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10/01/2021

USA - La vittoria di Pirro dell’establishment

Molti “democratici”, e anche qualche debole mente della “compagneria”, hanno tirato un sospiro di sollievo vedendo tornare in sella l’establishment statunitense dopo la squinternata parentesi di Trump. La sortita estrema di questo pagliaccio e della sua orda, troppo stracciona per poter trionfare davvero, facilita del resto la sensazione di averla scampata bella...

Come cerchiamo di far notare, però, fin da quando quel truffatore è stato eletto, il problema sta nel capire com’è stato possibile che al vertice politico della superpotenza egemone sia potuto arrivare un catorcio del genere.

Non stiamo parlando dello sperduto comune marginale in cui un’oscura manovra semi-malavitosa ti sforna un sindaco inattendibile... Siamo nel cuore del potere politico dell’impero, cavolo!

Questa che dovrebbe essere una facile constatazione si perde, invece, nelle cronache e nei commenti sollevati; della serie “chissenefrega, andiamo avanti come prima e va bene così”.

Tuttavia, la questione inevitabile, posta persino da una non-povera come Jane Fonda, è che “come si viveva prima è il problema che ci ha portati a questo punto”. Ossia: a chi andava bene prima e come si fa ad andare avanti così.

Ci fosse davanti una fase di crescita gloriosa della ricchezza, o anche una scoperta di quelle che cambia la società e la sua vita, si potrebbe forse fare. Ma purtroppo c’è una crisi da cui nessuno sa come uscire (da 13 anni!) e una pandemia fuori controllo soltanto qui, nell’Occidente cosiddetto “avanzato” (c’è un doppio o triplo senso, lo ammetto).

Come spiega ancora una volta Guido Salerno Aletta, in un editoriale per Teleborsa, “Il problema vero è che non si può tornare indietro: la crisi dell’America, che è quella dell’Occidente e delle democrazie rappresentative travolte dalla Globalizzazione, è inarrestabile.”

Tutte le manifestazioni dell’estrema destra in Occidente, malamente definite “sovranismo”, segnalano un gorgoglio dal fondo delle società occidentali provocato dal precipitare delle condizioni di vita. A partire dal “baricentro sociale” della stabilità politica in ogni paese dell’area: il ceto medio. O meglio, quella abnorme estensione del concetto che ha finito per includere anche i normali – numericamente in diminuzione – lavoratori dipendenti con contratto stabile e salario “normale”.

Sotto e sopra di questi c’è la precarietà galoppante, la disoccupazione cronica (gli “inattivi”, ormai stabilmente sopra i 100 milioni negli Usa) oppure la piccola e media impresa che non regge né la concorrenza né gli inevitabili lockdown.

La risposa data a questo malessere montante, ovunque in Occidente, è decisamente classista e sprezzante sul piano mediatico (“bifolchi”, “lumpen” o addirittura “proletari”, in un post attribuito a Giorgio Gori, che molti sperano fasullo). Mentre sul piano istituzionale è stato un semplice “torniamo alla normalità”.

Quella che, appunto, era “il problema”.

Alcune notizie forse possono aiutare l’analisi anche degli increduli. Joe Biden, è noto, sta formando la sua squadra di governo. Al di là degli scontati giochi di immagine (alcune donne e minoranze etniche per “dare la guazza” ai media e alla sinistra liberal), nei ruoli decisivi vengono messi personaggi come Micheal Pyle, indicato per l’incarico di capo economista del team della vice presidente Kamala Harris.

Pyle, ancora in queste ore, è responsabile delle strategie globali di investimento di Blackrock, il fondo di investimento più grande al mondo con asset gestiti per 7mila miliardi di dollari (4 volte il Pil italiano...) e partecipazioni in quasi tutte le multinazionali finanziarie o industriali del mondo. Un boss di primo piano della finanza globale.

Non basta. Come consigliere economico personale di Biden verrà preso Brian Deese, ex responsabile degli investimenti sostenibili della stessa Blacrock. Ci si può aspettare una “forte spinta” per una versione molto finance friendly della green economy; più chiacchiere e giochi speculativi che modifiche effettive al modello industriale. In fondo c’era già con Obama (un classico esempio delle “porte girevoli” esistenti tra affari privati e ruoli pubblici, a turno), e non è che abbia lasciato un segno diverso.

Una coincidenza, dirà qualcuno. Non proprio... Il ruolo più importante lo andrà a ricoprire Wally Adeyemo, ex responsabile dello staff di... Blackrock, che diventerà vice segretario al Tesoro, con una delega per i temi di regolamentazione finanziaria. Un vero fustigatore della speculazione, quasi un “comunista anti-ricchi”, non credete?

E anche la stessa Janet Yellen, prossima segretario al Tesoro, ex presidente della banca centrale Usa (la Federal Reserve), sembra molto popolare presso multinazionali e grandi banche (ha ricevuto in questi anni compensi dall’hedge fund Citadel, da Citibank, Ubs, Goldman Sachs, Barclays, Credit Suisse, Google...).

L’intenzione del vecchio establishment – che comprendeva anche tutti i repubblicani, prima di Trump, ma anche ora è lì ben rappresentato – è trasparente: “ricominciamooo” (Pappalardo style).

Dal loro punto di vista – quello del capitale finanziario multinazionale – la partita più interessante si gioca ad Oriente, non in casa. La scommessa su cui sono concentrati è la gestione del risparmio cinese – enorme, visto l’arricchimento rapido degli ultimi 30 anni – su cui vorrebbero mettere le mani.

Pechino ovviamente lo sa, e può giocare con quel miraggio come con l’esca sull’amo. Visto com’è andata finora, è escluso infatti che possano “regalare” senza contropartite qualcosa che può molto più efficacemente può essere investito in economia reale.

La prospettiva Usa (ed europea), in tal senso, non ha grandi margini di manovra, visto il cul de sac in cui si è infilata con le proprie scelte.

“Il dramma dell’America – segnala sempre Salerno Aletta – rimane sotto gli occhi di tutti: da una parte è deprivata dell’industria, si ingozza di merci importate, compete in agricoltura con i Paesi più poveri del mondo, accumula debiti immensi verso il resto del mondo; dall’altra, un pugno di multinazionali svettano con quotazioni stellari e distribuiscono sontuosi dividendi.”

Con queste premesse non è difficile prevedere il prossimo futuro. “È come una pentola messa sul fuoco, a cui si mette sopra un coperchio: prima a poi scoppia.”

Il che rimanda, appunto, all’impossibilità di tornare in modo indolore alla “globalizzazione”. Che ha avuto, tra gli altri, un effetto decisivo: la spinta a far convergere i salari del mondo verso una media. Bassa, ci mancherebbe...

Ovvio che chi stava ai piani alti di quella scala (dipendenti statunitensi ed europei) ha visto bloccate o ridotte le retribuzioni reali da 30 anni a questa parte. Mentre quelli dei Paesi emergenti, Cina in primis, li hanno visti crescere molto velocemente.

La media presenta ancora molte differenze e diseguaglianze, certo. Ma una nuova spinta nella stessa direzione non potrà che ripercuotersi sulla stabilità sociale e nell’odio verso “quelli che comandano la politica”.

La nostra debolezza, come comunisti, è evidente. Fossimo migliori, più scientifici e un po’ meno depressi, non ci sarebbero gli sciamani e i legaioli alla testa del nostro blocco sociale.

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