Uno studio della Fondazione Nord Est suona l’allarme sulla fine di un mito: l’agganciamento delle regioni manifatturiere del nord a quelle tedesche. Questo processo, negli anni scorsi, aveva fatto parlare del Nordest italiano come della “Baviera del Sud”, sia per l’avanzato livello di connessione con le filiere industriali tedesche, sia per i livelli di Pil e reddito che distanziavano queste regioni italiane dal resto del paese e le collocavano ai livelli dei lander tedeschi più ricchi.
Ma il mito della Baviera del Sud e dell’agganciamento alla Germania ha subito duri colpi, anche e soprattutto nel Nordest, dove il mito produttivo si è rivelato in realtà subordinazione dentro un ruolo di subfornitore alle filiere industriali tedesche
Negli ultimi vent’anni tutte le regioni italiane sono cresciute a ritmi inferiori rispetto a quelli delle altre regioni d’Europa, in particolare rispetto alle regioni di testa. Un andamento che ha accomunato anche le regioni del Nordest, che una volta venivano considerate la “locomotiva d’Italia” per la loro capacità di trainare l’economia nazionale.
Il Pil pro-capite medio europeo, si legge nel documento, è passato da 24.175 euro a 32.277, con un incremento del 33,5%. Nello stesso periodo l’area italiana con il più elevato tasso di crescita è stata Bolzano (+18,1%), mentre tutte le altre regioni sono cresciute meno del 10%.
Il confronto tra il Pil pro-capite delle regioni italiane e di quelle tedesche nel periodo 2000-2019 fornisce un panorama interessante sia per le regioni che partivano da valori più elevati sia per quelle che nel 2000 avevano valori più bassi rispetto alla media italiana.
Alcune aree della Germania, come Baviera e Baden-Wurttemberg, sono spesso state prese come modello dalle regioni del Nord Italia per la loro vocazione manifatturiera; nel 2000 la Germania aveva, come l’Italia un forte divario negli indicatori di sviluppo tra regioni avanzate (quelle dell’Ovest in Germania, quelle del Nord in Italia) e arretrate (i Lander dell’Est in Germania, le regioni del Sud in Italia).
Il distretto di Monaco di Baviera, considerato un riferimento per le regioni ad alta vocazione manifatturiera del Nord Italia, è cresciuto del 27,5%. Quello di Stoccarda, nel Baden-Wurttemberg, che partiva da valori del Pil appaiati a quelli della Lombardia e di poco superiori a quelli dell’Emilia-Romagna, ha visto crescere il Pil pro-capite da 38.890 a 50.530 Euro (+29,9%), mentre le due regioni italiane fanno registrare, rispettivamente, variazioni del 4,8% e del 3,7%.
La differenza di velocità tra regioni italiane e tedesche, specifica il documento di Fondazione Nord Est, è ancora più marcata se si effettua il confronto tra i territori che partivano, in entrambi i Paesi, da valori bassi del Pil pro-capite. Chemnitz, in Sassonia, che aveva valori del Pil pro-capite che si collocavano tra quelli della Calabria e quelli della Sicilia, tra il 2000 e il 2019 ha avuto una crescita del 48,1%, mentre le due regioni italiane fanno registrare rispettivamente un incremento del 3,7% e dell’1%.
Ma sul cosa si intenda per Nordest, nel Rapporto 2022 la stessa Fondazione afferma che la “stessa definizione geografica di Nord Est è cambiata, perché è stata ricondotta al perimetro istituzionale, che abbraccia non solo il Triveneto ma anche l’Emilia-Romagna”.
La nuova definizione è coerente con la nuova missione e con l’intento di unire le forze delle quattro regioni, anziché lasciarle disperdere a causa delle spinte centrifughe dei provincialismi di varia natura ed estensione. “Da quest’anno, quindi, allarghiamo i confini delle analisi e delle riflessioni, aggiungiamo un trattino a Nordest, che diventa quindi Nord-est. L’allargamento si esplicita anche nel coinvolgimento, come autori del Rapporto, di studiosi e analisti che lavorano nei territori emiliano-romagnoli” scrive il Rapporto 2022 della Fondazione Nordest.
Negli ultimi anni sono stati diversi i tentativi di ridefinire le aree dello sviluppo. Fondazione Nord Est ha parlato di Pentagono dello sviluppo. Altre sigle e confini sono stati proposti, come LO.V.ER (Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna) o “nuovo triangolo industriale” (Milano, Bologna, Treviso).
Ma su miti e riti del modello produttivo italiano cominciano a pesare come macigni molti fattori: una produttività fondata soprattutto sui bassi salari e i bassi investimenti, la pandemia di Covid ed ora la crisi energetica con il boom dei prezzi.
In una intervista al Corriere della Sera, il presidente della Confindustria Bonomi sostiene che finora “le imprese italiane sono state abbastanza capaci e flessibili da difendersi meglio di altre, per esempio colmando i vuoti lasciati dalla Cina in lockdown”.
Ma ora – prosegue Bonomi – “nell’industria abbiamo casi di bollette decuplicate, non possiamo reggere”. “Solo nei primi sette mesi del 2022 la cassa integrazione straordinaria è salita del 45 per cento rispetto a un anno fa e non abbiamo ancora visto il peggio: in autunno arriveranno nuovi rincari energetici, mentre l’inflazione dei mesi scorsi sulle materie prime continuerà a scaricarsi sui prezzi al consumo. Ci saranno seri problemi su redditi e potere d’acquisto delle famiglie. Il grido di dolore delle imprese fin qui è stato un po’ ignorato, ma ora c’è urgenza di nuovi interventi”.
Gli imprenditori – o i “prenditori” italiani – sono ormai tre anni che vengono bruscamente svegliati dai sogni in cui governi e giornalisti compiacenti li hanno cullati e lasciati cullare da anni. L’eccesso di primàzia privata nel sistema industriale, l’assenza di una politica industriale e di una industria pubblica e totale mano libera al mercato, hanno picconato in profondità un sistema produttivo rivelatosi subalterno e inutilizzabile per gli interessi collettivi del paese.
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