Mentre la pandemia è scomparsa dalle cronache, spazzata via dai tremendi venti di guerra, vi è una battaglia che i liberisti e i loro media non abbandonano mai: quella contro i lavoratori e le lavoratrici. Cattura la nostra attenzione un articolo recentemente pubblicato su Il Sole 24 ore, dal titolo Troppi vincoli alla flessibilità e il mercato del lavoro s’inceppa, che affronta il tema della (poca, secondo l’autore) flessibilità del lavoro italiano. Se noi ci permettessimo di scrivere un articolo con un tono così assertivo, verremmo sicuramente tacciati di essere ideologici. Al contrario, certe affermazioni, prive di giustificazioni, non supportate da nessun tipo di argomentazione né avvalorate da dati, trovano sovente spazio nei maggiori quotidiani nazionali.
L’articolo in questione è un susseguirsi di prese di posizione violente e campate in aria, che trasudano di ideologia antioperaia. La tesi principale che l’autore dell’articolo intende sostenere è la seguente: sembrerebbe che le difficoltà economiche legate alla guerra si scaricheranno sull’occupazione perché l’attuale assetto del mercato del lavoro tutelerebbe troppo i lavoratori, ponendo vincoli eccessivi e crescenti alle assunzioni (leggasi, penalizzanti per i padroni). È importante sottolineare come per “vincoli alle assunzioni” ci si riferisca alla possibilità di disporre liberamente della forza lavoro: secondo chi scrive, l’ostacolo alle assunzioni – e quindi alla ripresa dell’occupazione – sarebbe rappresentato dall’impossibilità di avere totale discrezionalità nell’applicare contratti a termine. Sembrerebbe, leggiamo, che il legislatore imponga alle imprese di assumere “a prescindere, a tempo indeterminato”. Una preoccupazione totalmente priva di fondamento, che si scontra con una realtà fatta di lavoro sempre più precario e sempre più povero.
Infatti, le imprese italiane hanno da tempo la libertà indiscriminata di assumere con le forme contrattuali che più desiderano. Nel tentativo di sostenere la tesi per cui ci siano troppi lacci e lacciuoli, l’autore tira in ballo varie questioni, dai vincoli ai tirocini a quelli sull’apprendistato. Ciò su cui si dilunga di più però è la somministrazione a tempo indeterminato. Il contratto in questione ha dell’incredibile: si viene assunti a tempo indeterminato da un’agenzia interinale che si “impegna” a trovare un’occupazione temporanea al lavoratore presso un’azienda terza, detta utilizzatrice. Qualora il contratto a tempo determinato presso l’utilizzatrice non venisse rinnovato, il lavoratore rimarrebbe nelle disponibilità dell’agenzia interinale che gli verserebbe una indennità di disponibilità per il periodo di disoccupazione (circa 800 euro a mese per un lavoratore full-time, da riparametrare nel caso di lavoro a tempo parziale). Il casus belli riguarda l’applicazione del Decreto Dignità anche a questo tipo di contratto. Il decreto aveva infatti modificato la normativa sui contratti a tempo determinato e dopo la liberalizzazione selvaggia del Jobs Act e del Decreto Poletti aveva reintrodotto l’obbligo di causale e ridotto il numero di rinnovi possibili, limitando la durata del tempo determinato a 24 mesi. La questione su cui si interroga l’autore è se sia giusto che questi vincoli si applichino o meno anche ai contratti a tempo determinato stipulati a soggetti che hanno un contratto di somministrazione a tempo indeterminato. Quello che sembra uno scioglilingua nasconde una cruda realtà dei fatti. Una prima interpretazione avrebbe voluto che i vincoli non si applicassero: in sostanza l’assunzione a tempo indeterminato in somministrazione rappresentava l’anticamera per la precarietà più spietata perché permetteva che il lavoratore fosse “prestato” ad un’azienda con contratto a tempo determinato senza obbligo di motivazione né vincoli temporali. Invece, con sommo sdegno dell’autore, questa norma “liberalizzatrice” dopo una serie di spostamenti in avanti cesserà di valere il 31 dicembre 2022 (salvo ulteriori proroghe). Vuol dire che, dal prossimo anno, anche per i contratti a tempo determinato derivanti da contratti di somministrazione a tempo indeterminato varrà la durata massima di due anni (ripetiamo, ammesso e non concesso che il quadro normativo resti quello previsto). Lo scandalo starebbe nel fatto che l’effetto di questa norma sarebbe quello di far cessare circa 100 mila contratti precari, invece che farli continuare all’infinito. Questa asserzione ci permette bene di comprendere quale sia la partita che si gioca nel mercato del lavoro e quale la retorica che viene utilizzata per sostenere sempre e comunque la diffusione del precariato.
Se il volume di occupati dipende dal livello della domanda aggregata, le norme hanno “solo” il compito di stabilire quale sia il livello di sfruttamento accettabile. In questo senso, da un punto di vista macroeconomico, se quei cento mila lavoratori diventeranno disoccupati dipenderà da una carenza di domanda aggregata. Tuttavia, se come pare credere l’autore la domanda di lavoro fosse tale da necessitare ancora di questi lavoratori, perché non trasformare i loro contratti in tempo indeterminato? Se si ammette, infatti, che in assenza di vincoli i loro contratti verrebbero rinnovati, si ammette anche che la loro presenza sia utile alle esigenze produttive. E allora se non è un problema di esubero di lavoratori, il problema quale è? Il problema è che il precariato non c’entra niente con quanti lavoratori vengono assunti ma c’entra tanto con quanto essi sono forti e combattivi. Un lavoratore precario è più ricattabile, meno propenso a rivendicare diritti e salario perché tenuto sotto il giogo del rinnovo. Ecco, dunque, la posta in gioco: non la quantità di lavoro, ma la quantità di sfruttamento che per i padroni non è mai abbastanza.
L’Italia, per altro, checché ne dicano i pennivendoli del Sole 24 ore, è il paese europeo che più ha flessibilizzato il mercato del lavoro. L’OCSE ha costruito un indicatore proprio per valutare il grado di tutela dei lavoratori e di flessibilità del mercato del lavoro. Ebbene, andando ad analizzarlo, si noterà che in Italia le tutele contro il licenziamento per i contratti a tempo indeterminato sono diminuite, tra il 1990 e il 2018, del 18%, intaccate prima dalla Legge Fornero e poi dal Jobs Act. La liberalizzazione dei contratti a tempo determinato invece è stata drammaticamente pesante, con l’indicatore dedicato che si è ridotto addirittura del 66%. Questi dati certificano che il mercato del lavoro in Italia ha subito una serie invasiva di interventi che lo hanno reso tra i più flessibili in Europa. Per altro, come numerose ricerche hanno ormai certificato, la flessibilizzazione del mercato del lavoro non è correlata in nessun modo con la creazione dei posti di lavoro. Detto in altri termini, le riforme del mercato del lavoro non fanno aumentare l’occupazione. Hanno però un effetto negativo sul potere contrattuale dei lavoratori e dunque sui loro salari. Tutto ciò è ben noto e anche da parte nostra è stato ripetuto più volte. L’Italia ha dei trend occupazionali drammaticamente bassi, una domanda di lavoro a dir poco stagnante e salari in caduta libera da decenni. L’unica cosa che cresce costantemente è lo sfruttamento.
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