“Come intellettuale militante marxista leninista e membro di una organizzazione politica rivoluzionaria – la Rete dei comunisti – appartengo a quel ‘Noi’ che è in lotta per il socialismo quindi per la vita.
La lotta per la vita giusta e libera degli uguali non è una legge generale dello sviluppo dell’umanità, ma è un modo in cui, in un determinato contesto storico sociale, in un determinato tempo sociale, in un determinato spazio sociale, è possibile scrivere, nei termini della lotta di classe, la conflittualità e concorrenza tra organizzazione economica e sociale e, quindi, tra modo di produzione capitalistico e natura.
E solo dentro questo considerare la dimensione umano-sociale complessiva. E infatti è il modo di produzione capitalistico che usa, distrugge, mangia la natura, la cannibalizza ai fini del profitto”.
Questa l’analisi di Luciano Vasapollo, professore di politica economica internazionale alla Sapienza e firma autorevole di questo giornale.
Il tema è dunque quello della responsabilità in quanto soggetti sociali del conflitto capitale-lavoro che dobbiamo assumere per salvaguardare la natura, la madre terra.
L’analisi del sistema-mondo, attualità dello scambio e dello sviluppo ineguale, della gerarchizzazione dei rapporti economici e internazionali attraverso la polarizzazione, viene da una scuola importante di ricerche e teorizzazioni sull’argomento, rappresentata da Amin, Jaffe, Frank, Bettelheim, Wallerstein, lo stesso Giovanni Arrighi.
È nel solco di questa tradizione e della sua continuità che si sviluppa e si rinnova la prospettiva di semi-distacco in Europa, rappresentata dall’ALBA euro-afro-mediterranea, da anni concettualmente e programmaticamente da noi elaborata.
In modo lungimirante, questa tradizione ha individuato la contraddizione fondamentale tra centro e periferie globali, per cui, usando le parole di Frank: “la storia dimostra che mercantilismo, capitalismo, imperialismo, e colonialismo sono inesorabilmente intrecciati tra loro” nonostante le trasformazione e i mutamenti prodotti dallo svolgersi del moto storico.
Il tema direi che è piuttosto il significato che diamo alla parola libertà. La libertà, come cantava Giorgio Gaber, “non è stare su un albero”... ovvero non è una libertà incondizionata, come tanti dicono. E pure quella frase che ci dicono sempre, è odiosa, irresponsabile e frutto della democrazia borghese: “io accetto la libertà degli altri, basta che la tua libertà finisca dove comincia lo spazio della mia libertà!”.
Ma che vuol dire mantenere modalità sociali e rapporti con la natura all’interno di un
margine possibile, all’interno di una concatenazione di causa-effetto?
Una concezione meccanica, quella di causa-effetto, che è sbagliata perché trascura l’intervento umano in quanto essere sociale in conflitto nel superamento della contraddizione come motore imprescindibile del fare storia.
In tal senso quindi risulta anche sbagliato il rapporto meccanico economico, in quanto produttivista e quindi anche di produzione ideologica, perché trascura il fatto che il rapporto economico nasce dalla centralità dell’essere della natura sugli uomini. Marx ed Engels parlano degli uomini storici reali, cioè dell’uomo reale in un contesto sociale storico.
Infatti, se ad esempio la rivoluzione francese la si considerasse fuori dal contesto storico, è una banale e semplificata rappresentazione di un bagno di sangue orribile. Se la si prende nel contesto sociale storico, con la lettura del materialismo dialettico e secondo l’agire del materialismo storico, invece è la rottura rivoluzionaria che dà una spinta all’umanità.
Come si fa a giudicare un militante politico o un qualsiasi uomo per una cosa che ha potuto fare trenta o quarant’anni fa o che farà tra dieci anni, se non capiamo il contesto storico che ci sarà fra dieci anni? Quale sarà? Così parliamo di Francesco D’Assisi fuori dal suo contesto storico? Parliamo di Gesù Cristo fuori dall’imperialismo romano? Parliamo di Lenin fuori dal dominio medievale degli zar?
Francesco D’Assisi, per i cattolici è un santo, per me è uno dei grandi rivoluzionari del suo tempo storico in quel contesto economico – produttivo e sociale – è tra quelli che immettono la condizione di trasformazione rivoluzionaria perché parlano della dignità e riscatto dei poveri, agiscono per loro, ma non dei poveri ideali.
Lo sapete di che poveri parlano? Degli uomini storici sfruttati e costretti alla povertà. Ecco il concetto rivoluzionario di Francesco D’Assisi.
Bisogna cogliere gli uomini reali, nel loro contesto storico. Per favore! Parliamo dei giacobini e dei tagliatori di testa in quel momento, o di chi doveva rompere rivoluzionariamente una società per farne nascere una più evoluta e socialmente più matura e avanzata?
Senza i giacobini e la rivoluzione francese forse il mondo sarebbe ancora stato sotto il dominio dell’ancien regime e dell’aristocrazia.
Professore la sua riflessione non si ferma all’economia, entra direttamente nella filosofia, nella storia e nella spiritualità...
I miei studenti scherzano: “Vasapollo è un professore di politica economica, e parla di Dante, parla di Alessandro Manzoni, di Antonio Gramsci, di Jose Martí, spiega la dialettica della filosofia”.
Ma senza conoscere la filosofia, come potevo pensare di studiare e capire e spiegare come fa un serio scienziato sociale dell’economia? Filosofia e poi economia e filosofia dell’economia, contraddizione conflittuale capitale-lavoro per entrare direttamente nel conflitto capitale-ambiente.
In realtà poi oggi l’urgenza del cambiamento sociale fa tutt’uno con l’urgenza del cambiamento ambientale, attraverso il duro articolato percorso per il superamento del modo di produzione capitalistico, dove e prima che le variabili ambientali arrivino a un punto di non ritorno.
Questo punto di non ritorno, ce lo fissa la scienza nella sua costante ricerca, non lo diciamo noi in parte sprovveduti o spesso improvvisati ambientalisti, se prevale la logica del profitto, dell’impresa privata e individuale, del profitto motore dello sviluppiamo, e non quella della risoluzione dei bisogni collettivi e delle necessità, diciamo così, dell’interesse sociale, non se ne esce in termini di sviluppo di qualità ed equilibrato per una futura umanità dei liberi ed uguali.
Ma come si può gestire l’ambiente dal punto di vista produttivo?
C’è solo una maniera: la programmazione del governo dell’economia a caratterizzazione di compatibilità socio-ambientale e la pianificazione economica socialista.
La sostenibilità eco-sociale ha bisogno di respiro lungo e quindi è indispensabile pianificare. È chiaro? Irrinunciabilità del programmare a complementarietà sociali e ambientali.
I conflitti sociali, i conflitti ambientali, il conflitto capitale-lavoro, il conflitto capitale-ambiente. Tutto questo non può essere visto in un divenire pacifico, compatibile e lineare.
La storia non è lineare, la storia è fatta di salti, di avanzamenti, di ritorni indietro. Non è vera la tanto decantata teoria di Gianbattista Vico sui corsi e ricorsi storici. La storia non si ripete. Non si ripete mai, mai. Quello che sto dicendo in questo momento, è diverso da quello che dicevo un secondo fa, quello che sto facendo in questo istante, un secondo fa non lo facevo.
Pensate a quanto ciò è più vero quando si passa da soggetti individuali a soggetti sociali collettivi ed ancor più a soggettività organizzate. Ci possono essere similitudini ma la storia non ritorna; l’urgenza del cambiamento è la necessità storica di una rottura, di una trasformazione radicale in quanto strutturale.
Quindi, abbiamo bisogno di costruire condizioni per il superamento delle contraddizioni, di giungere a sintesi in chiave rivoluzionaria. Dobbiamo costruire dialettica del e nel conflitto capitale-lavoro che sussuma la contraddizione capitale–ambiente, conflitto delle dinamiche di spezzoni sociali coinvolti, tra giovani e meno giovani, del nuovo blocco sociale della classe dei subordinati e quindi esclusi.
Professore lei vede un conflitto anche intergenerazionale in atto tra giovani e anziani?
Non mi pare che le classi siano adattabili a concepire conflittualità nel dividere per fasce di età, anche se questo rischio esiste, come si è visto con le priorità nelle vaccinazioni, che evidenziano come nel mondo del profitto esistano gli scarti, gli inutili, i morti viventi, gli sfruttati.
Io personalmente mi sento giovane, perché è la testa che dà la gioventù. Mi ricordo Rita Levi Montalcini, che dice al giornalista: “ragazzo, io sono mente non sono corpo.“
Il corpo è una macchina che dobbiamo mettere a posto, a punto, e purtroppo avviene anche da giovani e avviene sempre di più a questa mia età. Ma il cervello è gioventù accumulata dallo studio e dall’esperienza sul campo.
Ma finché funziona questo cervello che cresce e si arricchisce nella pratica del conflitto e quindi della battaglia delle idee, come la chiamava il comandante Fidel Castro, allora i giovani, i meno giovani, i movimenti sindacali, i movimenti per i diritti civili e sociali devono coniugarsi con l’ambientalismo sociale, devono fare una resistenza culturale, ideologica, devono esprimere vita umana, perché la natura è generatrice e determinante della vita umana, le lotte ambientali sono lotte sociali.
Il bene comune si chiama natura, l’umanità e l’uomo è parte della natura. Dobbiamo favorire un bella disconnessione, ma non una disconnessione spaziale, non una disconnessione dall’imperialismo ideologico, non una disconnessione da spazi politici, ma una disconnessione come azione indipendente di chi pensa, di chi usa la testa, la cultura di classe dell'autodeterminazione, nella ricerca ed elaborazione di saperi sociali, di saperi scientifici, di organizzazione indipendente della ricerca.
A costo di far sudare duramente e continuamente e farci male al cervello.
Il cervello, come diceva mia madre contadina, è l’organo che fatica di più. Mamma diceva: “lasciatelo perdere Luciano è stanco”. Qualcuno rispondeva: “sì, ma non ha alzato manco una sedia, da oggi”. E lei replicava: “ma a quello il cervello gli suda, quello sta venti ore al giorno sopra i libri, è il cervello che suda, che fatica”.
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