Un altro tipo di società è possibile, dice Stephanie Kelton, autrice di «Il mito del Deficit», Fazi Editore, un libro di economia che spacca, un libro alla portata di tutti, semplice, dirompente, chiaro, che inchioda i politici e i Governatori delle Banche centrali alle proprie responsabilità.
Investire nella sanità, nell’istruzione e nelle infrastrutture è possibile. Non abbiamo niente da perdere, se non i vincoli che ci siamo auto-imposti.
Per non cedere all’invito ad aumentare a piacere la spesa pubblica, ci siamo lasciati incatenare al nostro destino di disoccupati e di sottoccupati o di lavoratori poveri.
Spendendo, potevamo vivere all’altezza delle nostre possibilità. E invece abbiamo chinato la testa. Siamo andati avanti. Abbiamo creduto alle analisi degli economisti mainstream e dei politici che ci dicevano:
1) che il bilancio dello Stato è un secchio che bisogna prima riempire con nuove tasse, e che bisogna svuotare con parsimonia (riduzione delle spese), se non si vuole rimanere a secco;
2) che quando si rimane a secco bisogna imporre nuove tasse e tagliare le spese, e non chiedere altri soldi in prestito al mercato;
3) che i prestiti chiesti al mercato formeranno un mare nel quale annegheranno i nostri figli e i nostri nipoti;
4) che drenare denaro dal mercato significa sottrarlo alle aziende che ne hanno bisogno per fare investimenti e assumere lavatori;
5) che a prestarci i soldi sono soprattutto stati esteri, per esempio la Cina, che stanno diventando il nostro bancomat, e che quando decideranno di chiudere lo sportello saranno guai seri;
6) che tutto ciò spingerà verso una crisi fiscale dello Stato, e dunque verso uno sfacelo inimmaginabile, fatto di miseria, fame, suicidi di massa e desolazione, al confronto del quale la crisi della Grecia apparirà come un pranzo di gala.
Stephanie Kelton è un’importante economista di scuola MMT (Teoria Monetaria Moderna), è stata consulente economico di Joe Biden e Bernie Sanders, ed ex economista-capo per i democratici nella Commissione bilancio del Senato. Qui non c’è spazio per riassumere gli argomenti che Kelton produce e che mostrano come i sei punti siano costruiti intorno ad un mito principale, secondo cui il Bilancio dello Stato funziona come quello di una famiglia, e che per spendere bisogna prima avere incassato.
Lo Stato, dice Kelton, non ha bisogno di incassare per spendere. Lo Stato ha il potere di stampare moneta. Per comprare è sufficiente stampare una certa quantità di moneta e metterla nelle mani delle persone in grado di esprimere una domanda effettiva. E queste persone sono i lavoratori, ai quali questi soldi fiat, cioè creati dal nulla, permetterebbero di avere lavori ben pagati, e non lo schifo di quasi piena occupazione che si è avuta sotto l’amministrazione Trump, dove una fetta prossima al 40% della popolazione non percepisce una paga sufficiente per comprare un’assicurazione pensionistica e sanitaria.
Attenzione! Non si tratta di un dato macroeconomico americano. Si tratta di un dato macroeconomico che l’America di Clinton ha esportato in tutti i paesi OCSE – Italia compresa, dove circa il 40% dei lavoratori di aziende private (gente che si alza tutte le mattine e che “fa andà i man”!) guadagna un reddito annuo lordo inferiore ai 14 mila euro.
Si tratta di un dato macroeconomico – statistico – non c’entra con la sfiga, con il livello di formazione personale, eccetera. Non è (NON È) un destino individuale.
Voglio ricordare un mito, tutto italico, che Stephanie Kelton non tratta direttamente, ma che il suo libro contribuisce a smontare. Leggere per credere! È il mito secondo cui all’Estero un giovane italiano, con un titolo di studio di primo livello, è immediatamente assunto e ricoperto di fama, gloria e soldi.
Ogni tanto in televisione viene mostrato uno di questi giovani baciato dalla fortuna. Basta una “fuitina” negli States per vedere le Conglomerate dello S&P 500 ai suoi piedi.
Si tratta di un mito, sostenuto dalla logica esemplare con la quale funziona il mezzo di informazione – la televisione, soprattutto. Il cinema-azione (Deleuze) ci ha educati a percepire un concatenamento senso-motorio, una linea o una fibra che tiene l’universo, che prolunga gli avvenimenti gli uni negli altri, o assicura il raccordo delle percezioni di spazio. Se hai una laurea, non puoi fare lo spazzino. Se fai lo spazzino e sfogli un libro nella pausa pranzo, non sei regolare. In te c’è qualcosa che non va. Ti hanno seviziato da piccolo.
Se in televisione vedi un laureato italiano che in America viene coperto di soldi, mentre tu in Italia fai il cameriere con laurea in Agraria, in te c’è qualcosa che non va, e c’è qualcosa che non va con l’Università e le Imprese, dove i posti ci sarebbero, se a comandare non fosse la Mafia o il Patriarcato, e dove si entra solo se affiliati.
Il capitalismo, dove funziona, “fa il suo dovere”. Nel Mondo c’è un ordine. Non siamo (saremmo) persi in una casa degli specchi, non siamo naufraghi nello sciabordio universale, dove non ci sono assi, né centro, né destra né sinistra, né alto né basso, in un piano di immanenza, in un delirio spinoziano.
Gli americani abbastanza fortunati da vivere nelle aree dove i posti di lavoro sono in crescita, dice Kelton, spesso sono comunque obbligati ad accettare occupazioni peggiori di quelle che avevano prima. Questo fenomeno – per cui le persone vengono licenziate da lavori a buona retribuzione ma riescono a ritrovare solo lavori a basso salario non commisurati alle loro competenze e ai loro livelli di istruzione – rientra in quella che gli economisti chiamano sottoccupazione.
Lisa Casino-Schuetz, ad esempio, madre di due figli, ha un master post-laurea e aveva un posto di lavoro stabile con uno stipendio a sei cifre. Il suo impiego è scomparso e ha dovuto accettare un lavoro in un’azienda di servizi medico-sportivi a 15 dollari l’ora. Poi l’hanno licenziata anche da quel lavoro e ha trovato un impiego al servizio clienti di Amazon. Dopodiché anche quel contratto è svanito. «Ti chiedi: perché io? Cosa ho fatto di sbagliato?».
Perché io?
Ecco il risvolto psico-drammatico della logica esemplare. Se lui ce l’ha fatta, se è una questione personale tra lui e il lavoro, tra opportunità che ci sono e che lui sa cogliere, e che, al contrario, io non so cogliere, vuol dire che io sono uno sfigato, un incapace, una vergogna per amici e parenti, uno scarafaggio, una bestia che non merita di vivere.
O no?
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