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23/04/2022

Il fuori onda della guerra e della pace

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Sul finire del ventesimo secolo, il protagonista del documentario Operazione Canadian bacon, di Michael Moore, raccoglie i cadaveri dei disoccupati che si suicidano buttandosi nelle spettacolari acque delle cascate del Niagara, la guerra fredda è finita da pochi anni e la florida industria di testate nucleari è in profonda crisi. Il consenso dei cittadini americani nei confronti del Presidente degli USA precipita, mentre gli industriali, per vendicarsi dei danni subiti, vorrebbero scatenare una guerra globale. Il Governo russo si tira fuori dall’escalation militare, esplicitando di voler sostenere la produzione di elettrodomestici, di autovetture, di materiale edile e in generale di tutti quei beni e servizi di cui necessitano i propri cittadini, dato che un’ampia fascia di bisogni materiali rimangono ancora insoddisfatti.

Non c’è scampo! Occorre inventarsi un nemico! I guerrafondai fanno appello al patriottismo, e coadiuvati dagli esperti della propaganda mettono in piedi una potente macchina denigratoria nei confronti del pacifico Canada.

La satira pungente di Moore ci dice fondamentalmente due cose:

1) le lobby statunitensi delle armi avrebbero trovato a ogni costo nuovi “nemici”, pur di continuare ad incamerare esorbitanti extraprofitti derivanti dal macabro business;

2) l’acuto pensiero dell’autore manda in frantumi le terribili semplificazioni secondo le quali tutti gli americani appoggerebbero “l’economia di guerra”.

Tuttavia, nel volgere lo sguardo ai rischi dell’ultimo conflitto che si è aperto in Europa, sembra che la realtà sia molto più ricca della nostra immaginazione onirica, e lo stesso Moore non avrebbe potuto prevedere una scena in cui i capitalisti (gli oligarchi) della CSI, in collaborazione con i proprietari dei mezzi di produzione del resto del mondo, dopo aver saturato i mercati dell’Est, avrebbero spinto nella direzione di una corsa al riarmo, di soffiare sul fuoco delle differenze tra Occidente e Russia unita, cercando, allo stesso tempo, di coinvolgere la Cina.

Gli accrescimenti della produzione non possono essere fermati, ma quando il meccanismo s’inceppa, occorre ritornare a distruggere per poi ricostruire, è questa la risposta del capitale, ogni qualvolta viene messo alle corde.

Il sistema capitalistico reagisce con veemenza ad ogni tentativo di cambiare il paradigma sociale di cui è espressione, esso si fonda sullo spreco di risorse energetiche e di forza lavoro, altrimenti non si spiegherebbe per quali ragioni, come ci ricorda M. Serra, se bastano cinquanta testate nucleari, per distruggere il mondo intero, se ne costruiscono 15.000. Siamo lontani dal razionalismo predicato nei sermoni del just in time. E poi, che senso ha produrre qualcosa che viene immagazzinato (congelato) per un lungo periodo di tempo?

In questo contesto potremmo dire che alle manie di accumulazione si aggiunge il potere deterrente, ossia la potenza che si misura con il possedere missili e armi in grado di distogliere, dissuadere i “nemici” dal mettere in atto azioni aggressive.

La guerra fredda, in qualche misura, dopo lo scampato pericolo della Baia dei Porci, ha contribuito a raggiungere una sorta di equilibrio tra le due super potenze che si contendevano la supremazia militare, generando, nel contempo, intorno a questa membrana osmotica, una serie di conflitti caldi, se non roventi, come quello del Vietnam.

In questo gioco senza fine, il Pentagono, la CIA e tutti gli apparati militari e logistici degli USA, nello scacchiere internazionale, hanno fatto la prima mossa, ancor prima che iniziasse la corsa. Infatti, hanno sperimentato sulla popolazione inerme di Hiroshima e Nagasaki gli effetti nefasti della bomba atomica, per il solo fatto che aveva richiesto grandi investimenti. Finalmente la bomba era stata confezionata, quindi doveva esplodere, era obbligatorio “consumarla”. Per non essere colti in contropiede, vale la pena evidenziare che la storia dell’umanità è zeppa di eventi bellici, anzi questi ultimi hanno dominato la scena.

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L’accusa che viene rivolta a coloro che non si schierano né con la Russia né con l’Ucraina è quella di essere equidistanti. In realtà, il vortice della guerra impone che ci si schieri contro il “nemico”, in questo caso l’invasore – e non c’è spazio per nessun dibattito. Esiste solo lo schema bianco e nero, mentre tutte le altre sfumature perdono significato. Il Bene supremo diventa la patria. Dall’altro lato c’è il Male incallito. Si entra in un ipnotico modello dicotomico dove diventa quasi impossibile trovare una via d’uscita.

D’altronde i tentativi di trascendere quest’approccio dicotomico sono stati numerosi, anche se molto spesso non è stato possibile fermare la spirale della macchina da guerra. Nella Guerra civile in Francia, Marx, a proposito del conflitto franco-prussiano del 1870, mette in rilievo la consapevolezza degli operai francesi e tedeschi sulla loro condizione sociale e sul bisogno di emanciparsi dalle folli spinte nazionalistiche verso i massacri reciproci. Ma la prospettiva di creare una solidarietà internazionale degli operai contro la guerra fu vanificata dalla cricca di Luigi Bonaparte. Infatti, il Governo francese si alleò con il proprio nemico per annientare la Comune di Parigi.

C’è un altro approccio, un’altra interpretazione delle dinamiche della guerra che sembra non trovare spazio – almeno, stando alle mie conoscenze – nelle letture quotidiane in circolazione in questi ultimi giorni. Essa parte dal presupposto che, a un certo punto, la guerra sta nelle cose: nelle pietre, nelle siepi, nei cespugli, nel ballo delle oche che si tuffano nel sangue, nel muggito della mucca e nel serpente che beve il latte (On the milky road, Kusturica). Una visione quest’ultima che, per altri versi, collima con il pensiero espresso da Beveridge nel climax del secondo conflitto mondiale. Nel suo Report al Parlamento inglese del 1942 Beveridge sosteneva che la guerra non poteva essere solo considerata come la fine del progresso sociale, ma come il «momento opportuno per fare cambiamenti radicali invece di semplici rattoppi». (1)

La miseria generalizzata innescata dal conflitto aveva modificato in modo significativo i confini tradizionali e abituali tra le classi sociali, le bombe che cadevano dal cielo non facevano distinzioni di classe e le masse degli sfollati annoveravano gli aristocratici nostalgici e i borghesi rampanti, le famiglie dei piccoli borghesi e quelle dei proletari, i chierici cattolici e quelli protestanti, gli anziani e i bambini, etc. La lettura analitica di Beveridge prende spunto da questo livellamento delle condizioni materiali di vita, tenendo conto delle restanti sfumature, per rivedere, per mettere in discussione le proprie posizioni liberiste e in generale tutte le elucubrazioni che rientravano nelle apologie del mercato.

La sua critica mette in evidenza le crepe e il marciume che caratterizzano il paradigma liberista e pone in essere le basi per delineare il Welfare state.

Ovviamente, la visione di Beveridge è pragmatica, tende a trovare la luce in fondo al tunnel del conflitto mondiale, non si pone il problema della «coazione a ripetere» di Freud, né tanto meno entra nel merito dei funambolici equilibri di Yalta, così come rimane lontana dalla consapevolezza e dalle riflessioni sul perdurare delle guerre elaborate da Gino Strada.

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Esattamente un decennio prima della pubblicazione del Report curato da Beveridge, in una cupa atmosfera europea che celava un imminente disastro a opera degli esseri umani, Einstein sentì il bisogno di confrontarsi con Freud su una spinosa e urgente questione che stava emergendo in quel determinato periodo. Nel primo passaggio del dialogo epistolare, Einstein si chiede: C’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra?

Purtroppo, egli prende atto del fatto che, nonostante i progressi della scienza moderna e della buona volontà, tutti i tentativi di trovare una soluzione, anche da parte degli esperti in materia, sono impotenti.

Sul piano esteriore, Einstein intuisce che la sicurezza internazionale dipende dal contenimento dei sentimenti nazionalistici e dalla limitazione della sovranità di ciascuno Stato nei confronti di un’autorità legislativa e giudiziaria che avrebbe il potere di dirimere i conflitti prima che sfocino nella violenza.

Tuttavia, sono proprio le classi dominanti, i fabbricanti d’armi e i mercenari ad opporsi con le unghie e con i denti a questa perdita di sovranità. Di certo, Einstein, tocca altri punti interessanti, ma lascia intendere che l’analisi dei fattori esterni è la condizione necessaria ma non sufficiente per rispondere agli interrogativi che si pone sulle dinamiche della guerra.

Il fisico tedesco avverte il bisogno di rivolgere lo sguardo al mondo interiore e di attingere alla conoscenza di Freud della vita istintiva umana, per tentare di portare un po’ di luce sul problema.

Freud rimase sorpreso dal desiderio del suo interlocutore di approfondire il tema della guerra come fatto pernicioso e fatale, che avvolgeva il destino degli uomini, e di indagare un argomento che era vicino ai comuni mortali e non alle menti raffinate e illustri.

Il padre della psicoanalisi riprende il binomio diritto-forza, e nel portare avanti il suo discorso, sostituisce alla parola forza la parola violenza, precisando che così come nel regno animale, anche tra gli uomini i conflitti d’interesse vengono decisi mediante l’uso della violenza. Nella lotta per la sopraffazione di una parte sull’altra, man mano che vengono introdotti nuovi strumenti (armi), la supremazia intellettuale prende il posto della forza muscolare.

Freud ripercorre la strada mediante la quale lo strapotere e la prepotenza del singolo, nelle orde primordiali, vengono bilanciate dall’unione dei più deboli, unione che mitiga e contrasta la violenza del singolo. Ma anche se “il diritto diventa la potenza della comunità”, ci troviamo pur sempre di fronte alla violenza.

La comunità nel darsi un’organizzazione permanente prescrive le leggi che consentono di eseguire gli atti di violenza conformi ad esse.

Questo trasferimento del potere alla comunità, a un gruppo la cui coesione si fonda su comunione d’interessi e forti legami emotivi, asserisce Freud, è il primo passaggio da capire. Tuttavia, continua Freud, un tale semplice equilibrio si riferisce a piccoli gruppi, a comunità ristrette costituite da membri egualmente forti; «nella realtà le circostanze si complicano perché la comunità fin dall’inizio comprende elementi di forza ineguale, uomini e donne, genitori e figli, e ben presto, in conseguenza della guerra e dell’assoggettamento, vincitori e vinti, che si trasformano in padroni e schiavi».(2)

Ecco!, il diritto diviene espressione di rapporti di forza ineguali, ed emerge che le regole vengano scritte in base al punto di vista di quelli che comandano. Tutto ciò innesca una lotta degli assoggettati per il riconoscimento dei loro diritti, lotta che sgorga nell’insurrezione, nella guerra civile, quando la classe dominante impedisce quei cambiamenti che s’impongono all’interno della società.

Nel prendere in considerazione il periodo in cui entrambi vivono, invece, Freud concorda con Einstein sulla necessità di costituire un organismo internazionale a cui i singoli Stati cedono parte della loro sovranità, ma sottolinea la debolezza della Società delle Nazioni nei confronti dei venti di guerra che soffiano all’orizzonte. D’altro canto, anche noi possiamo percepire l’impotenza del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, soprattutto se pensiamo che non è stato mai capace di far rispettare le sue risoluzioni indirizzate ai vari Governi israeliani e partorite nell’interesse di riconoscere l’autodeterminazione del popolo palestinese.

Freud, successivamente, passa ad analizzare un altro punto dello scambio epistolare, che si collega con il conflitto europeo che domina la scena internazionale. Prendendo spunto da questo ricco scambio di idee, mi chiedo: in che modo il Governo russo e quello ucraino sono riusciti ad infiammare le menti e i corpi della maggioranza dei due popoli e coinvolgerli in una cruenta guerra?

Giustamente, bisogna ammettere che alla base delle molteplici motivazioni che spingono ad agire nella direzione della risoluzione armata dei conflitti ci sono pulsioni di odio e distruzione. Dopodiché, ritorniamo alla spiegazione di Freud sulla differenza delle pulsioni che “tendono a conservare e a unire” (erotiche, sessuali) e quelle che tendono a distruggere e a uccidere. Il “fate l’amore non fate la guerra” del movimento pacifista internazionale richiama proprio la necessità di far prevalere, di tenere vive le pulsioni che mirano a conservare.

Il punto, però, – affinché si realizzi quest’ultimo desiderio – come ci ricorda Freud, sta nella capacità di riconoscere che le pulsioni opposte sono legate tra di loro, “perché i fenomeni della vita dipendono dal loro concorso e dal loro contrasto”.

Dunque, il primo tassello su cui far leva nel contrasto ai vortici a spirale della guerra è quello di essere consapevoli delle pulsioni distruttive che albergano in ognuno di noi. Si tratta, in qualche modo, di capire come contenere o neutralizzare le spinte aggressive che sboccano nella guerra.

Note

(1) Compendio ufficiale della relazione di Sir W. Beveridge al Governo britannico, Stamperia Reale Londra 1943.

(2) Sigmund Freud, Il disagio della civiltà, Bollati Boringhieri, Torino 2006.

Fonte

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