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19/04/2022

Salvare la dittatura del dollaro: la vera guerra di resistenza USA

Sono tempi davvero strani, questi. Tempi in cui politici da quattro soldi, comici e gazzettieri si infilano l’elmetto e chiamano alla “bella guerra”. Soprattutto perché sono altri a combatterla.

Tempi in cui, in nome della “libertà” e del “pluralismo”, è ammessa una sola opinione – quella dominante – altrimenti “stai con il nemico” (oggi Putin, ma altri si delineano all’orizzonte).

Tempi in cui si ragiona per “assoluti” (l'“autodeterminazione” – se ci torna utile, se no cippa – la “sovranità” dello Stato – se ci torna utile, se non cippa, sei un “sovranista” – la “resistenza” – se sono i nostri servi a doverla fare, se no è “terrorismo”).

Tempi in cui le conseguenze di ogni scelta, specie se bellica, sono ignorate. Come se “il nemico” fosse una bersaglio di carta, che si può colpire a piacere, senza riceverne risposta “proporzionata”.

Sappiamo da dove viene questa stolida convinzione. Da trenta anni di guerre fatte “da noi” contro stati incompleti, deboli militarmente ed economicamente, bombardabili a piacere.

Non che le risposte, anche in qui casi, non ci siano tornate indietro sotto forma di bombe ed attentati. Ma, appunto, il termine “terrorismo” serviva a maledire gli autori e soprattutto a non porsi alcuna domanda sul “perché”. “Pazzi”, “invasati”, “sanguinari”, “demoni”, e via infiorettando epiteti non bisognosi di approfondimento, ma perfetti per alzare cortine fumogene.

Ora, invece, abbiamo davanti un “nemico simmetrico”, dotato anch’esso di aviazione, marina, ecc. E armi nucleari. In numero e quantità grosso modo equivalenti alle “nostre” (in realtà degli Usa, ma si sa che i tifosi pensano sempre di essere quasi proprietari della squadra per cui spendono soldi...).

Ma si è persa la capacità critica, ossia la capacità di distinguere, ovvero la potenza dell’intelletto. E dunque la narrazione del “nostro” establishment ripete i vecchi cliché – quelli degli ultimi trenta anni (quanti “nuovi Hitler” sono stati coniati?) – senza minimamente fare il lavoro mentale basilare: dov’è la differenza, ora? Cosa succede concretamente se facciamo questo invece di quest’altro?

Tempi davvero strani, questi. Tempi in cui l’ideologia sostituisce il calcolo dei rapporti di forza. E la potenza delle “figure retoriche” sembra poter passare sopra qualsiasi ostacolo. Anche nucleare.

In tempi come questi, non paradossalmente, tra i pochi a misurare invece i rapporti di forza sono rimasti... i generali. Che ovviamente sanno benissimo da quale parte stanno e giocano (la Nato, ci mancherebbe), ma sono costretti – “è nella loro natura” – a maneggiare schemi operativi, pesare le forze in campo, prevedere azioni e reazioni, calcolare costi e benefici, ecc.

Da questo piccolo mondo di “tecnici della guerra” arrivano così, quasi per sbaglio, piccole illuminazioni sui rischi reali che si corrono, sui veri interessi delle forze in gioco... Senza troppi veli retorici (non è nella loro natura).

Qui di seguito un’analisi del generale Fabio Mini, apparso si Il Fatto Quotidiano, che dice molto di più di quel che i nostri “bellicisti democratici” vorrebbero ascoltare.

Buona lettura.

*****

di Fabio Mini - il Fatto Quotidiano

Per capire la guerra finanziaria che abbiamo (anche noi italiani) dichiarato alla Russia e le sue conseguenze bisogna leggere un libro scritto dal generale cinese Qiao Liang nel 2015 e ora in Italia nell’edizione della Libreria editrice goriziana (LEG) dal titolo L’arco dell’impero, con la Cina e gli Stati Uniti alle estremità.

Poteva apparire profetico sette anni fa ma oggi è cronaca e presto sarà Storia. Vi si legge la strabiliante invenzione della finanza Usa che riesce a staccare la moneta dalla realtà economica e da qualsiasi valore oggettivo di riferimento e convertibilità.

E fa capire come la fede religiosa stampata su tutti i biglietti del dollaro “In God we trust” (Fede in Dio) sia diventata “In Gold we trust” (fede nell’Oro) e poi “in Bucks we trust” (fede nei dollari).

La moneta della fede in Dio rappresentava la speranza in un Nuovo mondo pieno di promesse e nella volontà di realizzarle. Con la tenacia e il lavoro si è prodotta ricchezza e la moneta convertibile in oro ne era il pegno, ma ogni nazione faceva a modo suo e gli scambi internazionali erano difficoltosi.

Nel 1944, a Bretton Woods, Stati Uniti e Gran Bretagna ritengono necessario stabilizzare il mercato e individuare una moneta (dollaro o sterlina) come riferimento per tutti gli scambi monetari, parzialmente convertibile in oro.

Vince il dollaro: da quel momento l’oro e il dollaro sarebbero stati accettati in modo intercambiabile come riserve globali. I dollari sarebbero stati rimborsabili in oro su richiesta a 35 dollari l’oncia (oggi vale 1.960 dollari).

I tassi di cambio delle altre valute furono fissati rispetto al dollaro e per l’America e il mondo si inaugura l’era del “in Gold we trust”. Dove il Gold è quello americano di Fort Knox. Nel 1971, con due guerre non vinte (Corea e Vietnam) e la minaccia di molti Paesi (Francia in testa) di chiedere oro in cambio dei dollari, il presidente Nixon decide di eliminare l’ancoraggio del dollaro all’oro, del quale sta esaurendo le scorte. Continua però a imporlo come moneta di riferimento per gli scambi internazionali.

La moneta non ha più alcuna garanzia concreta se non l’economia della nazione e la fiducia degli altri. La fede nei dollari deve essere cieca: “in Bucks we trust”.

Liberi dai vincoli di Bretton Woods, gli Usa stamparono enormi quantità di moneta e il valore del dollaro crollò rispetto alle altre valute. Per sostenerlo Nixon e Kissinger fecero un accordo con l’Arabia Saudita e i Paesi dell’Opec secondo il quale essi avrebbero venduto petrolio solo in dollari, e i dollari sarebbero stati depositati nelle banche di Wall Street e della City di Londra. In cambio, gli Stati Uniti avrebbero difeso militarmente i Paesi Opec.

Il ricercatore economico William Engdahl presenta anche le prove della promessa che il prezzo del petrolio sarebbe stato quadruplicato. Infatti, una crisi petrolifera collegata a una breve guerra mediorientale fece quadruplicare il prezzo del petrolio, e l’accordo Opec fu concluso nel 1974.

L’accordo rimase in vigore fino al 2000, quando Saddam Hussein lo infranse vendendo il petrolio iracheno in euro. Il presidente libico Gheddafi seguì l’esempio. Entrambi i presidenti finirono assassinati, e i loro Paesi furono distrutti dalla guerra.

Il ricercatore americano-canadese Matthew Ehret osserva: “Non dobbiamo dimenticare che l’alleanza Sudan-Libia-Egitto sotto la leadership combinata di Mubarak, Gheddafi e Bashir, si era mossa per stabilire un nuovo sistema finanziario sostenuto dall’oro al di fuori del Fmi/Banca Mondiale per finanziare lo sviluppo su larga scala in Africa. Questo programma è stato condotto al fallimento, dalla distruzione della Libia guidata dalla Nato, dalla spartizione del Sudan e dal cambio di regime in Egitto”.

Senza tali interventi “il mondo avrebbe visto l’emergere di un grande blocco regionale di Stati africani che modellano i propri destini al di fuori del gioco truccato della finanza controllata dagli angloamericani per la prima volta nella storia”. Per l’Europa i fallimenti africani sono una benedizione.

Ma il ciclo della contestazione del monopolio finanziario è appena iniziato. La Cina che ha fatto dell’Africa un suo polo di attrazione, deve sottostare agli umori degli Usa in termini commerciali e militari. Ma la Russia, a partire dal 2008 (questione Georgia) è bersaglio di sanzioni sempre più pesanti.

All’inizio di dicembre 2021, il Xi Jinping e Vladimir Putin hanno sottolineato l’esigenza di accelerare il processo di formazione di strutture finanziarie indipendenti al servizio degli scambi di Russia e Cina.

Con la guerra in Ucraina, il distacco dal dollaro per la Russia è divenuta questione di sopravvivenza politica. Le sanzioni provocano la prima sfida da parte di una grande potenza al petrodollaro e al sistema occidentale della finanza.

Le misure occidentali hanno tra l’altro compreso il congelamento di quasi la metà dei 640 miliardi di dollari della Banca centrale russa in riserve finanziarie. E la Cina si rende conto di essere nel mirino finanziario prima ancora di quello dei cannoni e accelera il processo di distacco.

Venerdì 11 marzo l’Unione economica eurasiatica (Eaeu) e la Cina hanno concordato di progettare il meccanismo per un sistema monetario e finanziario internazionale indipendente.

L’Eaeu – composta da Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Bielorussia e Armenia – sta facendo accordi di libero scambio con altre nazioni eurasiatiche e si sta progressivamente interconnettendo con la Belt and Road Initiative (BRI) cinese.

La fiducia riposta nel dollaro statunitense come valuta di riserva globale è incrinata e le ritorsioni sono prevedibili e gravissime. Putin, il 16 marzo, afferma che Usa e Ue sono venuti meno agli obblighi, e che il congelamento delle riserve della Russia segna la fine dell’affidabilità dei cosiddetti asset di prima classe che comprendono le istituzioni a garanzia dei maggiori strumenti finanziari e monetari.

La confisca dei patrimoni e il congelamento dei depositi e investimenti all’estero operata contro i russi preoccupa tutto il mondo finanziario. È un “furto” che può capitare a tutti, basta entrare in una lista nera redatta dagli americani.

Putin non si limita a rilanciare le accuse, ma impartisce direttive chiare per le misure strutturali e infrastrutturali da lanciare all’interno del Paese. Il 23 marzo, Putin annuncia che il gas naturale della Russia sarà venduto a “Paesi ostili” solo in rubli russi (o in oro), piuttosto che in euro o dollari.

Quarantotto nazioni sono contate dalla Russia come “ostili”, tra cui Usa, Gran Bretagna, Ucraina, Svizzera, Corea del Sud, Singapore, Norvegia, Canada, Giappone e Italia.

L’economista Michael Hudson ha notato che le sanzioni economiche e finanziarie “stanno costringendo la Russia a fare ciò che è stata riluttante a fare da sola: ridurre la dipendenza dalle importazioni e sviluppare le proprie industrie e infrastrutture”.

Proprio il piano che avrebbe voluto lanciare Obama per sanare la perdita di capacità manifatturiera causata da decenni di delocalizzazione e dipendenza dal commercio estero. Progetto, secondo Qiao, ormai tardivo e che comunque non porterà a diminuire il debito e relativa dipendenza commerciale statunitense.

Ci sono però le guerre che possono bilanciare le carenze strutturali interne e non servono solo a stabilire principi. Le “guerre senza fine” del Pentagono – scrive Qiao – sono in realtà progettate per garantire “che non solo i dollari fluiscano senza problemi fuori dal Paese (sotto forma di cessioni finanziarie e di crediti) ma anche che il capitale in movimento nel mondo torni negli Stati Uniti”.

Questo meccanismo, che ha straordinariamente arricchito l’America negli ultimi 40 anni (raddoppio del Pil) in buona parte a spese del resto del mondo, è l’aspettativa più concreta della guerra per procura alla Russia.

La questione del gas ha aperto un altro fronte di guerra e ha oscurato la questione del dollaro. Ma la ragione dell’oscuramento non è un effetto del gas.

Nel libro Qiao cita l’episodio di Alan Greenspan che all’atto di assumere la direzione della Federal Reserve disse ai suoi nuovi dipendenti: “Qui alla Fed potete parlare di tutto, ma non del dollaro”. Di fatto è un tabù. Che sta per essere infranto.

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