Il rebus europeo è, per molta compagneria, ancora immerso nel mistero. Per un verso si coglie la presenza dell’Unione Europea (la struttura istituzionale semi-statuale, non il Vecchio Continente; così come lo Stato italiano è cosa distinta dall’Italia), se ne analizzano i trattati, se ne criticano le decisioni, ecc.
Per l’altro si cerca di evitare l’identificazione di questa struttura con un “super-Stato”, preferendo immaginare che sia una specie di Onu, dove ognuno porta le sue opinioni e si prendono accordi non troppo vincolanti, tra Paesi liberi di fare poi come gli pare. Non sempre si vede, insomma, il potere coercitivo delle varie istituzioni europee, a partire dalla Commissione – l’equivalente di un governo, anche se con meno poteri – sui singoli Stati.
Eppure si tratta di un potere esercitato con tecnocratica brutalità ogni volta che una legge di bilancio nazionale si discosta dagli obiettivi indicati dalla Commissione, anche il grado di coercizione varia ovviamente a seconda della forza economica del singolo Paese. Alla Germania, insomma, viene perdonato di tutto, alla Grecia o equivalenti ben poco...
Questa ritrosia a riconoscere la realtà, o a smussarne le spigolosità più acuminate, ha una spiegazione politica, probabilmente. Che affonda nella demonizzazione di regime per cui ogni critica alla UE diventa “sovranista”, “di destra”, “populista” e via cantando.
Si tratta di un fenomeno che ha avuto un certo clamore – e un appeal elettorale forte – fino alla nascita del “governo giallo-verde” (il Conte I), sciogliendosi poi come neve al sole.
Ma non su può analizzare il mondo con la paura che alcune cose o definizioni siano state dette anche da altri. È nota la metafora: anche un orologio rotto segna l‘ora giusta due volte al giorno.
Dunque se i leghisti o i pentastellati hanno raccolto momentanee fortune facendo finta di essere contro un assetto istituzionale che concretamente punta al peggioramento delle condizioni di vita delle popolazioni di tutta Europa, non è che allora quelle istituzioni diventano “meno cattive” – nella nostra analisi e nella nostra testa – solo perché non si vuole essere etichettati come “sovranisti”.
Guardare in faccia la realtà, e riconoscerla per quel che è, è indispensabile per prendere decisioni sensate (non è detto che siano anche immediatamente “vincenti”). “Aggiustare” l’analisi in base a quel che si può fare, invece, è un modo sicuro di perdere l’orientamento.
Pubblichiamo qui, in traduzione, un estratto dallo studio commissionato dal gruppo della Sinistra Unita Europea al Parlamento Europeo, e specificamente dal suo co-presidente, Martin Schirdewan, della Die Linke tedesca. Nulla di particolarmente rivoluzionario o estremista, insomma.
Anzi, come potrete notare (visto anche l’intento dello studio e di chi l’ha commissionato), è fortissima l’illusione che si possa “riformare la UE” dall’interno, senza metterne in discussione i princìpi costitutivi.
Lo studio – pubblicato due anni fa, dunque politicamente “anteguerra” e ante-pandemia – è stato condotto da Emma Clancy. Potete leggere lo studio completo qui.
Scorrendolo potrete apprendere che una serie di trattati di natura apparentemente solo “procedurale” (Fiscal Compact, Six Pack, Two Pack) hanno aumentato il potere della Commissione europea sulle decisioni di bilancio degli stati membri.
Non serve essere degli esperti di diritto costituzionale comparato per dedurne che la più importante legge di ogni Stato – la “finanziaria”, quella che ogni anno determina quanto lo Stato può spendere e da dove prende le risorse – è ora nelle mani della Commissione Europea. Ed anche molte altre “riforme” che in teoria dovrebbero essere liberamente decise dai vari Parlamenti...
E che, dunque, la “libertà sovrana” di ogni paese della UE – quella che viene invocata dai media di regime a proposito della possibilità che l’Ucraina entri nella Nato e nelle UE – è passata in altre mani. Così come la politica monetaria (alla Bce), quella diplomatica (con qualche libertà in più) e quella militare (sussunta dalla Nato, fin qui, ma con la prospettiva ormai in campo di un “esercito europeo” con qualche ambizione autonoma, specie in Nordafrica).
Poi, certo, ogni Stato può contrattare – sulla base del proprio peso economico e politico – quantità e tempi di realizzazione di quegli obiettivi. Ma non la “direzione di marcia”. Tsipras, Salvini, Conte, ecc. (sicuramente diversi tra loro) potrebbero fornire esempi dettagliati sulle “pressioni” subite una volta al governo.
Si potrà anche sapere, leggendo, che le “prescrizioni” della Commissione, oltre ad essere molto autoritarie, sono attente anche alle singole voci di spesa pubblica di ogni Stato.
E, guarda caso, sono tutte univocamente dirette (vedi tabella B) ad “aumentare l’età pensionabile e ridurre la spesa pensionistica”, “tagli alla spesa sanitaria e privatizzazione della sanità”, “soppressione della crescita salariale”, “riduzione della sicurezza sul lavoro e dei diritti dei lavoratori”, “riduzione del supporto a disoccupati, persone vulnerabili e con disabilità”.
Tutte politiche che abbiamo visto alacremente all’opera fin dal Trattato di Maastricht (1992) e che hanno trasferito ricchezze ciclopiche dalle fasce più deboli (e numerose) della popolazione a quelle più ricche e numericamente limitatissime.
Le disuguaglianze di cui gente come Mario Draghi finge di dolersi sono state intenzionalmente create da politiche messe in atto per raggiungere questo obiettivo. Politiche di rapina con il sorriso sulle labbra e il mantra “lo vuole l’Europa”.
Ce n’è abbastanza, secondo noi, per inquadrare il rebus dell’Unione Europea come una questione di classe, non di geopolitica o di nazionalismo.
Buona lettura.
Per l’altro si cerca di evitare l’identificazione di questa struttura con un “super-Stato”, preferendo immaginare che sia una specie di Onu, dove ognuno porta le sue opinioni e si prendono accordi non troppo vincolanti, tra Paesi liberi di fare poi come gli pare. Non sempre si vede, insomma, il potere coercitivo delle varie istituzioni europee, a partire dalla Commissione – l’equivalente di un governo, anche se con meno poteri – sui singoli Stati.
Eppure si tratta di un potere esercitato con tecnocratica brutalità ogni volta che una legge di bilancio nazionale si discosta dagli obiettivi indicati dalla Commissione, anche il grado di coercizione varia ovviamente a seconda della forza economica del singolo Paese. Alla Germania, insomma, viene perdonato di tutto, alla Grecia o equivalenti ben poco...
Questa ritrosia a riconoscere la realtà, o a smussarne le spigolosità più acuminate, ha una spiegazione politica, probabilmente. Che affonda nella demonizzazione di regime per cui ogni critica alla UE diventa “sovranista”, “di destra”, “populista” e via cantando.
Si tratta di un fenomeno che ha avuto un certo clamore – e un appeal elettorale forte – fino alla nascita del “governo giallo-verde” (il Conte I), sciogliendosi poi come neve al sole.
Ma non su può analizzare il mondo con la paura che alcune cose o definizioni siano state dette anche da altri. È nota la metafora: anche un orologio rotto segna l‘ora giusta due volte al giorno.
Dunque se i leghisti o i pentastellati hanno raccolto momentanee fortune facendo finta di essere contro un assetto istituzionale che concretamente punta al peggioramento delle condizioni di vita delle popolazioni di tutta Europa, non è che allora quelle istituzioni diventano “meno cattive” – nella nostra analisi e nella nostra testa – solo perché non si vuole essere etichettati come “sovranisti”.
Guardare in faccia la realtà, e riconoscerla per quel che è, è indispensabile per prendere decisioni sensate (non è detto che siano anche immediatamente “vincenti”). “Aggiustare” l’analisi in base a quel che si può fare, invece, è un modo sicuro di perdere l’orientamento.
Pubblichiamo qui, in traduzione, un estratto dallo studio commissionato dal gruppo della Sinistra Unita Europea al Parlamento Europeo, e specificamente dal suo co-presidente, Martin Schirdewan, della Die Linke tedesca. Nulla di particolarmente rivoluzionario o estremista, insomma.
Anzi, come potrete notare (visto anche l’intento dello studio e di chi l’ha commissionato), è fortissima l’illusione che si possa “riformare la UE” dall’interno, senza metterne in discussione i princìpi costitutivi.
Lo studio – pubblicato due anni fa, dunque politicamente “anteguerra” e ante-pandemia – è stato condotto da Emma Clancy. Potete leggere lo studio completo qui.
Scorrendolo potrete apprendere che una serie di trattati di natura apparentemente solo “procedurale” (Fiscal Compact, Six Pack, Two Pack) hanno aumentato il potere della Commissione europea sulle decisioni di bilancio degli stati membri.
Non serve essere degli esperti di diritto costituzionale comparato per dedurne che la più importante legge di ogni Stato – la “finanziaria”, quella che ogni anno determina quanto lo Stato può spendere e da dove prende le risorse – è ora nelle mani della Commissione Europea. Ed anche molte altre “riforme” che in teoria dovrebbero essere liberamente decise dai vari Parlamenti...
E che, dunque, la “libertà sovrana” di ogni paese della UE – quella che viene invocata dai media di regime a proposito della possibilità che l’Ucraina entri nella Nato e nelle UE – è passata in altre mani. Così come la politica monetaria (alla Bce), quella diplomatica (con qualche libertà in più) e quella militare (sussunta dalla Nato, fin qui, ma con la prospettiva ormai in campo di un “esercito europeo” con qualche ambizione autonoma, specie in Nordafrica).
Poi, certo, ogni Stato può contrattare – sulla base del proprio peso economico e politico – quantità e tempi di realizzazione di quegli obiettivi. Ma non la “direzione di marcia”. Tsipras, Salvini, Conte, ecc. (sicuramente diversi tra loro) potrebbero fornire esempi dettagliati sulle “pressioni” subite una volta al governo.
Si potrà anche sapere, leggendo, che le “prescrizioni” della Commissione, oltre ad essere molto autoritarie, sono attente anche alle singole voci di spesa pubblica di ogni Stato.
E, guarda caso, sono tutte univocamente dirette (vedi tabella B) ad “aumentare l’età pensionabile e ridurre la spesa pensionistica”, “tagli alla spesa sanitaria e privatizzazione della sanità”, “soppressione della crescita salariale”, “riduzione della sicurezza sul lavoro e dei diritti dei lavoratori”, “riduzione del supporto a disoccupati, persone vulnerabili e con disabilità”.
Tutte politiche che abbiamo visto alacremente all’opera fin dal Trattato di Maastricht (1992) e che hanno trasferito ricchezze ciclopiche dalle fasce più deboli (e numerose) della popolazione a quelle più ricche e numericamente limitatissime.
Le disuguaglianze di cui gente come Mario Draghi finge di dolersi sono state intenzionalmente create da politiche messe in atto per raggiungere questo obiettivo. Politiche di rapina con il sorriso sulle labbra e il mantra “lo vuole l’Europa”.
Ce n’è abbastanza, secondo noi, per inquadrare il rebus dell’Unione Europea come una questione di classe, non di geopolitica o di nazionalismo.
Buona lettura.
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In un contesto di prolungata stagnazione e bassa crescita, tassi d’interesse bassissimi, aumento della disuguaglianza di reddito e ricchezza, e un disperato bisogno di massicci investimenti pubblici nella transizione climatica, porre restrizioni arbitrarie sulle capacità di prestito e di spesa dei governi europei non può essere economicamente o socialmente giustificato.
È quasi universalmente riconosciuto che il Patto di stabilità e crescita (PSC) non è riuscito a garantire né la stabilità economica né la crescita nell’Unione europea (UE), fin dalla sua introduzione nel 1997.
Ha infatti dimostrato di aver agito per soffocare la crescita, ed ha approfondito e prolungato la doppia recessione nell’UE. Le rigide regole fiscali hanno agito come una barriera diretta alla ripresa della crescita economica ai livelli pre-crisi, e contribuiscono all’attuale crescita lenta nell’UE.
Mentre il PSC è stato allentato a causa dell’opposizione politica alle regole da parte di potenti stati membri nel 2005, le riforme post-crisi del 2011 (il Six-Pack) e del 2013 (il Two-Pack e il trattato intergovernativo Fiscal Compact) hanno drammaticamente aumentato il potere della Commissione europea sulle decisioni di bilancio degli stati membri.
Questi cambiamenti hanno rafforzato le regole fiscali ma hanno indebolito il processo decisionale democratico.
Il contenuto del PSC, e i criteri di convergenza del Trattato di Maastricht (1992) su cui era basato, riflettono l’ideologia economica dominante degli anni ’90, oltre a riflettere le condizioni economiche generali che prevalevano all’epoca.
I massimali numerici del PSC – gli stati membri dell’UE devono mantenere i loro deficit di bilancio al di sotto del 3% del PIL e il rapporto tra debito pubblico e PIL al di sotto del 60% – possono essere stati basati sugli standard prevalenti del 1997 nell’UE, ma nessuna delle due soglie ha una solida base di analisi economica.
Trasferimento di ricchezza dal lavoro al capitale
La politica fiscale è uno dei modi più importanti che uno stato ha per ridistribuire la ricchezza e contenere o ridurre la disuguaglianza di reddito e di ricchezza. I vincoli imposti dal PSC hanno limitato direttamente la capacità degli stati di ridistribuire la ricchezza.
Mentre sono state fatte delle mosse per esentare alcune forme di investimento dalle regole (ad esempio, i contributi nazionali ai progetti del Fondo Europeo per gli Investimenti Strategici) sulla base del fatto che tali investimenti genereranno una crescita del PIL, i trasferimenti diretti di risorse attraverso la spesa in programmi di welfare e servizi pubblici sono minacciati dal PSC.
Il PSC promuove attivamente il trasferimento di ricchezza dal lavoro al capitale, un processo che si è intensificato attraverso la procedura di squilibrio macroeconomico introdotta come parte del Six-Pack.
Le misure politiche specifiche richieste dalla Commissione si concentrano sulla limitazione della crescita dei salari; l’aumento della soglia di età per ricevere una pensione; la privatizzazione delle imprese statali e della sanità; la promozione di orari di lavoro più lunghi; la richiesta di una riduzione della sicurezza del lavoro; e il taglio dei fondi ai servizi sociali.
Un’analisi delle raccomandazioni specifiche per paese nell’ambito del PSC e della procedura per gli squilibri macroeconomici dal 2011 trova che, oltre a richieste coerenti di riduzione della spesa pubblica, la Commissione ha specificamente individuato le pensioni, la fornitura di assistenza sanitaria, la crescita dei salari, la sicurezza del lavoro e i sussidi di disoccupazione da attaccare.
Nella tabella di seguito il contenuto delle raccomandazioni specifiche per paese della Commissione nell’ambito del Patto di stabilità e crescita e della procedura per gli squilibri macroeconomici 2011-2018 e il numero di stati membri dell’UE a 28 che hanno ricevuto istruzioni dalla Commissione.
Con la scusa di limitare il debito e il deficit, la Commissione europea sta imponendo l’austerità in aree politiche su cui non ha autorità legale.
Dall’introduzione del semestre europeo nel 2011 al 2018, la Commissione ha fatto 105 richieste separate ai singoli stati membri per aumentare l’età pensionabile legale e/o ridurre la spesa pubblica per le pensioni e l’assistenza agli anziani.
Ha fatto 63 richieste ai governi di tagliare la spesa sanitaria e/o esternalizzare o privatizzare i servizi sanitari.
Richieste volte a sopprimere la crescita dei salari sono state rivolte agli stati membri in 50 occasioni, mentre istruzioni volte a ridurre la sicurezza del lavoro, le protezioni contro il licenziamento, e i diritti di contrattazione collettiva dei lavoratori e dei sindacati sono state fatte 38 volte.
Oltre alle richieste di routine di tagliare la spesa pubblica per i servizi sociali in generale, la Commissione ha anche fatto 45 richieste specifiche volte a ridurre o rimuovere i benefici per i disoccupati, le persone vulnerabili e le persone con disabilità, anche attraverso l’attuazione di misure punitive per forzare questi individui nel mercato del lavoro – o, almeno, a diventare persone in cerca di lavoro.
L’ideologia e la metodologia errata del PSC
Gli architetti dell’euro erano consapevoli dei molti effetti di “spillover” che gli squilibri in un’economia possono avere sulle altre in un’unione monetaria. Tuttavia, le istituzioni dell’UE si sono concentrate unicamente sul perseguimento della svalutazione interna e sulla riduzione delle “rigidità salariali”. L’impatto deflazionistico di uno o più stati con un grande surplus delle partite correnti [la Germania, in primis, ndr] è stato ampiamente ignorato.
La giustificazione economica delle politiche di austerità pre e post-crisi dell’UE è basata sulla teoria marginale dell'”austerità espansiva” che è stata decisamente smentita dai fatti.
Il calcolo del deficit strutturale (la spesa discrezionale di un governo meno i fattori ciclici), che è usato per determinare se uno Stato sta violando l’obiettivo di deficit del 3% dall’introduzione del Six-Pack, è molto contestato.
Il fatto che il deficit strutturale sia “non osservabile” ha portato a situazioni bizzarre come la procedura per deficit eccessivo che la Commissione ha aperto contro l’Italia nel 2018 nel timore che la stagnante economia italiana fosse a rischio di surriscaldamento.
La questione del debito pubblico
Il rapporto medio tra debito pubblico e PIL nell’UE è cresciuto da una media di circa il 65-70% nel 1997 all’80,4% nel 2018.
Il debito dell’Eurozona era inferiore alla media dell’UE nel 1997, ma questa tendenza si è poi invertita. Il debito pubblico dell’Eurozona ha raggiunto un picco del 93 per cento nel 2014 ed è sceso all’86,1 per cento nel 2018.
Il debito pubblico non è intrinsecamente “buono” o “cattivo”. La letteratura che sostiene che una volta raggiunta una certa soglia di debito pubblico (90-100 per cento del PIL), il tasso di crescita del PIL diminuirà, è inconcludente e contestata.
Il livello del debito non è così importante finché lo Stato è in grado di continuare a rinnovare e servire il suo debito [pagare gli interessi, ndr]. Nell’attuale contesto di prolungati tassi d’interesse ultra-bassi, il costo del prestito è minimo o nullo.
Il preciso scenario che il PSC avrebbe dovuto prevenire – una crisi contagiosa del debito sovrano all’interno dell’unione economica e monetaria – si è sviluppato dopo la crisi finanziaria globale.
I fattori chiave dietro l’impennata dei livelli di debito pubblico negli stati membri “periferici” dopo il 2008 sono stati:
1) le politiche delle istituzioni dell'UE e degli stati membri nell’organizzare un salvataggio coordinato del settore finanziario, socializzando massicci livelli di debito privato;
2) le azioni della BCE nel non intervenire per fornire credito agli stati colpiti dalla crisi per un lungo periodo di tempo, causando un’impennata dei costi di prestito sul mercato per questi stati;
(3) i programmi di austerità restrittiva imposti dalla Troika.
Allo stesso tempo, mentre limita gli investimenti e le spese pubbliche, l’UE facilita livelli massicci di evasione fiscale da parte delle multinazionali che negano ulteriormente l’accesso dei governi alle entrate vitali.
Il sistema per cui i singoli stati membri dell’UE, molti dei quali sono riconosciuti a livello internazionale come paradisi fiscali, sono autorizzati a porre il veto a proposte di azioni efficaci per combattere l’evasione fiscale permette questa situazione.
Applicazione politicizzata delle regole fiscali
Quasi tutti gli stati membri dell’UE hanno violato le regole ad un certo punto – durante la Grande Recessione, solo il Lussemburgo non ha superato il parametro del 3 per cento di deficit. Solo l’Estonia e la Svezia sono sfuggite alla procedura per deficit eccessivo prevista dal PSC.
Gli esempi di scontro di alto profilo tra gli stati membri e la Commissione riguardo all’applicazione della Procedura per i Disavanzi Eccessivi nell’ambito del PSC dimostrano che l’applicazione delle regole nella pratica è arbitraria, distorta e altamente politica.
I potenti e i compiacenti vengono premiati, mentre gli stati membri più deboli e i dissidenti vengono puniti. I casi di Germania, Francia, Spagna, Portogallo e Italia sono usati qui per dimostrare la disparità nell’applicazione delle regole.
Il processo decisionale incoerente, distorto e segreto del PSC è forse il simbolo più evidente del deficit democratico dell’UE, che mina significativamente la fiducia del pubblico nell’UE.
Una prospettiva di sinistra sulla strategia fiscale
[Questa è la parte, come dicevamo all’inizio, in cui si passa dall’analisi oggettiva dei processi al wishful thinking gravato da illusioni smentite dalla stessa analisi, ndr]
Il PSC sta attualmente affrontando critiche senza precedenti da parte degli stati membri, delle istituzioni dell’UE (come la Banca centrale europea, la Corte dei conti europea e il Consiglio fiscale europeo), e delle istituzioni internazionali, tra cui il Fondo monetario internazionale (FMI) e l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE).
L’imminente revisione del PSC da parte della Commissione, che avrà luogo nel corso del 2020, è un’importante opportunità per avanzare richieste politiche riguardo alle regole fiscali.
Proposte di riforma come l’esclusione degli investimenti verdi o degli investimenti pubblici in generale, e la semplificazione delle regole, sono benvenute, ma insufficienti. La necessaria transizione climatica è impossibile con il PSC. Le decisioni su prestiti e spese devono essere decentralizzate ai parlamenti nazionali responsabili.
L’UE ha bisogno di un grande e coordinato sforzo di investimento pubblico per trasformare radicalmente le nostre economie e società per affrontare le sfide del cambiamento climatico, della digitalizzazione e della crescente disuguaglianza.
Fonte
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