza, sulla base del Trattato istitutivo dello Stato unitario e anche, se necessario, attraverso l’Organizzazione del Trattato di sicurezza collettiva”.

Una precisazione, quest’ultima, che esprime le preoccupazioni russe per i possibili scenari che potrebbero condurre la Bielorussia nell’abbraccio della NATO.

“I carri armati e gli aerei sono a 15 minuti di volo dai nostri confini”, ha detto “bats’ka” Lukašenko intervenendo al meeting in suo appoggio, “risuonano i cingoli delle truppe NATO alle nostre porte. Lituania, Lettonia, Polonia e, sfortunatamente, la nostra fraterna Ucraina e i suoi leader, ci ordinano di tenere nuove elezioni. Se solo obbediamo loro, ci avviteremo e non stabilizzeremo mai il nostro sistema istituzionale. Periremo come stato, come popolo, come nazione”.

La manifestazione a sostegno di Lukašenko era una delle iniziative che varie forze della sinistra bielorussa e russa auspicavano sin dal momento dello scoppio delle dimostrazioni “europeiste” succedute al voto che, il 9 agosto, ha dato l’80% dei consensi al “bats’ka” bielorusso. Anche il PC di Bielorussia, che già lo scorso 11 luglio aveva dichiarato che “non permetteremo alle forze distruttive di destabilizzare il paese”, ha preso parte al meeting pro-Lukašenko.

Nonostante la nutrita partecipazione alla manifestazione dell’opposizione, il filosofo bielorusso Aleksej Dzermant ritiene che l’insuccesso (per ora) della “majdan” bielorussa possa spiegarsi col fatto che “l‘élite al potere è monolitica, non c’è scissione ideologica, nessuno ha esitato o disertato. Lukašenko gode di una vera autorità”.

Dzermant ricordava nei giorni scorsi che “il potenziale di protesta si è accumulato da diversi anni” e in larga parte è stato facilitato dagli errori nella sfera socioeconomica: il decreto sui parassiti del 2017, la non riuscita procedura per il calcolo di stipendi e anzianità, i fallimenti delle politiche giovanili; in ultimo, la mancanza di chiare spiegazioni durante la pandemia.

Dzermant aveva invitato le autorità a dimostrare che “l’opposizione non è maggioranza, come essa si autoproclama”: ci sono “diversi modi per dimostrarlo. Uno di questi sono le manifestazioni di massa a sostegno dell’attuale capo di stato. Un altro è l’appello del presidente, ai suoi sostenitori, a radunarsi in una delle piazze centrali di Minsk. Ora è importante fare affidamento sul proprio elettorato, che deve sentire la propria unità”.

Più o meno su questa linea era intervenuto anche il politologo russo Aleksandr Buzgalin che, in un video trasmesso l’11 agosto da Krasnoe TV, aveva indirettamente esortato Lukašenko, a suo giudizio esponente di un “capitalismo semi-periferico paternalistico” e “paternalistico-nazionalista”, a prendere esempio addirittura da Lenin, che non temeva, nemmeno nei periodi più aspri della guerra civile e del terrorismo bianco, ad “andare nelle piazze a parlare ai sostenitori del potere sovietico”.

C’è comunque chi, da diverse parti, si pone la domanda di cosa sarà la Bielorussia senza Lukašenko, alla guida del paese praticamente dal 1994. Il politologo armeno Ervand Bozojan elenca varie ragioni per cui bats’ka difficilmente riuscirà a rimanere al potere.

Come contropartita per la fine delle sanzioni UE, ricorda Bozojan, Minsk ha concesso libertà d’azione alle Fondazioni occidentali impegnate a “illuminare” la gioventù bielorussa: in primo luogo la USAID. Lukašenko non ha perso il 9 agosto, ma nei giorni successivi, continua Bozojan, quando ha deciso di ricorrere alle maniere forti. Non ha considerato l’impatto sociale della crisi economica, aggravata dal Covid; non ha considerato la “stanchezza” verso di lui, attivata professionalmente dall’esterno coi giovani “illuminati” alla democrazia, come era accaduto a metà anni ’30, quando Germania e Polonia avevano “illuminato” la gioventù di quella parte della Bielorussia occidentale occupata dalla Polonia.

E, però, anche l’Occidente non era pronto per questa “rivoluzione”. Qui erano fiduciosi che sarebbero stati in grado di trasformare Lukašenko in una “anitra zoppa” e allontanarlo da Mosca. Pertanto, anche l’Occidente è confuso: non sanno come reagire per impedirgli di avvicinarsi alla Russia.

Pare però che l’Occidente abbia già predisposto le proprie mosse: punta a che bats’ka nomini Primo ministro l’inamovibile Ministro degli esteri Vladimir Makej, sicuri che questi firmerà immediatamente tutti i documenti (già predisposti) di cui hanno bisogno Washington e Bruxelles: ritiro della Bielorussia dallo Stato unitario con la Russia, introduzione di truppe NATO.

È così che, dalla Lituania, seguendo il copione venezuelano, la “Guaidò” bielorussa Svetlana Tikhanovskaja ha avviato la creazione di un “Consiglio di coordinamento per garantire il trasferimento dei poteri” e ha esortato i paesi europei a contribuire a organizzare un dialogo con le autorità bielorusse: ovviamente, per il trasferimento dei poteri all’opposizione.

Opposizione dietro cui, in maniera aperta, opera quella Polonia che non ha mai smesso di pensare alla Bielorussa come a “cosa propria”, come lo erano state Ucraina e Bielorussia occidentali dal 1919 al 1939, con il dittatore filo-nazista Józef Piłsudski della 2° Reç Pospolita; quella Polonia che ha sempre interferito negli affari della Bielorussia e continua a farlo, ad esempio finanziando i media “indipendenti” bielorussi (oltre dieci milioni di dollari per il canale Belsat), come dichiarato candidamente anche dal Primo ministro Mateusz Morawiecki, che al Seim ha illustrato il programma a sostegno della società civile bielorussa.

“I rifugiati politici bielorussi”, ha detto Morawiecki, “troveranno aiuto e protezione in Polonia. Siamo pronti ad accogliere chi è costretto a fuggire dal Paese vicino a causa delle proprie convinzioni politiche”.

Anni fa, l’americana StratFor pronosticava che “verso il 2030 la Polonia dominerà su Bielorussia e Ucraina... e verso il 2045 la Polonia riunirà intorno a sé Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Romania e stabilirà un protettorato su Slovenia e Croazia. Così per la metà di questo secolo l’Europa sbalordita scorgerà sulla sua carta un nuovo impero, la Rec Pospolita polacca, come nel XVII secolo, da mare a mare”. Quale generosa solidarietà coi “democratici” bielorussi!

Ora, che ci siano pochi dubbi sul contenuto delle manifestazioni dell’opposizione sostenuta da Polonia e Lituania per conto proprio e conto terzi, lo esprimono anche solo i simboli sbandierati, che rievocano quelli dei collaborazionisti filo-nazisti del 1941, con la bandiera bianco-rosso-bianca, i canti degli emigrati bielorussi del dopoguerra (quelli che fuggirono al seguito delle truppe hitleriane, all’arrivo dell’Esercito Rosso).

Un video dell’ottobre scorso è abbastanza indicativo dell’atteggiamento dell’opposizione. Significativo lo stupore di questa “ämagara” (combattente) bielorussa nell’apprendere, nell’anno di grazia 2019, (qui, al minuto 3:14) che nel 1999 USA e NATO avevano bombardato le città serbe; in ogni caso, si riprende prontamente, convinta che fosse “loro diritto contro il dittatore Miloševič”. Questo, esteriormente.

In concreto, alcuni punti “edificanti” del programma socio-economico “democratico”, sono sufficienti a fugare ogni dubbio: “Per attrarre investitori stranieri”, è detto nel programma, “sono necessarie le seguenti misure: privatizzazioni su larga scala; sviluppo del mercato fondiario”. In campo sanitario, si ricorda che in “Bielorussia esiste un sistema sanitario sovietico con un gran numero di ospedali”; dunque, si dovranno “ridurre i posti letto in eccesso e ottimizzare la gestione sanitaria”, dato che “il nostro paese è tra i primi dieci al mondo per posti letti pro capite, cioè 1,5-2 volte più degli indicatori dei paesi UE”.

Nel campo dell’istruzione: “sviluppare un vero e proprio autogoverno nelle istituzioni educative, con la spoliticizzazione statale del settore dell’istruzione e l’espansione dell’autonomia e della libertà accademica”.

Tra i firmatari del documento: il raggruppamento destro-liberale BNF (Fronte popolare bielorusso); il partito della destra neoliberista BSDG (Assemblea social-democratica bielorussa) creazione di Stanislav Šuškevič, l’ex presidente che nel 1991, insieme a Boris Eltsin e Leonid Kravčuk, aveva decretato a tavolino la fine dell’URSS; il liberal-conservatore Partito Civile Unito di destra, che negli anni ’90 aveva collaborato con l’Unione delle forze di destra di Boris Nemtsov; il Partito della libertà e del progresso, fautore della euro-integrazione; i Cristiano-democratici bielorussi, che predicano l’equiparazione delle ideologie nazista e comunista.

Dunque, si dice a Minsk, se con gli scontri nelle strade il quadro è abbastanza chiaro – l’ennesima “rivoluzione colorata” – è però il caso di fare chiarezza sugli scioperi nelle imprese di stato. Quali sono le motivazioni degli operai? Forse i salari non pagati per tempo? Ma, pare che in questo senso non vi siano lamentele: gli slogan non esprimono insoddisfazione, non ci sono richieste specifiche. Soltanto “Lukašenko vattene”.

Ci sono pochi dubbi “che gli scioperi dei lavoratori siano stati avviati dai direttori delle fabbriche. E sappiamo anche perché: sono scontenti che in tutte le altre ex repubbliche dell’URSS i direttori siano stati i primi a trarre vantaggio dalla divisione e privatizzazione delle aziende, e siano stati loro a diventarne proprietari, oppure abbiano svenduto le attrezzature e portato i soldi all’estero. In Bielorussia non era andata così. Ora, però, se gli operai contribuiranno a far fuori Lukašenko, saranno loro stessi i primi a soffrirne. Le fabbriche saranno chiuse e svendute”.

Che i grossi capitali, anche russi, puntino alle imprese bielorusse da privatizzare, è cosa risaputa da tempo. Ora, aveva detto nei giorni scorsi bats’ka, “se uno non vuole lavorare, prego; non la trascineremo. Ma, se Belarus’kali (concimi di potassio) sciopera due giorni, russi e canadesi si rallegreranno, e arriveranno sul nostro mercato. Quanto a MTZ, MAZ (auto e trattori) e altre: oggi non produrrete 10 trattori, domani verranno tedeschi americani e russi con le loro macchine”.

Intanto, mentre “6000 Sardine” invitano “a sostenere la petizione che chiede di non riconoscere il voto in Bielorussia”; mentre il “quotidiano comunista” (il manifesto) parla di “rivoluzione democratica”; mentre Internazionale socialista, Partito dei socialisti europei, Verdi europei annunciano il non riconoscimento dei risultati elettorali e il Partito della Sinistra europea continua a condannare il regime bielorusso per “violazione dei diritti umani” e parla di “solidarietà con gli oppositori del sistema autocratico”, in Russia il RKRP (Partito comunista operaio russo) ha lanciato un appello a “Non consentire che si sviluppi la majdan bielorussa”.

RKRP afferma che, pur non potendo giudicare “fino a che punto i risultati elettorali corrispondano alla realtà, notiamo solo che l’opposizione non aveva riconosciuto i risultati prima ancora delle elezioni”. L’opposizione non può “perdonare a Lukašenko di non aver seguito il corso di Gajdar in Russia”, la “terapia d’urto, la privatizzazione predatoria; bats’ka non ha permesso le riforme finanziarie antipopolari, che dall’oggi al domani ridussero i russi in povertà. Al tempo stesso, non nutriamo illusioni e comprendiamo che il modello che ha costruito è comunque un modello di capitalismo. Vale la pena sottoporre Lukašenko a serie critiche per il fatto che è in gran parte responsabile dell’attuale situazione, avendo intrapreso un corso verso il capitalismo e il mercato. Ha cercato di preservare le garanzie sociali per le persone, ma non ha voluto fare affidamento sui lavoratori. Non esiste un mercato buono per i lavoratori: prima o poi porta sempre a una majdan, come forma di presa del potere da parte dei grandi capitali finanziari. Il potere della borghesia è sempre essenzialmente la dittatura della classe borghese. Questa dittatura può assumere varie forme, ma l’essenza è la stessa: la dittatura degli sfruttatori contro gli sfruttati”.

Inoltre, sostiene il RKRP, “non possiamo chiudere gli occhi sul fatto che Lukašenko segua un corso capitalista, il rafforzamento dell’assolutismo presidenziale e l’intensificazione dello sfruttamento dei lavoratori. Questa politica ha portato alla crescita dei sentimenti piccolo-borghesi e del malcontento tra i lavoratori. Tutto ciò è servito come base per organizzare le proteste dell’opposizione. Allo stesso tempo, si deve ribadire che gli scioperi organizzati dal quartier generale delle forze filo-imperialiste e volti a soddisfare le richieste del majdan sono inequivocabilmente reazionari”.

In effetti, il politologo Ruslan Kostjuk ricorda come difficilmente si possa definire con “una sola parola il carattere politico del regime personalista sviluppatosi con Alexander Lukašenko, ma è ovvio che fin dall’inizio ha avuto (soprattutto nella dimensione socio-economica) una potente componente di sinistra”. Non a caso, negli anni 2000, “Hugo Chavez aveva definito la Bielorussia un autentico stato sociale, in cui praticamente non c’è sfruttamento ... A questo proposito, è rilevante il modo in cui il movimento di sinistra internazionale reagisce a ciò che sta accadendo in Bielorussia”; si vede nelle congratulazioni per il risultato elettorale espresse non solo dal Partito Comunista di Bielorussia, ma soprattutto da Xi Jinping, dal Viet Nam, alla Siria, dal Venezuela al Nicaragua.

E ancora ieri, in un nuovo video trasmesso da Krasnoe TV, Buzgalin ha definito “positivi gli sviluppi”, con larghi strati di lavoratori che “hanno un atteggiamento negativo verso la burocrazia paternalistica; non appoggiano gli slogan dell’opposizione, ma si muovono per la difesa dei propri interessi sociali, contro la profonda distanza oggi esistente tra le masse e il potere capitalistico: sia quello di Lukašenko quale esponente del capitale di stato, sia il capitale privato”.

In ogni caso, ha detto Buzgalin, la sola alternativa a bats’ka sarebbe oggi costituita dal “neo-liberalismo, che ha i propri agenti nei rappresentanti bielorussi del capitale globale: sia questo il medio o il grande capitale bielorusso, o l’intellighentsija che si riconosce in esso”.

E, però, scrive ROTFront, se in “Ucraina la borghesia è riuscita a neutralizzare la classe operaia, in Bielorussia, la borghesia imperialista, che sta dietro al majdan, sembra aver fatto un altro passo avanti, convincendo una parte dei lavoratori che il majdan bielorusso sia una democrazia”.

Le majdan “ucraina, bielorussa o americana hanno ragioni comuni: i battibecchi intestini tra capitalisti. Majdan non è legata alla lotta cosciente per il socialismo e la democrazia, ma è controllata dalla borghesia imperialista... Se i comunisti non indicano al proletariato con una politica operaia, allora il proletariato persegue una politica borghese. Il compito dei comunisti è imparare a distinguere gli interessi di quale classe (o classi) si celino dietro le atrocità del majdan”.

Così anche il Partito comunista operaio di Bielorussia: “Noi, i lavoratori coscienti di Bielorussia, dichiariamo che la crisi economica e politica nel paese è una conseguenza diretta del rifiuto del socialismo e del potere sovietico... Mettiamo in guardia il governo, il parlamento e il presidente: il tuo flirtare con la borghesia imperialista dell’Occidente e con i nazionalisti bielorussi, così come i mercanteggiamenti politici con la Russia, hanno contribuito a preparare e attuare la majdan in Bielorussia. Ci rivolgiamo al majdan e al governo: qualsiasi tentativo di rafforzare la dittatura della proprietà privata, statale o dei capitalisti privati, ‘interni’ o stranieri, con la scusa di ‘elezioni democratiche’ o, di contro, con il pretesto di ‘ristabilire l’ordine’ che peggiora la situazione e viola i diritti lavoratori, lo interpreteremo quali azioni dirette contro la classe operaia e il popolo bielorusso”.

Ancora una volta, dunque, sardine o squali che siano, primo obiettivo è nascondere obiettivi e interessi di classe degli attori in campo.

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