di Francisco Soriano
Una delle parentesi più drammatiche della storia dei conflitti fra Stati riguarda le relazioni, in campo geopolitico, tra Iran e USA. Le mire imperialistiche degli americani sul Medioriente hanno scandito per decine di anni una infinita serie di accadimenti connotati e determinati da crimini e misfatti di rara brutalità. Per i due Stati il paradigma di questo conflitto può essere riassunto in un incipit sistematicamente utilizzato dagli ayatollah nelle mirabolanti preghiere del venerdì islamico-sciita, che scandisce nel tempo questa belligeranza infinita, consistente nell’espressione “doshman dar kamin ast”, “il nemico è in agguato”. Gli americani da parte loro professano da anni questo ancestrale sibilo di guerra pur nella loro edulcorata e mistificatoria pratica di far apparire ogni loro intervento come salvifico e proteso alla materializzazione del verbo democratico in ogni dove dell’emisfero. Peccato che è così drammaticamente visibile quanto, invece, il verbo statunitense si manifesti soprattutto nell’esaltazione del teorema capitalistico dello sfruttamento, della violenza, del commercio delle armi, della diseguaglianza, della falsificazione che penetra con verità degne del miglior sepolcro imbiancato la storia di questo mondo.
Durante una diretta televisiva, nel fragore atroce dell’ultimo conflitto fra Russia e Ucraina, abbiamo assistito alla solita dinamica statunitense cinica e ipocrita che scandisce, coerentemente, una linea ininterrotta di provocazione e criminale intrusione nelle faccende belliche di tutto il mondo: il barcollante Joe Biden ha definito Vladimir Putin “a butcher”, “un macellaio”, destando negli analisti politici di ogni nazione un’enorme sorpresa per la violenza verbale della dichiarazione. Ha provocato, inoltre, notevole inquietudine nelle cancellerie e nelle sedi diplomatiche perché queste parole hanno danneggiato ogni possibilità di incontro ai fini di un dialogo per la pace. Gli americani la pace non la vogliono. È evidente che la loro distanza geografica li rende più sereni nella provocazione e nella propagazione dell’odio, soprattutto se il fine è sempre lo stesso: la creazione di condizioni commerciali vantaggiose grazie alla loro potente e inesorabile industria bellica. Dopo questa schermaglia di violenze verbali sono cominciati a emergere crimini orrendi e orrori senza eguali, soprattutto quando la frustrazione dei russi per le perdite subite ha estremizzato la violenza e la sete di vendetta. L’aggressione di Putin non si differenzia per niente dalle altre per i crimini contro l’Umanità, le torture, le esecuzioni sommarie, gli stupri contro donne inermi. Sono la prova di quanto la deriva umanitaria che denunciamo da tempo sia ormai una costante preoccupante e pericolosa al punto da porre in serio pericolo la sopravvivenza della nostra umanità. La speranza che si nutre è che il presidente russo risponda dei crimini commessi contro civili inermi e, soprattutto, quelli perpetrati dai suoi soldati contro donne e bambini. Tuttavia dalla lettura e visione dei fatti storici nella loro complessità, alla stregua della Russia di Putin, gli Usa si sono resi protagonisti di conflitti bellici, colpi di stato, finanziamenti illeciti a gruppi criminali al fine di stravolgere gli assetti degli Stati, traffici di armi anche a formazioni definite successivamente terroristiche, intrusioni dei servizi segreti in affari di nazioni sovrane, esecuzioni sommarie e vendette sanguinose a gruppi o singole persone.
Gli americani hanno la presunzione di sostenere che i loro crimini siano avvenuti sotto il vessillo della libertà e della promessa di instaurare luminose e lussureggianti società rigogliose di ricchezza a profusione. Il sistema culturale fatto di immagini, messaggi, dollari e quant’altro legittima la violenza e lobotomizza le menti. I messaggi, le parole e, infine, le azioni di guerra, lasciano filtrare dalla magica e permeante pubblicità melliflua del capitalismo imperante quel benessere che non si vede l’ora di propagare in tutte le società dell’emisfero. Grazie a questi obiettivi “a fin di bene” basterà ricordare che, addirittura, al Presidente Barak Obama fu assegnato il premio Nobel per la Pace: un riconoscimento “preventivo”, concesso “in bianco”, semplicemente per le solite profezie sublimate dal leader statunitense con religiosa ipocrisia, con la classica e collaudata retorica del dream system yankee, con pilatesco dolo. Le certezze e le “previsioni” degli americani non sono mai state mantenute e puntualmente sono state cancellate: propugnavano l’inevitabile riscatto, made in Usa, per i più deboli di questa umanità e il loro affrancamento da ogni catena e schiavitù. Da allora tutto il mondo è peggiorato e regredito da ogni punto di vista, soprattutto in termini di libertà sociali e politiche e i diritti umani sono stati sistematicamente violati: carestie, migrazioni bibliche, morti e torture a volontà.
Dunque, per cominciare, la storia delle intrusioni degli USA a danno dell’Iran può riassumersi in poche righe nonostante la complessità degli avvenimenti. Addirittura, qualche anno fa, sono arrivate le dichiarazioni di Hillary Clinton e Madeleine Albright che hanno confessato le responsabilità americane nel colpo di stato ai danni di Mohammad Mossadeq, un grande leader laico e democratico che era stato Primo ministro in Iran dal 1951 al 1953. Di una colpa irreparabile si era macchiato il riformatore iraniano: aveva nazionalizzato la propria ricchezza petrolifera e aveva condotto il Paese verso un reale affrancamento dalle superpotenze (in quel momento storico Inghilterra e Unione Sovietica su tutte), che fino ad allora avevano spadroneggiato con pressioni, intrusioni e ogni tipo di infiltrazione negli affari interni di uno Stato sovrano. In seguito e in modo abbastanza permanente, si manifestò l’irrompere degli Usa nello scenario geopolitico in Iran, “a danno” dell’ex Unione Sovietica, nella cornice della Guerra fredda e in alleanza con la Gran Bretagna. Con una buona dose di coraggio a posteriori, si fa per dire, la Clinton affermerà nel novembre del 2011 che “siamo stati noi a creare i nostri nemici. Ci siamo pentiti di quanto è accaduto nel 1953”. Nel 2000 aveva, ancor meglio asserito, Madeleine Albright, scomparsa poche settimane fa, dicendo che “l’amministrazione Eisenhower credeva che le proprie azioni fossero giustificate da ragioni strategiche, ma il colpo di stato si è rivelato un chiaro ostacolo allo sviluppo politico dell’Iran. Ed è facile capire perché oggi molti iraniani continuano ad essere infastiditi da quest’intervento da parte dell’America nei loro affari interni”. Accadde che quella missione destabilizzante, organizzata dagli americani e, in parte dagli inglesi con il nome in codice “TP AJAX”, venne ottimizzata dalla CIA che intendeva, con un golpe, raggiungere quattro obiettivi fondamentali: destituire Mossadeq, riportare al governo un reggente facilmente plasmabile ai propri interessi, fronteggiare l’allargamento dell’Unione Sovietica in quell’area strategica e sfruttare le immense risorse petrolifere a costi ridicoli. In quell’occasione i servizi segreti americani non riuscirono prontamente nella loro strategia che spinse il Paese sull’orlo della guerra civile. Nessun problema in questo senso, fino al raggiungimento dell’obiettivo. Come riportò l’autorevole Foreign Policy, avvertito dell’imminente colpo di stato, Mossadeq fece arrestare decine di golpisti, ignorando gli ordini dello scià Mohammad Reza che, in quel frangente, fu costretto a fuggire in Italia. Con abilità e permeabilità gli americani riuscirono successivamente nel golpe, agitando lo spauracchio comunista perché il partito Tudeh aveva collaborato, pur non sostenendo Mossadeq, con proteste e resistenze anche violente ai tentativi di capovolgimento del regime laico a Teheran. Molti accadimenti complessi e interessanti per gli storici sconvolsero quegli anni con diversi attori e, soprattutto, con il clero sciita che diventava protagonista indiscutibile, nelle varie dinamiche di potere, fino alla presa del potere khomeinista nel 1979. Destituito Mossadeq, si distrusse il sogno di un intero popolo e della sua prospettiva democratica laica. La violenza in Iran causò uccisioni e torture, molti intellettuali furono arrestati e, gli oppositori, a centinaia barbaramente perseguitati ed eliminati. La CIA dopo l’incarcerazione di Mossadeq (che morirà agli arresti domiciliari nel 1962), aveva organizzato una forza militare segreta che in caso di sconfitta avrebbe intrapreso la strada della guerriglia per la destabilizzazione permanente dell’Iran. L’amministrazione dell’allora presidente Eisenhower considerò il golpe un successo senza precedenti, senza pensare all’eredità in termini di morti e perseguitati che si era lasciata alle spalle.
Uno dei settori migliori e più efficienti in Iran, nel perseguire oppositori politici e dissidenti durante gli anni dello shah, fu quello dei servizi segreti con il tutoraggio americano e israeliano, denominato SAVAK. Un efficiente servizio di tortura e uccisioni ben sostituito e integrato oggi in pieno regime islamico dall’attuale Vezarat-e Ettela’at va Amniat-e Keshvar distintosi, dopo la rivoluzione del 1979, per l’uccisione e la tortura di oltre 12.000 dissidenti su un totale di 30.000 cittadini che, in qualche modo, avevano avuto un ruolo anche semplicemente professionale nelle amministrazioni dello shah ormai deposto. La rivoluzione del 1979 fu, all’origine, una risposta popolare all’odio che un’intera nazione nutriva contro un sistema impiantato dagli USA e diretto da un uomo come lo shah che non aveva esitato a proporre schemi di persecuzione aberranti: infatti, solo successivamente, Khomeini con il suo cinismo e la sua strategia di annichilimento progressivo di tutte le voci della rivota, determinò e caratterizzò questa rivoluzione come islamico-sciita. Lo shah durante il suo potere, tuttavia, non mantenne evidentemente tutte le promesse fatte alle compagnie petrolifere straniere e agli anglo-americani: aumentò le tasse dal 50 all’80% e le royalties dal 12,5 al 20%, stabilizzando il controllo della produzione del petrolio nelle proprie mani e determinando un guadagno per le compagnie petrolifere di soli 22 centesimi per barile. Nei primi anni Settanta, inoltre, anche l’Iran non fu esente da nuove pulsioni ideologiche e ragioni di malcontento derivanti da una eccessiva occidentalizzazione del Paese e una pretestuosa politica di dominazione con mire imperialistiche dispendiose e poco apprezzate dalle masse popolari, attuate solo a vantaggio di una ridicola famiglia reale vezzosa e presente nei rotocalchi scandalistici occidentali. Inoltre, lo shah fu protagonista insieme ad altri Paesi produttori della crisi petrolifera internazionale che, chiaramente, fu vista come un tradimento alle aspettative delle potenze che necessitavano di petrolio. Nella rivoluzione del 1979 gli americani sembrarono defilati e sperarono forse in un cambio di regime che potesse, ancora una volta, asservire l’Iran alle potenze anglo-americane. La speranza fu presto tradita perché l’ayatollah Khomeini diresse con brutalità e atrocità la persecuzione degli oppositori interni, ma determinò anche linee di confine insuperabili per coloro i quali, da sempre, avevano cercato di rendere l’Iran nient’altro che una colonia. Il prezzo da pagare a questa legittima visione del clero sciita fu carissimo. Gli americani consigliarono e lucrarono in commercio d’armi una delle guerre più sanguinose del secolo scorso (Iran-Iraq), inutile e criminosa architettura di un disegno che mirava solo alla destabilizzazione permanente dell’area e alla vendita immorale di armi. Dopo l’assalto all’Ambasciata americana degli studenti sciiti e la deriva delle strategie di Carter in quel periodo nei confronti dell’Iran, nel settembre del 1980 gli iracheni invasero l’Iran da sud, immaginando la solita guerra lampo, in un Paese devastato dalla rivoluzione. Gli iraniani non si lasciarono intimorire e con una strategia straordinaria di ripiegamenti, nonostante l’inferiorità numerica dei combattenti, la penuria di militari e armi capaci di condurre una guerra sul territorio dopo la decapitazione di tutto il sistema militare dello shah, riuscirono a resistere e contrattaccare in una epopea che viene vissuta ancor oggi come una vittoria delle forze sciite sul nemico assoldato dagli americani e dal mondo sunnita. Gli iraniani persero un milione di giovani al fronte e almeno altrettanti tra feriti che videro la loro vita compromessa per sempre. Gli americani lucrarono in funzione antikhomeinista sulla guerra ma, nello stesso tempo, con il cinismo che li caratterizza, fornirono di armi anche il nemico giurato iraniano con una vendita illegale che viene ricordata con il nome di “Irangate”. Queste strategie definiscono il grado di etica, o pretesa morale, di diffondere la democrazia e i valori di benessere occidentale in tutto il mondo.
Da Mossadeq ad oggi i propositi degli americani, nonostante alcune sorprendenti ammissioni della loro riprovevole strategia politica in quell’area, non sono affatto cambiati. Tuttavia, Joe Biden a differenza della linea di intransigenza totale di Donald Trump nei confronti degli iraniani sul Trattato (Jcpoa) che riguarda lo sviluppo dell’energia nucleare in Iran, sembra mostrare una maggiore “disponibilità dialettica”. Il punto però è il livello di sfiducia in cui ci si ritrova, ben arricchito da una miriade di dinamiche contrapposte che riguardano Israele, Arabia Saudita e altri principati sauditi a trazione sunnita. Ora si è deciso di ripristinare il Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa), siglato nel 2015 ed entrato in vigore nel 2016, e poi abbandonato dagli Usa di Donald Trump nel maggio 2018. Il problema è che gli USA hanno anche decretato un embargo totale sull’Iran, mai disinnescato da Biden che ha portato il Paese in una condizione di grande difficoltà la cui vittima è la popolazione, creando sacche di povertà inusitate e problemi nel rifornimento anche di medicinali e prodotti di necessità vitale per le persone. Il “metodo” statunitense è collaudato ed è lo stesso che è stato riservato ai cubani e, in parte, al Venezuela. Vale per chi dissente nella sua “area” prossima di influenza territoriale. Peccato che questa “modalità” non venga probabilmente immaginata come violenza, persecuzione, atto di inusitata disumanità verso le popolazioni che pagano prezzi altissimi ad ogni livello determinando gravi crisi umanitarie. Non solo. Nell’intera area si è innalzata la temperatura dello scontro soprattutto nello Stretto di Hormuz, nello Yemen, in Iraq (dove le basi USA provocano disappunto e limitazioni di sovranità). Così è per Israele che teme l’Iran come potenza nucleare e gli altri principati sunniti del golfo che rappresentano clienti strepitosi per l’industria bellica degli americani. Gli USA stanno destabilizzando l’unico Paese (l’Iran) che è in grado di reggere, in quell’area, una dinamica di non belligeranza nonostante le varie infiltrazioni ed espansioni in altre regioni, a fine difensivo, secondo l’interpretazione interessata degli iraniani. Intanto, per effetto delle sanzioni e per il ritiro americano dal Jcpoa, oggi l’Iran è più vicino alla costruzione di un’arma nucleare di quanto lo fosse con il Jcpoa pienamente in vigore. Nei prossimi mesi si capiranno le vere intenzioni dei contendenti circa la firma di accordi sul nucleare.
Chi può dimenticare cosa accadde, in un turnover dell’orrore, all’Iraq dell’ormai ex alleato Saddam Hussein, dopo la fine della guerra persa con gli iraniani. Quella volta gli americani intervennero per salvaguardare i valori democratici e di benessere del Kuwait (ancora una volta!), un altro “principato illuminato” del Golfo contro il nemico in agguato di turno. Saddam Hussein non mostrò spirito di autoconservazione, certo, ma gli americani guidati dalla dinastia dei Bush ebbero presto a sventolare lo striscione di sempre: “Missione compiuta”, non importa con quanti morti, carestie e milioni di profughi in fuga, quante deflagrazioni, sofferenze e destabilizzazioni abbiano collezionato. Solo nel 1991, nella Guerra del Golfo dopo 42 giorni di combattimenti, 100.000 soldati iracheni furono uccisi e 20.000 civili trovarono la morte. Secondo la Brown University dal 2003 al ritiro formale delle forze combattenti statunitensi nel 2011, la guerra è costata ai contribuenti americani 1700 miliardi di dollari e 490 miliardi per l’assistenza ai reduci di guerra. In quegli anni, complessivamente 4.500 americani hanno perso la vita e più di 600.000 veterani sono stati registrati come disabili. Di essi circa il 10% soffre di disturbo da shock post-traumatico (PTSD), 40.000 di loro sono oggi addirittura senzatetto. Le stime del numero degli sfollati all’interno dell’Iraq e dei rifugiati, principalmente in Giordania e Siria attribuibili alla guerra, variano da 3,5 milioni a 5 milioni o più. Tutti i resoconti hanno indicato la violenza o le minacce di pulizia etnica o settaria come cause principali dello spostamento di masse di popolazione. L’instabilità in Medio Oriente ha anche contribuito alla peggiore crisi dei rifugiati in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Come ammesso da Barak Obama “L’ISIS è una conseguenza diretta di Al Qaeda in Iraq nata dalla nostra invasione”. Peccato, però, che di democrazie e di benessere, di diritti umani, in Kuwait, in Iraq, in Iran, nei Paesi del Golfo, per ora non vi è traccia.
A pochi chilometri di distanza, lo scacchiere mediorientale mostra tutta la sua complessità e le responsabilità gravissime della strategia statunitense, considerando quanto accaduto in Siria in anni di guerra civile e centinaia di migliaia di morti. I numeri delle torture e delle atrocità compiute dai ribelli siriani, dai gruppi islamisti, dal regime di Assad e da tutti gli attori interessati presenti sul territorio hanno riportato l’umanità in un labirinto di oscenità inimmaginabile, azioni di una tale malvagità impossibili da rappresentare nel peggior film dell’horror. Dieci milioni di sfollati hanno interessato quello spazio durante e dopo la guerra civile. Quella fu una guerra per procura fra USA e Russia, con la partecipazione degli iraniani e degli hezbollah libanesi, dell’ISIS, della Turchia e di altre formazioni islamiste finanziate dai sauditi. Barak Obama cercò in tutti i modi di occultare l’intervento americano, massiccio e pregnante, più di quello che veniva mostrato agli americani stessi e al mondo intero. La retorica del mainstream ha voluto sempre rappresentare la posizione di Obama come un “rifiuto” alla guerrafondaia Hillary Clinton favorevolissima nell’armare i ribelli siriani: la segretaria di stato, invece, ben incise sul presidente tanto che, il New York Times (mai smentito), riportò la notizia di un decreto ministeriale segreto del 2013 sulla fornitura di armi e uomini ai ribelli siriani da parte della CIA. Dunque non solo supporto organizzativo e logistico, come si sosteneva, ma presenza americana al fianco dei ribelli con armi ad alta tecnologia. Nessuno sa quanti soldati o forze speciali americane fossero in quei territori. Gli americani questa guerra l’hanno persa: ma che importa se il bottino è stato il business delle armi, fiorente e ben orchestrato.
In Afghanistan, il grado di fallimento e di perpetrazione della violenza non hanno avuto pari nella storia. Dopo il ritiro, il simultaneo oblio di quello Stato e di quei popoli ha avuto la durata di un lasso di tempo paragonabile a uno sbadiglio. La vergogna ci attanaglia anche perché, a questa operazione, si è prestata (come in tante altre) la civile e democratica Europa. Avendo già raccontato su queste pagine le dinamiche e le cause del conflitto-occupazione dell’Afghanistan è doveroso passare alle cifre e ai costi di questa indefinibile quanto orribile pagina di storia. In venti anni, dal 2001, le vittime sono state in tutto 172.403, fra cui militari e forze di polizia. Sono 51.191 i morti fra i talebani e altri combattenti delle varie fazioni. Le vittime civili sono state 47.245. Le perdite degli Usa e della coalizione dei loro alleati sono state 3.846. I decessi fra i soldati statunitensi sono stati 2.461, a cui vanno aggiunti 1.144 soldati in forze agli eserciti di altri Paesi. Di questi 53 sono italiani. Gli operatori umanitari, giunti in Afghanistan per portare aiuto alle popolazioni civili e deceduti, sono stati in tutto 444. I giornalisti che hanno perso la vita sono stati 72. La spesa totale per gli Stati Uniti e le forze alleate nel conflitto afghano è stata di 2.313 miliardi di dollari. Il costo finale della presenza tricolore nella repubblica islamica è di 8,7 miliardi di euro, 840 milioni dei quali rappresentano contributi erogati direttamente alle forze armate afghane.
Infine, molto interessanti le analisi di alcuni studiosi e diplomatici che hanno dedicato, senza ipocrisia, la loro attenzione al ruolo dell’Europa nelle azioni belliche e geopolitiche degli americani. È il caso, ad esempio, di ricordare le parole di Marco Carnelos, ex ambasciatore in Iraq, ex inviato speciale per la Siria e il processo di pace nel conflitto israelo-palestinese, oggi presidente della MC Geopolicy. Egli sostiene che la Prima guerra mondiale abbia segnato l’inizio del declino politico e militare dell’Europa; che il conflitto abbia aperto la strada al dominio globale degli USA a spese dei tre imperi europei, come quello asburgico, germanico e russo. Con la Seconda guerra mondiale l’Europa avrebbe compiuto la sua totale auto-emarginazione come attore globale. Quest’ultimo conflitto avrebbe determinato lo strapotere Usa e il bipolarismo con l'URSS, liquidando definitivamente i residui poteri britannici e francesi. Sono questi i due suicidi che hanno gettato l’Europa nell’irrilevanza. La storia, inoltre, a detta di Carnelos, ricorderà quest’anno come un ulteriore spartiacque storico, definito come “terzo suicidio” compiuto dall’Europa. Come non essere d’accordo: l’Europa ha rinunciato a un ruolo preventivo di dissuasione dei conflitti per Stati che confinano o sono alle sue porte, inclusi quelli mediorientali. Non è in grado di sostenere una politica diplomatica autonoma che non segua gli USA su un terreno di autodistruzione e impoverimento. Se un capo della diplomazia come Josep Borrel dice che “questa guerra verrà vinta sul campo di battaglia”, è legittimo immaginare quanto inappropriata e indecente sia questa affermazione per un diplomatico che dovrebbe impegnarsi per la pace e la prosperità del proprio continente. Attori esterni all’Europa come la Gran Bretagna soffiano sul fuoco della guerra e, addirittura, stati come la Turchia e Israele si sono posti come mediatori diplomatici di un conflitto che riguarda l’Europa. Le circostanze che l’espansione verso est della NATO (Jens Stoltenberg non perde occasione di minacciare e infiammare il conflitto a più riprese con dichiarazioni pericolosissime), il colpo di stato in Ucraina e la questione del Donbass, siano state taciute per quasi un decennio, è la prova regina dell’inconsistenza diplomatica e di mancanza di leader credibili in Europa. Nessuna giustificazione all’invasione criminosa russa che deploriamo e, speriamo, apra le porte a una riflessione soprattutto giudiziaria dei crimini commessi in Ucraina, ma le responsabilità degli attori europei sono colossali.
Dunque e infine, a proposito di macellai e fattispecie simili in riferimento alla brutalità dei responsabili di “tutte” le guerre, abbiamo voluto narrare e ricordare solo la storia di alcuni dei conflitti e delle violenze provocate dagli USA in Medioriente, tralasciando altre decine di casi in cui la più grande democrazia di questo mondo si è macchiata di gravi responsabilità in termini di vite umane e catastrofi di ogni tipo. Gli interventi degli americani in altri Stati e realtà politiche hanno devastato e provocato derive umanitarie in Giappone, con le uniche bombe nucleari sganciate fino ad oggi nel mondo, in Cile, in Centroamerica, in Sudamerica, in Vietnam, nell’ex Jugoslavia, in Libia. Il racconto di questi eventi impiegherebbe fiumi ininterrotti di inchiostro. Di democrazie e benessere, però, non v’è traccia. Neppure il segno o una voce di dissenso, di semplice attestazione della memoria di quanto gli USA abbiamo realizzato nel mondo: milioni di morti civili, militari, carestie e migrazioni che questo mondo accetta ipocritamente, senza tribunali e senza mai provare ripugnanza, semplicemente guardando in cielo l’effimero passaggio delle nuvole.
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