La scelta della candidata alla vice-presidenza da
parte di Joe Biden è ricaduta prevedibilmente su una delle principali
personalità politiche di colore del Partito Democratico. Con la
senatrice della California, Kamala Harris, l’ex vice di Obama ha
sostanzialmente confermato le due direttive lungo le quali si svilupperà
la sua campagna per cercare di battere Trump da qui a novembre:
rimettere al centro dell’azione politica gli interessi del “Deep State”
minacciato dall’attuale amministrazione e promuovere politiche
identitarie e razziali per dare una patina di finto progressismo alla
candidatura del “ticket” democratico.
55 anni con padre giamaicano e
madre Tamil, Kamala Harris era stata fino alla fine del 2019 essa stessa
una dei candidati alla nomination del Partito Democratico, ostentando
spesso feroci attacchi verbali contro Joe Biden. Nella sua carriera
politica e in quella ancora più lunga da procuratore nel suo stato di
origine non vi è nulla di realmente progressista, se non occasionalmente
nella retorica. Ciononostante, il solo fatto di appartenere a una
minoranza etnica rappresenterebbe per i democratici e i media ufficiali a
essi vicini un evento di portata storica e potenzialmente in grado di
aprire un percorso riformista per la società USA.
La scelta della senatrice Harris
ha in parte a che fare con le dinamiche elettorali all’interno del
Partito Democratico, ancora una volta da collegare all’autentica
ossessione per il fattore razziale degli ambienti “liberal”
d’oltreoceano. Dopo le prime pesantissime sconfitte nelle primarie a
inizio anno, Biden era riuscito a rimettere in piedi la propria campagna
per la Casa Bianca e a fermare la corsa di Bernie Sanders grazie
soprattutto alla mobilitazione dell’establishment democratico di colore.
L’ex vice-presidente aveva così conquistato la South Carolina con il
contributo decisivo dell’elettorato afro-americano, verso cui la
selezione nella giornata di martedì di Kamala Harris è un evidente
segnale per ottenerne l’appoggio anche a novembre.
Ancora di più, come accennato in precedenza, la
presenza della senatrice californiana nel “ticket” democratico serve a
fare appello a quella fetta di potenziali elettori democratici della
classe media più sensibili alle questioni di identità razziale che di
classe. Inoltre, la candidatura di una donna di colore, cioè una novità
assoluta per gli Stati Uniti, strizza l’occhio a coloro che sono scesi
nelle strade di centinaia di città americane dopo l’omicidio di George
Floyd nel mese di maggio per protestare contro la brutalità della
polizia.
Per l’età e le precarie condizioni soprattutto di
salute mentale del candidato democratico alla Casa Bianca, nella
prossima amministrazione la Harris potrebbe finire per ricoprire un
ruolo decisamente più rilevante rispetto a quello solitamente riservato
al vice-presidente. La carica per cui sarà candidata potrebbe poi con
ogni probabilità servire come trampolino di lancio per una corsa alla
presidenza tra quattro o otto anni, portando a compimento una
transizione “moderata” nella leadership democratica, tuttora in mano a
una vera e propria gerontocrazia.
Al di là delle apparenze, la
traiettoria politica di Kamala Harris è perfettamente in linea con
quella del 77enne Joe Biden, di fatto uno dei politici democratici con
il curriculum più reazionario degli ultimi quattro decenni. La Harris è
una frequentatrice degli ambienti di potere più esclusivi della
California settentrionale, dove aveva iniziato a farsi largo nei primi
anni '90 del secolo scorso. Anche grazie al suo matrimonio con il
noto avvocato di corporations e dell’industria dell’intrattenimento di
Hollywood, Douglas Emhoff, la candidata democratica è posizionata
inoltre saldamente tra lo 0,1% degli americani più facoltosi.
Prima
come vice-procuratore distrettuale della contea di Alameda, che include
la metropoli di Oakland nella “Bay Area”, e poi procuratore a San
Francisco, la futura senatrice si è sempre distinta per la difesa di
iniziative “law and order”. Nel 2004 si candidò con successo per
diventare procuratore generale della California, conducendo una campagna
multi-milionaria contro il detentore della carica, Terence Hallinan,
notoriamente collegato agli ambienti radicali e del sindacato dello
stato.
Il sostegno del business e degli
ambienti ufficiali del potere democratico in California, incluse le
potenti donne che siedono o sedevano al Congresso di Washington (Nancy
Pelosi, Dianne Feinstein, Barbara Boxer), è stato decisivo nell’ascesa
politica della neo-candidata alla vice-presidenza. Nel 2016 arrivò così
il seggio al Senato degli Stati Uniti e i leader del partito, sempre
nell’ottica della promozione di politiche identitarie, le assegnarono
posizioni di rilievo in commissioni importanti, solitamente off-limits per i neo-eletti.
L’insistenza sul rilievo della
scelta di una donna di colore come “running mate” serve anche a far
parlare il meno possibile dei precedenti di Kamala Harris nel suo ruolo
di procuratrice in California. Durante il suo mandato a San Francisco,
il tasso di condanne salì in modo vertiginoso ed è ampiamente
documentato il suo frequente ricorso a metodi moralmente discutibili e
dalla dubbia legalità per prevalere in aula. Nel 2012, ad esempio, un
tribunale californiano sentenziò che l’ufficio del procuratore, diretto
da Kamala Harris, aveva violato ripetutamente i diritti degli imputati,
tenendo nascoste informazioni cruciali sulla condotta di un laboratorio
della polizia scientifica coinvolto in casi di corruzione e di
falsificazione dei rapporti stilati per numerosi processi.
Da procuratore generale della
California, infine, la Harris ha proseguito la sua battaglia contro i
diritti degli accusati e in difesa dell’apparato giudiziario e del
sistema ultra-vendicativo dello stato. La senatrice si era schierata ad
esempio contro le sentenze di condanna del regime carcerario
californiano, tristemente noto per il sovraffollamento e gli abusi
inflitti ai detenuti. Stessa posizione critica la Harris avrebbe tenuto
anche nei confronti di un verdetto di un tribunale distrettuale che
aveva dichiarato sostanzialmente anticostituzionale la legge dello stato
sulla pena di morte.
In generale, la scelta di Kamala
Harris costituisce una garanzia per i grandi interessi difesi dal
Partito Democratico che un’eventuale presidenza Biden metterà da parte
in fretta gli eccessi e gli elementi destabilizzanti, soprattutto sul
piano internazionale, che hanno caratterizzato la presidenza Trump. In
parallelo, l’enfasi sul genere e sull’appartenenza razziale della
possibile vice-presidente sarà l’elemento centrale, assieme al patetico
allineamento della “sinistra” del partito rappresentata da Bernie
Sanders, per contenere le tensioni che minacciano un’autentica
esplosione sociale in un paese dalle disuguaglianze gigantesche e in
profonda crisi economica.
A questo proposito, la Harris risulterà utile anche
per agitare alcune proposte entrate nella piattaforma programmatica del
Partito Democratico dal vago orientamento progressista. Proprio per
ritagliarsi uno spazio nelle affollate primarie del partito, la
senatrice della California nel 2019 aveva appoggiato qualche iniziativa
avanzata dai candidati più a “sinistra”, come Sanders e Elizabeth
Warren, sia pure quasi sempre in una versione più moderata.
Il
sostegno alla creazione di un piano sanitario pubblico da affiancare
alle assicurazioni private o l’aumento del salario minimo a 15 dollari
l’ora ne sono un esempio, anche se entrambi inadeguati a risolvere due
dei problemi più gravi della società USA e, oltretutto, con poca o
nessuna possibilità di essere adottati anche in caso di un successo a
valanga dei democratici nelle elezioni di novembre.
La candidatura di Kamala Harris,
così come quella di Joe Biden, verrà formalizzata nel corso della
convention che il Partito Democratico terrà in gran parte in maniera
virtuale a partire da lunedì prossimo a Milwaukee, nello stato del
Wisconsin. L’evento dovrebbe segnare anche un’accelerazione delle
donazioni dei grandi finanziatori che sostengono il partito. Già nelle
ultime settimane, d’altra parte, i media americani hanno dato notizia
del crescente impegno soprattutto di Wall Street per Biden, a conferma
che gli orientamenti della classe dirigente USA appaiono sempre più
favorevoli al “ticket” presidenziale appena completato, che promette di
essere tra i più reazionari della storia del Partito Democratico.
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