Per comprendere il significato della strage di Modena del 9 gennaio 1950, che vide la morte di sei lavoratori e il ferimento di altri 200 ci si deve riferire al contesto in cui essa maturò.
Ministro degli Interni del governo De Gasperi era allora Mario Scelba, che già il Primo Maggio 1947 aveva negato ogni movente politico alla strage di Portella della Ginestra. Nel quadro della nascente guerra fredda, Scelba aveva cacciato dalla Polizia tutti i partigiani garibaldini, considerati comunisti, e aveva assunto al loro posto i cosiddetti “scelbiatti” cioè noti anticomunisti molti dei quali fascisti.
Inoltre, Scelba aveva costituito all’interno del ministero un ufficio riservato, diretto dal fascista Giuseppe Pieche, già responsabile degli approvvigionamenti italiani alle milizie franchiste e in seguito stretto collaboratore militare degli ustascia croati di Ante Pavelic.
Pieche era assunto ufficialmente come responsabile del servizio antincendio, ma in realtà il suo ufficio era destinato a creare un’organizzazione che doveva evitare con ogni mezzo, anche illecito, che il Partito Comunista arrivasse al governo.
In pratica, un’anticipazione di Gladio e di tante altre organizzazioni segrete anticomuniste e golpiste attuata anche attraverso il recupero nelle istituzioni di vecchi gerarchi e aguzzini fascisti. Un percorso ben chiaro che vent’anni dopo, nel 1969, porterà alla strage di stato.
In tale contesto, già nel 1948 la Polizia uccide 17 lavoratori e ne arresta quasi 15.000. Inoltre, nel 1949, nei mesi precedenti ai fatti di Modena ci sono altri tre eccidi, in cui muoiono braccianti e contadini impegnati nelle lotte per la riforma agraria: a Melissa, Montescaglioso e Torremaggiore.
In tutte queste occasioni, la polizia, dotata da Scelba anche di armi pesanti, non esita a sparare su dimostranti o lavoratori pacifici e inermi.
Le vicende di Modena, oltre al contesto politico nazionale, devono essere inquadrate in quello locale. Modena è una città in cui era forte la presenza di partigiani comunisti divenuti, dopo la guerra, sindacalisti CGIL e membri delle commissioni interne. Ciò provocava molte tensioni tra le rivendicazioni operaie e la volontà padronale di restaurare, con il sostegno del governo, il clima che si viveva nelle fabbriche durante il fascismo.
Il padrone delle Fonderie Riunite, Adolfo Orsi, che era anche proprietario dell’industria automobilistica Maserati, era un fascista che, in tale scontro, si distinse per livore antioperaio e per la volontà di non riconoscere i diritti sindacali dei lavoratori e le richieste di miglioramento della loro vita in fabbrica e fuori.
Già nel 1948 si hanno le prime avvisaglie di tale atteggiamento, quando Orsi decide di licenziare, per contrastare Consiglio di fabbrica e Commissione interna, 26 operai assunti provvisoriamente. I sindacati proclamano uno sciopero e Orsi passa alla serrata, cioè un provvedimento provocatorio e antisindacale. I 26 operai sono riassunti, dopo mesi di lotte e lunghe trattative ma il clima resta assai teso a causa delle prepotenze della proprietà.
Nel novembre del 1949 Orsi decide di licenziare 120 operai, riduce i salari e rifiuta di continuare ad accettare la presenza delle rappresentanze operaie. In breve si arriva alla decisione di aumentare i licenziamenti a 250, con il progetto finale di chiudere la fabbrica e riaprirla sostituendo i lavoratori con altri non sindacalizzati.
Orsi voleva anche ridurre i premi di produzione, addebitare la mensa agli operai e discriminare le donne, togliendo loro, per esempio, la pausa per l’allattamento. Si continuò così tra scioperi e serrate padronali sin quando la Camera del lavoro decise di convocare uno sciopero generale cittadino per la giornata del 9 gennaio.
Lo sciopero riuscì e la mattina del 9 gennaio oltre 10.000 lavoratori erano nelle strade di Modena. La proprietà era assente ma lo stabilimento era presidiato all’interno dai carabinieri, mentre ingenti forze di Polizia erano confluite a Modena dalle provincie vicine, con autoblindo, mitragliatrici e fucili di precisione.
La provocazione era costruita con grande precisione, poiché il questore aveva negato ai lavoratori qualunque piazza, in modo da poter caricare in qualunque luogo ci fossero assembramenti.
La strage iniziò verso le 10 del mattino, quando un carabiniere, davanti alle Fonderie, si avvicinò a un gruppetto di scioperanti, sparando in pieno petto a uno di essi.
Subito dopo, dal tetto della fabbrica altri carabinieri aprirono il fuoco con le mitragliatrici, uccidendo altri due scioperanti e ferendone molti che cercavano di mettersi in salvo. Un altro lavoratore fu picchiato con i calci dei fucili e quindi finito con un colpo di pistola. Altri due furono uccisi con colpi sparati dalle autoblindo, mentre cercavano di raggiungere Piazza Roma, dove i sindacalisti avevano cercato di riunire i lavoratori per sottrarli alla furia dei carabinieri e della polizia.
In oltre quatto ore di cariche e sparatorie morirono Angelo Appiani, Arturo Chiappelli, Arturo Malagoli, Roberto Rovatti, Ennio Garagnani e Renzo Bersani. Si conta che altri 200 manifestanti siano stati feriti, ma il numero è incerto perché molti rinunciarono a farsi medicare in ospedale per paura di essere denunciati.
La Prefettura di Modena emise un comunicato disgustoso in cui si attribuiva la responsabilità dei fatti ad azioni armate e aggressioni dei lavoratori alla polizia che sarebbe stata costretta a difendersi. Una versione che non poté reggere all’evidenza che, in realtà, si era trattato di un attacco premeditato e preparato dall’alto.
Le reazioni politiche a sinistra furono immediate e la denuncia di quanto accaduto fu fortissima da parte di esponenti politici e di intellettuali come Vittorio Gorresio e Luigi Salvatorelli. Per il giorno seguente fu proclamato lo sciopero nazionale dei metallurgici.
Il giorno 11 si svolsero i funerali delle vittime, che videro la partecipazione di circa 300.000 persone, con la presenza del segretario del PCI, Palmiro Togliatti, che pronunciò il discorso conclusivo, e del segretario della CGIL Giuseppe Di Vittorio. I funerali furono raccontati su l’Unità da Gianni Rodari, allora giovane cronista, e ripresi da Carlo Lizzani nel documentario I fatti di Modena che subì diversi interventi censori.
L’esito dei gravi fatti di sangue fu la stipula di un nuovo contratto sindacale e la riapertura senza licenziamenti delle Fonderie Riunite. Adolfo Orsi dovette lasciare la direzione del gruppo industriale (che tuttavia recuperò qualche anno dopo).
Al processo per i fatti di Modena fu dimostrato che non c’era stata alcuna azione violenta da parte dei lavoratori, ma che polizia e carabinieri avevano usato la forza per loro propria esclusiva decisione e fu anche disposto un risarcimento dello Stato alle famiglie delle vittime.
Tuttavia, il tributo di sangue pagato dalla classe operaia fu enorme e l’aggressività padronale, fatta di intimidazioni ai sindacati, licenziamenti e repressione riprese, in Emilia e in Italia, già poche settimane dopo la strage di Modena.
Per qualche ulteriore testimonianza sui fatti di Modena:
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