di Osvaldo Costantini
Sebbene la nuova emergenza bellica abbia soppiantato quella del covid, mutuandone il linguaggio, nel palcoscenico mediatico, la gestione della circolazione del virus mediante un determinato approccio è ancora attivo. Al contrario, invece, sembrano in fase di risacca le mobilitazioni contro gli aspetti autoritari di quella vicenda, le cui caratteristiche sembravano aprire scenari in parte inediti.
A fronte di una annunciata volontà di allentare le misure, restano alcuni degli aspetti della gestione autoritaria della pandemia, a cui si aggiungono assurdi strascichi punitivi, tra cui quello nei confronti dei docenti sospesi: in virtù del nuovo decreto, essi possono rientrare a scuola ma, se non vaccinati, preclusi dall’insegnamento e quindi destinati ad altre mansioni. Al netto della valutazione sul demansionamento, che, per una cultura sindacale, è estremamente grave, ciò che colpisce è la messa in atto, nel piccolo, della dinamica greenpassista: mettere chi non ha obbedito, chi ha fatto una cosa diversa dalla massa (non importa qui se la valutiamo giusta o sbagliata), alla gogna. La persona in questione entrerà a scuola e sarà osservata dagli alunni nel suo nuovo ruolo (temporaneo?), messa in vetrina cioè come docente “novax” che non ha i requisiti (morali?) per l’insegnamento. Il dissenso in questo modo viene allontanato dalla possibilità di formare gli studenti e usato come monito per coloro ai quali venisse in mente, nella vita, di fare una cosa diversa da quella che gli dice il potere, da ciò che pensa la massa. A questo aspetto punitivo, si aggiungono alcune inquietanti dichiarazioni di Draghi e Colao che sembrano confermare alcune delle più nere ipotesi dei mesi passati, spesso bollate come complottismi. Ma procediamo per gradi: attraverso un piccolo bilancio della pandemia vorrei analizzare qualche aspetto dei cambiamenti delle relazioni personali e del rapporto tra Stato e corpo sociale (per chi preferisce, tra Stato e Classe).
Sin dai primi giorni di lockdown era abbastanza chiaro, almeno nelle cerchie sociali che frequento, che la gestione della situazione, come ogni processo di fronteggiamento del male, non fosse neutrale, ma si dispiegasse entro i confini ideologici maggioritari e tendesse ad essere guidata dalle classi dominanti per sussumerne gli effetti all’interno dei paradigmi loro congeniali. In altre e più sintetiche parole, il lockdown apparve immediatamente come una opportunità di ristrutturazione della società capitalistica, a favore della tendenza all’accentramento del capitale in poche mani (ne scrivevo qui a pochi giorni dall’inizio della pandemia) di cui oggi possiamo avere una visione più lucida e aggiornata anche in termini del rapporto tra politica monetaria ed economia di fatto congelata – o quantomeno rallentata – (analizzata meglio qui). Era altrettanto chiaro che fosse in atto una modifica dei rapporti lavorativi con l’accelerazione di forme di produzione telematica, a distanza, che fondevano il tempo extralavorativo e il tempo lavorativo in un unico spazio in cui ne guadagnava la produttività e la diminuzione del tempo libero (ne parlavo qui con Niso Tommolillo). Ne emergeva dunque già all’epoca un quadro di ristrutturazione di un modo di produzione in crisi da decenni che si torceva in una logica autoritaria mediante i classici strumenti del disciplinamento del tempo (in cui andavano comprese le balconate a cadenza regolare, la stigmatizzazione delle attività ludiche) e della criminalizzazione di categorie che diventano i capri espiatori/nemici pubblici (i runner, i nomask, poi novax). Un processo in grado di occultare le sempre maggiori contraddizioni tra la riproduzione del capitale e quella sociale, dietro scelte, e, dunque, responsabilità, individuali.
Con il procedere dei mesi, dei provvedimenti, e del clima di paura, è parso evidente quanto il lockdown fosse un "dispositivo inaugurale di rieducazione politica alle nuove condizioni del capitalismo informatico" (qui). All’aumentare di tale consapevolezza andava anche aumentando la polarizzazione tra una accettazione incondizionata e qualsiasi forma, seppur minima, di critica, immediatamente bollata come noqualcosismo o, semplicemente, nell’ormai infame passe partout del complottismo; un disallineamento elevato all’ennesima potenza con l’introduzione del vaccino e della sua teologia, alla cui evangelizzazione si sono prestati h24 tutti i chierici della mediatizzazione mainstream accompagnati dagli urlatori social (più tristi dei primi, che almeno sono pagati). Un divario che ha caratterizzato anche le compagini più antagoniste della società, colpite da una vera e propria maledizione (le cause analizzate bene qui, qui, qui e qui).
È questa fase finale, l’epopea del vaccino e del green pass, ad aver mostrato l’accelerazione di una riorganizzazione sociale che già da decenni si stava disegnando sulle assi di una militarizzazione dei territori – aumento esponenziale della presenza della forza pubblica, punizione dei reati minori, aumento della carcerazione, ordinanze folli nel nome del decoro e della lotta al “degrado” – e la continua costruzione ideologica dell’antagonista pubblico (ultras, migrante, novax), contro cui applicare un “diritto penale del nemico”. Da un lato, il “dispositivo lockdown” e l’Italia dei colori hanno aumentato questa presenza, dotandola di un potere di sorveglianza sociale poliziesca con inquietanti risonanze belliche e coloniali di Check point e posti di blocco per la verifica dell’autocertificazione (nei suoi molteplici modelli) preposte al controllo della mobilità dell’intero corpo sociale; dall’altro, questo quadro già insopportabile ha lasciato il campo al check elettronico diretto, tramite green pass, che permetteva o non permetteva l’accesso a luoghi, situazioni, servizi (e dunque diritti), e bisogni essenziali come il lavoro, sulla base di essersi sottoposti o meno a un trattamento sanitario, sul quale non voglio scendere nei dettagli perché non è il punto in questione.
Green pass. Strumento d’emergenza o realtà permanente?
Al momento dell’introduzione del “lasciapassare verde”, la collettività si è divisa tra entusiasti sostenitori dell’incentivo al vaccino, preoccupati oppositori e inspiegabili soggetti da terza posizione, tra cui alcuni “antagonisti”, che lo ritenevano uno strumento, si pericoloso, ma comunque una soft law neoliberale che forza l’adesione a un comportamento senza imporre un obbligo o un divieto esplicito. Talmente soft da aver costretto qualche milione di persone a un trattamento sanitario a cui non volevano aderire e, per gli irriducibili, essere giunti a negare il bisogno (e non il diritto) di lavoro, ovvero di avere di che vivere, a negare la socialità e l’accesso ai mezzi pubblici, per altri milioni di persone costretti oltretutto alla stigmatizzazione sociale per la loro visibile condizione di disobbedienti appartenenti alla schiera di quello che era il nemico pubblico di turno. E menomale che non era hard... Nessuno di questi soggetti è riuscito ad andare oltre la teologia del vaccino che rendeva possibile sostenere questo metodo: come l’inquisizione medievale, l'incarnazione assoluta del male nella strega giustificava l’uso di una modalità eccezionale ed estensibile a tutti. In sintesi: coloro che erano a favore del vaccino non riuscivano a trascendere nella comprensione che questa volta le vittime della coercizione greenpassista erano soggetti che non volevano fare una cosa che secondo loro era giusto fare oltre ogni ragionevole dubbio, ma che in futuro poteva colpire loro obbligandoli, o forzandoli, a fare qualcosa che non avrebbero voluto. Non c’è bisogno di scomodare la solfa attribuita a Brecht per comprendere la sconcertante ingenuità contenuta nel “basta vaccinarsi per non subire la discriminazione del green pass”. Essa cioè risolve la situazione, allo stesso modo in cui il terribile strumento del permesso di soggiorno è sempre stato risolto dalle classi dominanti: la preoccupazione sollevata da chi ne evidenziava l’apertura di uno spazio di ricattabilità e sfruttamento, veniva liquidata con l’argomentazione in base alla quale restare a casa (nella fame del Sahel, magari sfruttati da una multinazionale) avrebbe evitato il problema. Questo tipo di argomentazione stupisce per la inconsapevole produzione di una separazione tra la repressione buona (quella del green pass, contro quelli che noi consideriamo nemici) e la repressione cattiva (il permesso di soggiorno o altre). Da un certo punto di vista, invece l’apparato repressivo basato sul ricatto onde indurre al compimento, o al noncompimento, accomuna forme diverse di repressione, inaccettabile sul piano del merito prima ancora che del metodo. Difficile capire, e solo il tempo ci aiuterà, come invece si sia sorvolato su questo onde cedersi allo stato patriarcale, trasformato in un modello di salvaguardia della collettività (confondendo quest’ultima con lo Stato).
Ciò che colpisce è invece il fronte di opposizione, largamente eterogeneo ma accomunato dalla preoccupazione che il green pass sarebbe stato ciò che rimaneva, con forma magari mutata, di questa emergenza, al pari degli strascichi delle altre emergenze (es.: i militari nelle metro). Questa preoccupazione fu presa come l’ennesimo complottismo da deridere, o al minimo come una fantasia. La realtà, come da stereotipo, supera di gran lunga la fantasia: il 16 di marzo del 2022 – poco dopo la conferenza stampa in cui Draghi annuncia una ambigua trasformazione delle strutture emergenziali in qualcosa di permanente sempre riattivabile, e due settimane dopo il decreto legge del 2 marzo che sancisce una ancora più ambigua, quanto di difficile interpretazione, proroga della validità del Green pass per le terze dosi di cinquecentoquaranta giorni più altri cinquecentoquaranta senza bisogno di altre dosi – Colao, ministro per la transizione digitale, interviene alla camera per spiegare lo stato dei lavori. Dichiara (al minuto 17 di questo video): «Il grande tema è l’interoperabilità delle piattaforme digitali abilitanti che è molto importante per ampliare i servizi ma anche per renderne la fruizione semplice attraverso il così detto principio del One’s only, cioè il principio in cui il cittadino una sola volta deve mettere le proprie informazioni dentro il sistema e poi è lo Stato da solo che lo va a cercare e lo vede». In sostanza il tentativo di incrociare tutti i dati in una sola piattaforma: «Questo è molto importante perché ci sono degli esempi recenti di grande beneficio che abbiamo avuto da questo: il Green Pass è un grande esempio di interoperabilità, e che tra l’altro adesso sta facendo venire a mente tante altre possibili applicazioni meno drammatiche e meno di emergenza in cui si potrebbe creare un sistema che permette in maniera istantanea di conoscere lo “stato”, il “diritto”, di attivazione o di fruizione di un servizio». Il tema è l’approdo all’identità (e alla moneta) digitale – magari da legare ai dati biometrici che consentono l’identificazione unica di un corpo-persona – che si dispiega in un modello meritocratico neoliberale in cui non esistono più i diritti, ma un regime di situazioni che valutano se il singolo merita o meno «l’attivazione o la fruizione di un servizio». In sostanza, se è un cittadino obbediente. Cerchiamo di capire la portata politica e antropologica di tale affermazione, con brevi digressioni sullo spazio della cittadinanza.
L’onnipresenza dello Stato
Il controllo elettronico trasforma l’autorità statale nel sovrano divino per mezzo informatico: il green pass, o qualunque suo nipote futuro, rende lo Stato presente in ogni relazione. Ancora una volta, cioè, il controllo dell’autorità centralizzata tende a erodere qualunque spazio di autonomia, anche simbolica, del sociale. Con il controllo del Green pass cade la distinzione tra gli “atti di stato” e le interazioni che avvengono nei circuiti quotidiani, o meglio le seconde vengono sussunte nei primi: fino all’epoca recente siamo stati abituati al controllo dei documenti da parte di persone identificabili con una certa divisa che connotava i soggetti detentori del monopolio dell’uso della forza e del potere di controllo. Che ci piacessero o meno, il loro fermo per la richiesta dei documenti era in tutto e per tutto un “atto di stato” (al punto che dei fermi per identificazione e controllo delle generalità, se ne conserva traccia ufficiale). Una delle principali trasformazioni operate dal green pass sta proprio nell’aver diffuso “l’atto di stato” a qualunque (o quasi) relazione quotidiana: il barista sotto casa diventa il delegato al controllo della regolarità della mia azione rispetto al potere centrale. Al di là dell’antipatia di questa asfissiante e distopica presenza trascesa nella divinità onnipresente, la trasformazione del vicino in controllore sfavorisce lo sviluppo di aggregazioni sociali e politiche ostacolate dalla sfiducia e dal sospetto. A meno che, ovviamente, io e il mio barista decidiamo di operare delle trasgressioni comuni: la dialettica dell’egemonia è sempre anche giocabile dal lato trasformativo, stando al buon Gramsci di americanismo e fordismo. Ma non è esattamente questo il periodo e sembra invece che le classi subalterne non riescano, in questa fase, a sviluppare il minimo grado di autonomia di pensiero, di linguaggio e di azione rispetto a un bombardamento costante del loro immaginario.
Se è vero che la forma Stato, con il progressivo dispiegarsi della centralizzazione del potere, ha avuto bisogno di tecniche semplificative per aumentare la leggibilità di territori e popolazioni, l’accelerazione e l’iperdiffusione di queste tecniche si sono legate alle tecniche biometriche di identificazione della popolazione. Il nuovo millennio si è d’altra parte aperto con il programma Uidai o Adhaar, un’enorme sforzo di raccolta dei dati biometrici della popolazione indiana che al singolo attribuisce un codice di sedici cifre e una carta di identità legata alle impronte digitali e all’iride (si vedano su questo i lavori di Antropologi come Pier Giorgio Solinas). Il dispositivo serve a identificare coloro che hanno diritto all’assistenza pubblica e a “modernizzare” e “securitizzare” il paese tramite argomenti penetranti come la lotta all’evasione fiscale, alla criminalità, all’immigrazione illegale, ecc.. Giova allora rileggere in forma scritta la frase pronunciata dal Ministro Colao: «il Green Pass è un grande esempio di interoperabilità, e che tra l’altro adesso sta facendo venire a mente tante altre possibili applicazioni meno drammatiche e meno di emergenza in cui si potrebbe creare un sistema che permette in maniera istantanea di conoscere lo “stato”, il “diritto”, di attivazione o di fruizione di un servizio». Proviamo a fare una operazione di sociologia preventiva: chi scrive è uno scienziato sociale che quando è soggetto al rigore scientifico analizza ciò che è nel presente o nel passato. In questa sede ci si può invece permettere un ragionamento su ciò che una dinamica sociale presente potrebbe diventare in futuro: se il green pass è un esempio di interoperabilità, significa che possiamo incrociarci i dati della mia fedina penale, dello stato del mio pagamento delle bollette e dell’affitto o di chi sa cosa altro (compreso un eventuale punteggio di valutazione delle mie gerarchie lavorative? Ma perché no, è potenzialmente infinito l’uso che se ne può fare...) per non farmi accedere a un diritto o un servizio, o, addirittura alla vita sociale? In buona sostanza, non mi merito un servizio o non mi merito di poter stare tranquillo con gli amici al bar a bere una birra, se non faccio il mio dovere. Ovviamente, come per ogni aspetto della democrazia occidentale, il dato è irrilevante se si è persone integrate, stipendiate e che si possono permettere un livello di vita soddisfacente senza mettere in discussione le regole. Altra cosa è invece se si ha un lavoro precario e un salario basso e l’affitto e le bollette sono magari difficili da pagare, se la propria condotta non vuole uniformarsi...
Oppure, per essere meno fantasiosi e colloquiali: se in una proclamata emergenza energetica, dovessi rispettare determinati limiti di consumo, o pagare bollette molto alte, per il benessere e l’unità nazionale, potrei essere additato come cittadino immeritevole se consumo di più o non riesco a pagare le bollette? Con il livello di adesione della stampa e l’addormentamento delle soggettività, basterebbe una settimana di propaganda per imporre uno strumento del genere.
Eterogeneizzazione. Le gerarchie della cittadinanza
Ma veniamo alla questione centrale: lo spazio della cittadinanza, il maledetto bastardo spazio della cittadinanza entro cui si dispiega la possibilità di esercitare i diritti. La storia del capitalismo ci insegna che esso tende a concedere diritti quando è in fase espansiva e a eliminarli appena c’è un po’ di recessione. Di fatto una finzione: quando mancano rapporti di forza in grado di contrastare questi processi erosivi, il diritto in sé è carta straccia. Ma il punto non è esattamente questo, quanto il bisogno costante del capitalismo di creare un sistema a geometria variabile che produca una gerarchia sociale nella popolazione, in modo da estrarre plusvalore dalla diversità (con la coesistenza di diversi rapporti di produzione), sfavorire l’unità di classe e tenere sotto controllo le eccedenze di manodopera. Senza entrare nel dettaglio di teorie che dovrebbero essere state digerite da tutti, uno dei pilastri del capitale è la sottrazione di autonomia delle popolazioni nell’accesso ai mezzi di sussistenza, più precisamente la separazione tra la forza lavoro e i mezzi di produzione; una operazione mediante la quale la forza lavoro è trasformata in merce tra le merci. Brutalmente riassunta in questo modo la famosa accumulazione originaria di Marx, su di essa va costruita la necessaria riflessione che tale processo sembra essere in costante e continuo funzionamento all’interno dello stesso controllo capitalistico della riproduzione sociale (più o meno la tesi di David Harvey della accumulazione per spossessamento). In questo continuo ritorno all’origine va interpretato il dispositivo emergenziale che ha caratterizzato la governance neoliberista negli ultimi decenni: la produzione continua di differenza/gerarchia sociale mediante fenomeni di razzializzazione – che non riguardano solo il biologico, anzi: il razzismo è un fenomeno di invenzione di una categoria essenzializzandone uno o più tratti distintivi considerati come elementi dirimenti della loro appartenenza. I “novax” sono ormai una “razza”, nel discorso pubblico – appare come «una tecnologia moderna di governo (di management, di produzione) di popolazioni e territori finalizzata alla estrazione di plusvalore dalle società, cioè alla crescita della potenza produttiva capitalista di un determinato tessuto sociale» (Mellino qui). In sintesi: una continua ricaduta nell’accumulazione originaria che abbiamo visto applicarsi varie volte sul mercato del lavoro, non solo tramite l’introduzione di manodopera ricattabile con differenti, e altrettanto gerarchizzati, permessi di soggiorno. Una sostanziale e continua operazione di creazione di barriere all’esercizio di diritti e al mantenimento degli status che, seguendo David Harvey, possiamo notare onde svelare la diffusa abitudine del capitalismo a prosperare sulla produzione della differenza.
Enrico Gargiulo, sociologo che ha ampiamente analizzato i processi di esclusione tramite lo strumento della residenza, sottolinea come il modo di produzione storicamente conosciuto come capitalismo sia strutturalmente contrassegnato dall’esclusione sistematica di parte della popolazione dalla ricchezza. Seguendo Harvey, Gargiulo identifica le entità politiche (soprattutto lo Stato) come attori centrali nell’operazione di espropriazione di risorse e di espulsione di parti della popolazioni dai diritti e dagli status. Seguendo queste piste vorrei provare a illustrarne due esempi, che, espunti dalla caratteristica tecnologica, potrebbero essere incasellati come antenati del green pass, o, forse meglio, dotati della stessa aria di famiglia, onde inserirne la comprensione nei classici meccanismi di produzione strutturale dello sfruttamento e del disciplinamento, prima di battere piste inusuali che ad alcuni producono ancora uno spavento epistemologico-politico.
In Italia nel 1939 fu approvata una legge che non consentiva alle persone di eleggere residenza in comuni di medie-grandi dimensioni se non si aveva un contratto di lavoro in quello stesso comune. Allo stesso tempo non consentiva di firmare un contratto di lavoro in un comune se non si aveva la residenza in esso (per chi ha dimestichezza con la legislazione migratoria: l’impianto di fondo della Bossi-Fini del 2002 risuona le stesse note su scale diverse). In sostanza, ad uno sguardo ingenuo, una condanna all’immobilità. Adottando invece una lettura attenta alla produzione strutturale di differenza e di espulsione di gruppi sociali dalle risorse, dal welfare ed anche dai diritti si capisce che tale legge produceva di fatto clandestinità e dunque ricattabilità sul piano del lavoro salariato. Infatti, la legge non fu abolita con la caduta del regime, ma restò fino al 1961, quando, su iniziativa di Umberto Terrasini (PCI), essa fu abolita. Per chi conosce i flussi migratori interni alle aree italiane è immediatamente chiaro che, negli anni Cinquanta, i meridionali finirono per lavorare in alcune aree come paradossali clandestini nel loro stesso paese, con tutto il carico di ricattabilità che ne veniva come corollario. Altrettanto evidente è il cambiamento dei rapporti di forza tra le classi che la legge produsse, riducendo, appunto, l’accesso alle risorse ed ai diritti di una parte della popolazione che, giova ricordarlo, migrava a seguito dell’impoverimento del Sud avvenuto con l’Unità d'Italia.
Il secondo esempio scivola in là di più di mezzo secolo, ed assume dei tratti punitivi oltre che di esclusione. L’articolo 5 del decreto Renzi-Lupi (2014) con meccanismi simili di creazioni di differenze all’interno del corpo proletario mediante la gerarchie delle cittadinanze. In questo caso l’attitudine era disciplinare: l’articolo nasceva con l'esplicita volontà di contrastare il fenomeno delle cosiddette “occupazioni abusive”, ovvero la riappropriazione di spazi a scopo abitativo da parte di coloro non in grado di sostenere un canone di affitto. L’articolo 5 vieta l’allacciamento ai servizi e la richiesta della residenza a chiunque vive in uno immobile occupato o non avendone titolo (tecnicamente, dunque, anche chi abita con affitti non contrattualizzati). Con questo provvedimento, si decideva il distacco delle utenze a chi le aveva allacciate in precedenza (pagandole regolarmente) lasciando quindi le persone senza luce, acqua e gas. La residenza era, e rimane, però il punto più complesso perché esclude le persone da alcuni fondamentali servizi, quali l’iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale, alle liste elettorali, al welfare territoriale e al sistema scolastico per i figli. Per gli stranieri il mancato possesso della residenza comporta anche problemi per il rinnovo/ottenimento dei permessi di soggiorno. Essa infine funge da ostacolo al godimento di diritti “minori”, quali gli sconti sugli abbonamenti ai trasporti, l’esenzione per la mensa scolastica dei figli, che in una famiglia proletaria sono comunque importanti voci di bilancio. In questo caso, la disattivazione dello spazio della cittadinanza era mirato al disciplinamento di soggetti che si sottraevano al rapporto estrattivo della rendita urbana e, in più banale sintesi, non pagavano l’affitto a un padrone. In sostanza, veniva punito quel proletariato riottoso che, in mancanza di alternativa, aveva deciso di soddisfare il bisogno di casa su un piano conflittuale, sottraendosi al meccanismo della rendita, dell’assistenzialismo e dell’autosfruttamento per pagare l’affitto. Con la stessa logica ipocrita del GP, non vi era una repressione esplicita (lo sgombero, con il relativo problema di dover poi trovare sistemazioni alle persone o avere momenti di conflitto aperto) ma una esclusione dallo spazio di cittadinanza, con il corollario di una maggiore ricattabilità generale (soprattutto per chi perde il permesso di soggiorno) e dell’esclusione dal campo dei diritti e delle risorse.
Ovvio che, in aggiunta a tali esempi, si potrebbe allungare la lista con diversi casi: uno è sicuramente la moltiplicazione dei confini giuridici legati al meccanismo del permesso di soggiorno, nell’ambito della trasformazione del confine in un metodo (come hanno giustamente sottolineato Mezzadra e Neilson) che produce una differenza gerarchica tra gruppi nei termini di accesso alla mobilità, alle risorse, ai diritti. Un altro esempio, altrettanto calzante, sarebbe quello, legato al mondo del lavoro, della produzione di una pluralità di livelli di contrattualizzazione che differenziano il corpo proletario, anche all’interno di un singolo reparto di una singola fabbrica, secondo diversi accessi ai diritti e diverse forme di ricattabilità.
Il punto è però lo spazio della cittadinanza come dispositivo a geometria variabile da cui gruppi più o meno grandi di persone possono essere espulsi, allontanati momentaneamente o anche semplicemente abitarvi in stato precario. Il presidente della repubblica francese, Emmanuel Macron, dichiarò in una comunicazione pubblica che coloro che non si erano vaccinati non erano più dei cittadini. La dichiarazione faceva eco a una non meno violenta affermazione del Presidente del Consiglio dei Ministri italiano, Mario Draghi, che si augurava la fine della pandemia per una reintegrazione nella società di questa parte della cittadinanza eretica che aveva osato mettere in discussione il dogma teologico del vaccino. Vista tale violenza, una parte del corpo sociale ha virato verso una fantasiosa volontà dello Stato di iniettare la medicina in sé, per chi sa quali scopi nascosti. Il punto in questione è invece politico, e riguarda in prima battuta la richiesta di obbedienza e il disciplinamento dei soggetti devianti, con forme di ricatto che potranno tornare in campo quando, in una eventuale crisi energetica, alimentare ed economica provocata da un sistema sociale in stato di decomposizione, bisognerà controllare il dissenso, governare l’eccedenza di manodopera. Il green pass, o qualunque dispositivo di interoperabilità legato all’identità digitale, è uno strumento in grado di svolgere questa funzione con la possibilità di attivare e disattivare l’appartenenza allo spazio della cittadinanza, revocando diritti, accessi fisici a luoghi, e servizi a chi non obbedisce al dettame di turno. Questo tipo di azione porta ad un nuovo e più alto livello la logica capitalistica delle gerarchie sociali: esso conduce alla possibile disattivazione del rapporto tra un soggetto e lo spazio della cittadinanza attraverso uno strumento elettronico con tecnologia blockchain. L'applicabilità infinita di questo strumento, insieme al possibile legame con le tecnologie di rilevazione biometrica, sembra possano aprire il campo ad una società fatta di diversi regimi di mobilità, diverse opportunità, diversi divieti, diversi accessi a servizi, continuamente mutevoli a seconda dei criteri scelti per l’esclusione. Non è difficile pensare alla possibilità che una tale disattivazione possa comportare una impossibilità di avere contratti di lavoro, contratti di affitto o qualunque altra cosa, mostrando in estrema sintesi la “finzione borghese” del diritto, che può essere ritirato a seconda delle esigenze del capitale. Rispetto ai due esempi precedenti, naturalmente, il GP si pone come elevazione a potenza: a confronto con l’articolo 5 del decreto Renzi-Lupi che è sicuramente più aggressivo nella ferocia con cui colpisce una fascia del proletariato riottoso che ha prodotto lo scarto di risparmiare sull’affitto, ma non colpisce l’interezza potenziale del corpo sociale come il green pass, soprattutto in grado di gestire con una geometria variabile le eccedenze di manodopera che di volta in volta si produrranno ed irregimentarle in diverse fasce di sussidi controllati, esclusioni e ricattabilità. Da questo punto di vista (ed esclusivamente da esso), tenderei a leggere la continua riattivazione di classici strumenti repressivi e le dinamiche viste con la vaccinazione sotto la stessa categoria, con una differenza di grado e non di natura: le forme di criminalizzazione (schifosa) che ha colpito alcuni esponenti del mondo sindacale di base non sembrano abitare un mondo diverso da quello che stiamo descrivendo. In prima istanza, siamo di fronte a un momento di trasformazione della società e con l’arrivo di una crisi economica (e probabilmente energetica ed alimentare) che il controllo e il disciplinamento di chiunque possa minimamente accendere il conflitto sociale è fondamentale per garantire la riproduzione di un sistema mediante l’ennesima crisi (l’emergenza è ormai un dato strutturale); fondamentale al punto di avere bisogno di strumenti di imposizione estesi all’intero corpo sociale. Certo, questi sono strumenti classici, noti e caratterizzati da una enorme violenza, che si uniscono (ma non si contrappongono) a quelli nuovi possibili generati dalla situazione pandemica. Non è un caso, a mio avviso, che il meccanismo del green pass si sia dispiegato nel mondo del lavoro, operando, già con la sua stessa accettazione, uno spostamento dei rapporti di forza evidente a tutti. Su questo punto c’è bisogno di un piccolo passaggio di chiarimento: ho velocemente notato che il lavoro è un bisogno, oltre che, nel linguaggio liberale, un diritto, perché è il modo di conquistare ciò che serve per vivere. Tale affermazione si spiega in termini universali, ma va declinata in termini particolari: sul primo livello, qualunque gruppo umano deve svolgere delle attività per il proprio sostentamento (caccia, raccolta, coltivazione, pastorizia che sia) di cui ha necessità vitale. Per soddisfare tale bisogno l’essere umano, a differenza degli animali, elabora una risposta sociale, che dunque produce ulteriori bisogno di altri livelli di integrazione tra le persone (una organizzazione sociale, norme e sanzioni, una divisione del lavoro, ecc.) e dunque dei valori, un sistema di comunicazione. Attaccare l’attività orientata all’accesso dei mezzi di sussistenza è già una forma di attentato alla vita. Cambia molto se inseriamo quella che ho chiamato la declinazione particolare: sotto capitalismo, per mezzo della proprietà privata dei mezzi di produzione, la forma storica di accesso alla sussistenza, per la maggioranza della popolazione, è il lavoro salariato. L’accesso ad esso è un bisogno vitale che si dispiega entro una particolare forma di organizzazione sociale, il capitalismo, in cui
a) esso è stato creato con la separazione forzata della forza lavoro dai mezzi di produzione;
b) esso produce quel plusvalore utile ad arricchire coloro che hanno l’accumulazione in sé come fine ultimo;
c) esso è l’asse portante dello sfruttamento, in quanto la quota lavoro pagata al corpo lavorante è solo quella necessaria alla riproduzione della forza lavoro in sé (il plusvalore assoluto);
ne consegue che
d) andare a lavorare non è propriamente l’esercizio di un diritto: quanto di fatto una costrizione all’interno di determinate condizioni strutturali (in sintesi: chi rivendicherebbe il “diritto” ad andare a lavorare in fabbrica otto ore al giorno?).
In sé, dunque, subordinare il lavoro a un lasciapassare, e, di fatto, all’assunzione di un farmaco, significa produrre una alternativa non solo tra il consenso e la possibilità di accedere alle risorse, ma un regime di significato in base al quale vi è bisogno di un permesso, come fosse un privilegio, per andare a svolgere una attività che è di fatto una costrizione ed è il pilastro dello sfruttamento e della logica del profitto che egemonizza ormai ogni aspetto dell’esistenza. Se l’inserimento di un permesso per andare a lavorare non è uno spostamento dei rapporti di forza tra le classi, cosa lo è?
Disciplinare i poveri
Il neoliberismo come tecnologia di governo si era già contraddistinto per uno spiccato autoritarismo, già insito nel capitalismo in sé, e per un controllo serrato sulle condotte individuali allo scopo di disciplinare la manodopera, e le sue eccedenze, ai dettami delle nuove forme di produzione di valore. Come da manuale di teoria foucaltiana, l’assoggettamento e l’utilizzazione economica apparivano come i due pilastri della trasformazione del corpo in forza utile: la fase dello Stato punitivo a cavallo tra gli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio ha messo capo al paradossale aumento delle politiche securitarie che, a fronte di una diminuzione dei reati, aumenta le pene per i reati minori – o addirittura ne crea di nuovi: la clandestinità come reato penale è un caso emblematico – e le carcerazioni. I tagli al welfare trasformano dunque una enorme popolazione in clientela per le carceri: laddove esse sono state privatizzate (in parte negli USA), una quota di spesa pubblica viene trasformata in profitto privato per gli enti gestori (come da noi funziona con i vari centri di detenzione per migranti); profitto basato sulla persecuzione dei poveri, trattati come corpi messi a valore come manodopera mercificata e come oggetto stesso della mercificazioni.
La fase attuale sembra fare un salto in avanti maggiore, radicalizzando quella tendenza, già vista in alcuni campi – ad esempio l’istituto dell’asilo politico – in base alla quale i diritti sono qualcosa da sottoporre a degli attestati di merito. In sintesi: non esistono in sé, ma li devi meritare. Una torsione, che naturalmente non stupisce chi conosce la finzione originaria di cui parlo più sopra, ma il cui avanzamento è evidente in questi mesi: il Comune di Fidenza ha introdotto lo scorso febbraio un sistema a punti per gli assegnatari di case popolari, il cui scopo è quello di punire i trasgressori delle regole comuni: non usare barbecue sui balconi, il divieto di consumo di alcolici negli spazi comuni, il divieto di ospitare persone senza l’approvazione del comune o dell’ente gestore. In buona sostanza, la vita dei poveri viene sottoposta a un disciplinamento costante sfavorendone qualsiasi forma di autonomia, togliendole possibilità di aggregazione spontanea (questo è il divieto di consumare alcolici negli spazi comuni), e controllandone gli aspetti più vitali al punto da generare il paradosso di una persona che vive in una casa in cui non può ospitare amici in transito improvviso, andare a letto con una persona conosciuta al bar la sera o con l’amante in assenza del partner ufficiale (pure il tradimento deve essere un privilegio di classe?). In parallelo il comune di Bologna sta facendo partire un sistema sperimentale di cittadinanza a punti, in cui, per il momento, elementi come la mancanza di multe e una corretta gestione dell’energia (sic!), darebbero alcune agevolazioni non ancora definite. Tali forme non sembrano accomunate da un generico sguardo distopico che ha usato il green pass come leva dell’immaginazione per giustificare il proprio allarme nei confronti del capitalismo della sorveglianza e dell’uso delle tecnologie per sussumere all’interno dello spazio della valorizzazione qualunque aspetto della riproduzione sociale. Essi rappresentano dei passaggi storici in termini dei rapporti di forza tra le classi e nelle relazione tra Stato e corpo sociale, andando a produrre docilità nei settori che saranno più colpiti dalle crisi.
E se poi trasformassero il lavoro in una patente a punti che dopo varie insubordinazioni te lo tolgono? Tanto è un diritto no? Se non fai il bravo... non te lo meriti.
Diceva Foucault che il corpo diventa forza utile solo quando è contemporaneamente corpo produttivo e corpo assoggettato. Assoggettarsi passa anzitutto per considerare l'avviarsi sulla via dello sfruttamento risignificata in una sorta di percorso di benevolenza da parte delle classi dominanti.
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