Cosa ci sarà nel Recovery Plan italiano? Il silenzio che circonda il merito di una stagione di investimenti di portata strategica – dovrà ridisegnare la spina dorsale del modello industriale nazionale, ossia la base dell’evoluzione sociale dei prossimi 20-30 anni – è più inquietante delle strepito scomposto che aveva accompagnato il finale di partita del governo Conte.
Lì si vedeva plasticamente l’azione di diversi gruppi di interesse per mettere le mani sui dispositivi decisionali specifici, che peraltro sarebbero sfuggiti alle loro mire (la UE su questo era chiarissima). Ora si capisce soltanto che “c’è chi ci sta pensando”, in riunioni segrete e con la “consulenza” dei peggiori assassini del capitale multinazionale (Kpmg, Deloitte, E&Y, Pwc, Bain & Company e Boston Consulting).
Il “commissariamento del Paese” è fatto di queste cose e chi non lo vede deve cambiare oculista al più presto.
Disegnare il futuro è un compito politico, perché deciderà come vivrà un’intera generazione che si affaccia alla vita sociale e come sopravviveranno le generazioni che sono già in campo.
Che una scelta del genere sia compiuta da presunti “tecnici”, per giunta di società multinazionali “in affitto”, dà la misura della perdita di sovranità popolare, non “nazionale”, perché un intero popolo – ma lo stesso sta accadendo, in forme magari meno sfacciate, in tutta Europa – è privato della possibilità di esprimersi sul proprio futuro. Anzi: addirittura di sapere cosa si va preparando...
Basta forse citare uno dei mantra preferiti del “consulente” McKinsey, tratto da un documento datato addirittura 1988; “l’obiettivo è la rimozione all’ingrosso di decenni di garanzie sociali e occupazionali; la fine dei sussidi statali; l’abbassamento dei salari nelle regioni economicamente depresse come quelle dell’acciaio (siamo alla fine degli anni ‘80, la produzione di acciaio era stata ampiamente delocalizzata, ndr); la svendita all’ingrosso delle imprese statali come ha fatto la Thatcher in Gran Bretagna, per permettere la razionalizzazione da parte del settore privato”.
Una ricetta standard, ostinatamente riproposta in qualsiasi crisi in qualsiasi paese di cui si siano occupati, che è alla base del disastro attuale dell’intero Occidente neoliberista. Non per colpa della sola McKinsey, naturalmente; un “consulente” fornisce una ricetta e una spiegazione ideologica, le scelte vengono fatte da altri (il capitale multinazionale, non tanto gli Stati).
Una ricetta che – visto l’assenza di “ripensamenti” sistemici nel pensiero economico occidentale – viene riconfermata negli assi strategici del Recovery Plan, come del resto prescritto dall’Unione Europea, dando il via a una “macelleria sociale” su scala mai vista prima a queste latitudini. Su tempi non immediati, certamente, a causa della perdurante pandemia, ma con notevoli gradi di certezza.
Un’avvisaglia, forse parziale ma non troppo, si può rintracciare sulla tensione montante intorno alla portualità, nodo essenziale della logistica. E come sempre è Confindustria a chiarire quello che risulta confuso nei “si dice” che viaggiano sui media...
Ma non c’è soltanto la prospettiva dei rapporti tra capitale e lavoro, sullo sfondo del Recovery e di come verrà gestito. C’è – e non se ne sa nulla neanche in questo campo – la questione della struttura industriale del Paese (di cui ogni forza politica che abbia in mente la trasformazione rivoluzionaria deve tener conto, perché si parte sempre da quel che c’è).
Per intuire il livello della preoccupazione che bisognerebbe nutrire è forse il caso di citare alcuni passaggi dell’ultimo editoriale su Milano Finanza di Guido Salerno Aletta – Tornerà l’Italia del fare? – incentrato sulla domanda fondamentale: si punta ad allargare la base produttiva di questo Paese o si pensa, banalmente, di “comprare” dall’estero quel che viene ritenuto necessario?
Stante la debolezza prodotta da decenni di “sciopero degli investimenti” (quelli privati per vigliaccheria degli imprenditori, quelli pubblici per le politiche di austerità e riduzione del debito pubblico), il rischio è evidente: se si compra, ci sarà “maggiore importazione dall’estero, dalle apparecchiature informatiche ai software, dai servizi di ingegneria a quelli di progettazione e gestione”.
Sarebbe una tragedia epocale. Perché “l’uso di queste risorse” (i 209 miliardi del Recovery, con le condizionalità più volte illustrate) si tradurrebbe “non solo in un esborso netto verso l’estero, ma soprattutto in un’accresciuta e incontrollabile dipendenza, come si sta verificando per la produzione dei vaccini”.
Il punto è importante perché, per esempio, non esiste alcun limite “naturale” a produrre vaccini, al contrario di quanto avviene per esempio con gas o petrolio, o altre materie prime. Il paragone con gli anni ‘70, con il periodo delle grandi crisi petrolifere (‘73-’79), è impietoso. Lì si cercò di “puntare sulla sicurezza e l’autonomia delle fonti di approvvigionamento, riducendo i costi delle importazioni”.
Non si tratta di contrapporre “sovranismo” e “globalizzazione”, perché è logicamente evidente che o esiste la possibilità di una gestione mondiale delle risorse, della produzione e della redistribuzione, secondo modalità e logiche tendenzialmente “tra pari”, oppure la privatizzazione (nelle multinazionali, neanche negli Stati) porta alla guerra – economica, ma non solo – di tutti contro tutti. In cui i paesi “dipendenti”, e le varie classi sociali al loro interno, sono morti in partenza.
La preoccupazione di Salerno Aletta, però, non è rivolta solo agli aspetti strettamente produttivi, ma investe anche la struttura territoriale dei servizi, a partire dalla scuola, per il ruolo che ha nella formazione di generazioni in grado di affrontare tutti i problemi che una formazione sociale incontra nella sua evoluzione.
“Anziché distruggere la socializzazione scolastica mediante l’istituzionalizzazione della Didattica a Distanza (Dad, una delle “ideuzze” del neoministro della pessima istruzione), occorre usare la tecnologia informatica di interazione per migliorare l’accesso ai contenuti formativi che non sono disponibili in presenza e per lo sviluppo della didattica di sostegno”.
Idem per quanto riguarda la “telemedicina”, altrimenti “ridurre i costi mediante l’eliminazione dei presìdi territoriali, come si è fatto finora, significa ribaltare sui singoli cittadini costi rilevanti, diretti e indiretti, si perdono ore e ore di lavoro per spostarsi di decine di chilometri solo per una visita specialistica”. Per non dire dell’impossibilità – verificata – di affrontare una pandemia senza una struttura territoriale dotata di tutto il necessario.
Se queste sono le preoccupazioni che circolano all’interno del non immenso circuito degli analisti economici dotati di ottimi sensori e indipendenza intellettuale, forse è il caso che anche dalle nostre parti si cominci a pensare in termini un po’ meno “impressionistici” – a voler esser buoni – a quel che va maturando ai piani nascosti del Mise e di Palazzo Chigi.
Anche da un punto di vista non strettamente “proletario”, vogliamo dire, il problema è se gli investimenti e le politiche economiche collaterali al Recovery Plan (le cosiddette “riforme strutturali”) potranno andare nel senso di un allargamento/ripresa della base produttiva di questo Paese, o verso la demolizione di quel che resta di quella struttura.
La permanenza di “isole di assoluta eccellenza” non è affatto in contraddizione con il secondo scenario. Anzi. Basta fare l’esempio della sanità lombarda, piena di “centri di eccellenza” ma assolutamente inabile a contrastare un’epidemia di massa. Ovvero: buona per fare molti soldi con la salute, ottenendo anche risultati notevoli in termini di ricerca, ma del tutto inutile di fronte al compito di garantire il diritto di tutti alla salute.
Una “società bipolare” – isole di ricchezza in mezzo alla miseria generale – può essere a volte squassata da riot violenti, e persino collassare in uno dei terremoti che si vanno preparando sotto la superficie; ma crea notevoli handicap alla trasformazione rivoluzionaria dell’esistente.
Perché la giustizia sociale nella redistribuzione della ricchezza prodotta può non essere sufficiente, se c’è poco da redistribuire.
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