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07/01/2021

Le geometrie variabili dell’Unione Europea su pluralismo e democrazia

Se Peter Stano, portavoce dell’Alto rappresentante dell’Unione Europea, Josep Borrell, prima di chiedere, ”la liberazione immediata delle persone arrestate ad Hong Kong”, aggiungendo che “l’arresto coordinato di più di 50 attivisti pro-democrazia invia il segnale che il pluralismo politico non è più tollerato ad Hong Kong”, avesse contemporaneamente chiesto, ad esempio, la liberazione dei prigionieri politici catalani, ed avesse altresì espresso ex post un parere analogo su Madrid, forse avrebbe avuto uno straccio di credibilità.

Ma tant’è. Stano e Borrell probabilmente ignorano quella nota parabola del Vangelo che dice: ”Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio?” (Luca 6,41).

In Catalogna ci sono 11 persone in prigione accusate di “sedizione” e “malversazione” (le spese per tenere un referendum), con pene che variano tra 9 e 13 anni. Tra di loro due leader della società civile rei di aver organizzato pacifiche manifestazioni di massa partecipate da un milione di persone.

Il 13 ottobre del 2019, il Tribunale Supremo di Madrid, ha comminato agli indipendentisti catalani più di 100 anni carcere. Le pene più alte hanno colpito Oriol Junqueras, 13 anni (peraltro eletto parlamentare europeo), Raul Romera, Jordi Turul e Dolors Bassa a 12 anni. Carme Forcadell, a 11 anni e mezzo. Insieme a loro altri uomini e donne che avevano partecipato alle manifestazioni del tutto pacifiche ed al Referendum sull’indipendenza del 2017.

Prima della sentenza, molti di loro sono stati rinchiusi per due anni in carcerazione preventiva. E il 12 aprile 2020, la Corte Suprema Spagnola ha disposto che i prigionieri politici catalani non potessero lasciare il carcere nemmeno nel bel mezzo dell’esplosione della pandemia da covid19, respingendo la richiesta degli avvocati di confinamento in casa.

Oppure, sempre a proposito di democrazia e pluralismo, lo zelante portavoce dell’altissimo rappresentante UE avrebbe potuto dirci del mai avvenuto ravvedimento circa i fatti di Grecia del luglio 2015, quando, in spregio al risultato di un altro grande referendum popolare, Alexis Tsipras venne costretto a firmare un memorandum improntato ad una feroce austerity, che invece di alleviare la schiavitù del debito del suo paese, lo ha fatto sprofondare negli abissi di una crisi umanitaria gravissima dietro il ricatto di un debito infinito.

Dal 20 agosto 2018 la Grecia è uscita ufficialmente dal “programma di aiuti europeo”, avviato a maggio del 2010, ma è ancora dentro un tunnel nerissimo. Con oltre 288 miliardi di euro da restituire alla Troika (BCE, FMI e UE) non si può certo dire che la Grecia sia fuori da una crisi di cui non si vede la fine.

La Grecia odierna, dopo la “cura” che le è stata imposta dalla UE ci appare come un paese distrutto: non ha più industrie, il settore edilizio è fermo, le imprese chiudono, gli investimenti sono un miraggio, sanità e scuole sono al collasso.

Sempre più gente non si cura per mancanza di soldi ed è aumentata la mortalità infantile. Non ci sono soldi e non c’è lavoro. A ciò si aggiunge la presenza di tantissimi rifugiati e richiedenti asilo provenienti da Siria, Pakistan, Afghanistan, dall’Africa, Albania e, adesso, anche dalla Turchia (negli ultimi tre anni sono arrivati in Grecia migliaia di turchi che hanno richiesto asilo politico).

Mr. Stano avrebbe potuto dirci qualcosa circa le meraviglie della democraticissima Ucraina e parlarci della strage di Odessa del 2014. Il 2 maggio di 6 anni fa si consumava uno dei più efferati e sanguinosi delitti della storia recente ma oggetto di una rimozione senza precedenti.

Il massacro avvenuto nella Camera del Lavoro di Odessa, in Ucraina, fu il prologo al colpo di stato preparato e finanziato da potenze straniere e consumatosi in piazza Maidan a Kiev. La versione ufficiale parlò di 48 morti ma il conteggio ufficiale non rese mai conto delle denunce di scomparsa che si accumularono, fino ad ipotizzare un numero di molto superiore alle 100 vittime.

Nessun processo è mai arrivato a stabilire una responsabilità per quanto accaduto. Come per i cecchini di piazza Maidan, i golpisti non cercarono mai i colpevoli di quelle stragi, per evitare di autoaccusarsi.

Tutti i media occidentali sposarono la versione delle autorità bollando il tutto come scontro tra tifoserie ed incidente dovuto al fumo dell’incendio. Anche la RAI parlò di un “incidente” nonostante le tv presenti trasmettessero in diretta le immagini dalla piazza, le fiamme, le urla, gli spari, e la furia assassina dei nazionalisti ucraini.

Fu un “pogrom”, un massacro, programmato, preordinato, e portato a compimento con spietata determinazione. Il silenzio alternato a racconti inverosimili fu il modo in cui i media occidentali trattarono quell’orrore.

I golpisti ucraini godevano del pieno sostegno dell’Unione Europea e degli USA, pertanto andava difesa un’immagine che tenesse lontana la realtà delle bande di assassini nazisti, di criminali al governo, di stragi commesse, di giornalisti e esponenti politici massacrati di botte o eliminati fisicamente, come di lì a poco sarebbe accaduto anche al nostro Andrea Rocchelli, fotografo e giornalista, ucciso dagli stessi nazisti ucraini esattamente 22 giorni dopo la strage di Odessa, assieme al suo interprete Andrei Mironov.

Il leader del gruppo terroristico-nazionalista “C14”, Evgenij Karas, braccio armato dell’ex Presidente golpista Petro Porošenko, circa un anno fa, ha rivendicato pubblicamente la strage Odessa che ha definito “il trionfo della vita e del bene”.

Questa è l’Ucraina della “democrazia europeista” così cara anche agli italici demo-indivisivi. Anche il nuovo presidente ucraino, Vladimir Zelenskij, non ha mai speso una sola parola su autori e mandanti della moderna “Katyn” nazista, quella di Odessa. Nessun “democratico europeo” ha mai tremato stringendo la mano ai golpisti ucraini, mandanti ed esecutori diretti della strage di Odessa.

Anzi. L’11 luglio 2017, l’Unione Europea ha stipulato un ”accordo di associazione con l’Ucraina” che, nei suoi enunciati principali, “promuove l’approfondimento dei legami politici; il rafforzamento dei collegamenti economici; il rispetto dei valori comuni(!)”.

Ma la sostanza dell’accordo sta nella sua parte economica ed è nell’istituzione della ”zona di libero scambio globale e approfondita” (DCFTA). I primi capitoli politici sono stati firmati nel marzo 2014, esattamente un mese dopo il golpe e dopo le elezioni presidenziali in Ucraina, i capitoli rimanenti sono stati firmati il 27 giugno 2014.

Parti importanti dell’accordo erano già applicate in via provvisoria dal 1º settembre 2014, ovvero, 7 mesi dall’avvento del governo golpista riconosciuto dalle potenze occidentali. E l’Unione Europea era ben consapevole che a quel governo partecipavano diversi membri di organizzazioni esplicitamente naziste.

E, last but not least, il portavoce UE in questione, avrebbe potuto esprimere il proprio profondo rammarico contro la grave decisione dell’Assemblea Nazionale Francese del 15 dicembre scorso di approvare la proposta di legge sulla “sicurezza globale” voluta da un Macron sempre più autoritario ed autoreferenziale come un Erdogan qualsiasi.

La sua legge sulla «sécurité globale», punisce duramente chi riprende le violenze poliziesche: un problema molto serio in Francia. Basti pensare che, solo ad ottobre del 2019, dopo un anno di cortei e manifestazioni, già si contavano 15 morti, oltre 3.000 feriti (molti rimasti permanentemente invalidi) e quasi 5.000 arresti.

Una legge marcatamente repressiva contro le proteste sociali che vanno avanti da più di due anni ad opera dei Gilet gialli e dei giovani delle banlieue che hanno eroso il consenso per le forze dell’ordine ma che non ne hanno affatto attenuato la brutalità.

Ne sa qualcosa Assa Traoré, il cui fratello, Adama, un francese di origini maliane di 24 anni, morì alla periferia di Parigi nel luglio del 2016 mentre era sotto la custodia dalla polizia. Adama era stato fermato da tre agenti dopo un diverbio durante un controllo dei documenti. Perse poi conoscenza a bordo dell’auto della polizia per poi uscire cadavere dai locali del commissariato.

Ma poi, lo stesso Macron, avrebbe tanto da chiarire ancora circa il suo personalissimo concetto dello stato di diritto e di cosa significhi per lui il rispetto dei diritti fondamentali dopo la maestosa accoglienza riservata dalla Francia al presidente egiziano Abdel Fattah Al-Sisi.

Un’accoglienza sfociata nel conferimento, quasi sottobanco, della Legion d’onore ad un feroce dittatore, il quale, da quando è salito al potere con un colpo di stato militare, ha avviato una repressione feroce e senza limiti, contro oppositori del regime, giornalisti, militanti dei diritti umani, sindacalisti, semplici cittadini desiderosi di libertà d’espressione e di democrazia, rappresentanti di minoranze etniche.

Nelle sue prigioni stracolme, in cui si stima siano rinchiusi circa 60.000 prigionieri politici, si pratica la tortura e si uccide. Ma sono tanti gli interessi che legano il suo Paese all’Egitto. Uno su tutti: la Francia è il primo esportatore di armi in Egitto a livello globale.

In tal caso i diritti umani e politici possono attendere così come per l’Italia che ha appena venduto a quel paese una imponente e costosissima fregata militare, in cambio del silenzio sull’orrenda fine di Claudio Regeni, sulla ingiusta detenzione di Patrick Zaki e sulle condizioni di migliaia di detenuti politici che affollano le terribili carceri egiziane, continuamente sottoposti ad ogni tipo di privazione, violenze e torture.

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