"1991. The Year Punk Broke", titola nel 1992 un documentario realizzato dal filmmaker/musicista indipendente Dave Markey sulla tournée europea di Sonic Youth, Mudhoney, Nirvana, Dinosaur Jr. e Babes in Toyland. All'inizio del decennio il mondo della musica alternative rock che conquista le classifiche è nettamente diviso in due: da una parte dell'oceano il britpop, dall'altra il grunge. Due mondi stilisticamente inaccostabili, che condividono però più di quanto si immagini: la capacità di incarnare il tumulto interiore della Generazione X, con due reazioni di segno opposto, ma anche due proposte tanto varie da finire, l'una e l'altra, sotto due etichette di comodo.
Soundgarden, Melvins, Mudhoney, Screaming Trees, Pearl Jam, Nirvana e tanti altri: attenendoci ai diversi sound di queste band, risulta davvero difficile definire il grunge come genere dal punto di vista dei tratti stilistici comuni. Il non-genere diventa però un ombrello efficace quando si guarda altrove: tendenza autodistruttiva, rabbia cieca, rifiuto bilaterale e, ovviamente, geografia. Se infatti volessimo identificare il tratto unificante e distintivo di queste band, sarebbe proprio il loro milieu socio-culturale, quella mappa nel Pacific North-West tracciata tra Aberdeen (Melvins), Olympia (Beat Happening, Unwound) e Ellensburg (Screaming Trees), che trova un epicentro esplosivo in Seattle (Tad, Green River), la città che aveva dato respiro e sangue alla musica di Jimi Hendrix, Ray Charles, Sonics e Wailers. A cavallo tra gli anni 80 e gli anni 90, Seattle diventa improvvisamente il simbolo di una musica fino ad allora non presente nel rock mainstream, figlia di un malessere generazionale più di un riff metal o di una tendenza tutta punk a scatarrare il proprio rifiuto. E nessuno dei protagonisti è davvero preparato a cosa comportino questa (sovra)esposizione, soprattutto nei mass media, e questa attenzione fideistica da parte di una folla di freak, drop-out, non-allineati e senza-Dio che si specchia nel grunge trasformando le nuove band in un culto.
Ignari di storia e collocazione geografica, schiacciando play su "Dirt" e dunque sulla leggendaria opener "Them Bones", si viene investiti da un riff torrenziale e da un urlo primordiale che trasudano heavy metal, stoner, hard-rock
e sludge. Non fa alcuna differenza la successiva "Dam The River",
ancora più dritta e permeata di violenza sludge. La band di Jerry
Cantrell e Layne Staley rappresenta, infatti, insieme ai primi
Soundgarden, quella che potremmo chiamare l'ala metal del Seattle Sound.
Se veniamo però ai significati, alla disperazione che ci viene
iniettata ogni volta che facciamo risuonare una canzone degli Alice In
Chains e in particolare di "Dirt", il loro capolavoro nonché una delle
opere più emblematiche del grunge, è chiaro che ci troviamo al cospetto
di una specie di tavola dei comandamenti del genere e a una storia di
auto-distruzione iconica quanto quella di Kurt Cobain.
Raramente un disco così introflesso su dolore, dipendenze e diniego sociale, e allo stesso tempo così duro tanto da venire spesso considerato a tutti gli effetti un'opera metal, ha ottenuto una performance commerciale devastante come quella del secondo capitolo della discografia degli Alice In Chains. Inutile ribadire che, al netto del valore intrinseco dell'album, le cose sarebbero andate diversamente senza la febbre grunge infettata da "Nevermind" (DGC, 1991 - the year punk broke) a tutta la gioventù del mondo. Riversato sugli scaffali dei negozi il 29 settembre 1992, "Dirt" si piazzò alla posizione numero 6 della classifica generale di Billboard per restare nella lista per ben 196 settimane. Si stima che al 2008 "Dirt" abbia venduto tre milioni e mezzo di copie nei soli Stati Uniti.
L'alto tasso di liriche basate sulla lotta alla dipendenza da eroina e sull'inevitabile resa ad essa, altro non era che lo specchio del reale tormento e dell'angoscia vissuti dai membri della band. Per registrare il disco agli Eldorado Recording Studios di Los Angeles, Staley abbandonò infatti il rehab e visse dunque il periodo tra strazio e dolore, stati d'animo spettrali che innervano le sfumature della sua voce metallica, che pare echeggiare da un antro fosco dell'anima.
Il produttore Dave Jerden ricorda le
registrazioni di "Dirt" come un periodo teso e tumultuoso nel quale si
scontrò più volte con Staley, al quale dovette intimare ripetutamente di
rimanere sobrio. Entrambi dipendenti da alcol e altre sostanze, non
erano messi molto meglio il batterista Sean Kinney e il bassista Mike
Starr, quest'ultimo sarebbe stato infatti allontanato dalla band a
titolo definitivo durante il tour promozionale del disco.
A liti,
intrattabilità, scazzi e repentini attacchi d'ira si aggiunse il clima
di tensione della rivolta di Los Angeles, che infuriò durante le
registrazioni in seguito all'assoluzione di quattro agenti della polizia
locale, incastrati in maniera netta da un video di sorveglianza
nell'atto di perpetrare violenze inaudite contro il cittadino
afroamericano Rodney King.
Le grandi capacità dei quattro musicisti, in particolare dei due autori Cantrell e Staley, nonché il miglioramento compositivo e tecnologico raggiunto rispetto alle registrazioni dell'acerbo esordio "Facelift" (Columbia, 1990), permisero loro di canalizzare ogni grammo e vibrazione delle energie negative in una scaletta che non concede cedimenti. Sono tredici tracce che piegano alle proprie necessità il metal alternativo, la propensione radiofonica del grunge di Nirvana e Pearl Jam, la vocalità straripante ed espressiva di Staley e tutto il buio che la formazione stava esperendo dentro e fuori di sé.
Down in a hole, feelin' so small
Down in a hole, feelin' so small
I'd like to fly, but my wings have been so denied
Sono versi che echeggiano carichi di presagi dal buco che gli Alice In Chains si stavano scavando. Scritte da Cantrell per raccontare il rapporto difficoltoso con l'amore della sua vita, Courtney Clarke, per bocca di Staley le liriche di "Down In A Hole" acquistano un significato più profondo, che scava fino alla condizione esistenziale dei suoi interpreti e riecheggia in comunione tra le anime senza posa della Generazione X, eternamente fuori posto e condannata all'incomprensione. Forse l'episodio più soave di tutto il disco, il brano vede una chitarra acustica ricamare linee celestiali, dal sapore metallico appena accennato, mentre quelle elettriche si sciolgono in un fiume amaro e riverberato, sul quale la voce del frontman levita leggera, ma incapace di prendere quota, quasi affezionata, assoggettata alla sofferenza.
Le fa pari in termini di dolcezza, almeno nella parte iniziale, soltanto "Rooster". La canzone prende il titolo dal nomignolo affibbiato dai commilitoni al padre di Cantrell durante la guerra in Vietnam, un'esperienza mai riportata in famiglia. L'intero testo diventa quindi frutto della fantasia del figlio, basata sulla percezione dei segni che la guerra aveva lasciato sul volto e sugli occhi del padre. Ancora una volta il chitarrista si limita ad armonizzare ed è così Staley a dare forma e forza al racconto del "gallo", mentre le esplosioni ritmiche di Kinney e Starr, al pari dell'iconico riff di Cantrell sul ritornello, fanno da contraltare a momenti più rilassati in cui le chitarre vengono fatte piangere e vibrare alla maniera di George Harrison.
Tra
le migliori canzoni mai scritte dagli Alice in Chains, "Rooster" e
"Down In A Hole" vedono la band abbassare i giri, svelando una
complessità e una stratificazione degli arrangiamenti, frutto anche
della formazione metal dei musicisti.
"What's the difference, I'll die/ in this sick world of mine"
La dipendenza da eroina di Staley, consapevole della rotta funesta che rappresentava, aleggia in quasi tutti i brani del disco, ma in alcuni diventa addirittura la protagonista. È il caso di "Sickman", che, aperto dal drumming tribale di Kinney e pervaso da una chitarra elettrica singhiozzante e tossica, comprime il senso e le conseguenze estreme del grunge come fenomeno totale. A Layne le conseguenze più ferali non interessano o spaventano: il mondo circostante non vale la pena.
Scritta durante il rehab interrotto per registrare "Dirt", "Junkhead" contiene il punto di vista di un eroinomane al primo stadio. Se il ritornello epico e l'assolo di chitarra libero come il volo di un uccello sembrano glorificare l'abuso di oppiacei, il riff sludge nelle strofe disegna un precipizio e prelude al disastro, un tunnel senza vie d'uscita.
Allucinazioni e presagi si addensano nella title track, un devastante brano grunge-stoner che rimodella l'esperienza dei Kyuss agli scopi del Seattle sound, e nel deserto pieno di crepe, arido e tormentato dal sole della copertina del disco, che accoglie il corpo esanime della modella Mariah O'Brien in una trasfigurazione della fidanzata di Staley, Demi Parrot, prefigurandone la morte che avverrà pochi anni dopo, nel 1996. Nonostante la canzone non menzioni direttamente le droghe, in numerose interviste a Staley e Cantrell si fa riferimento al fatto che sia stata la Parrott a introdurre il cantante degli Alice In Chains all'eroina, iniziazione che trapela nelle liriche criptiche di un brano efficace quanto doloroso nel ritrarre una relazione tossica.
Elettrificata da uno dei riff più ipnotici e frenetici di Cantrell, e degli anni 90 tutti, "Rain When I Die" è un altro brano dalle intuizioni tragiche che anticipa il destino di un'intera generazione di musicisti come Staley e Cobain, fiori che hanno bisogno di acqua per sopravvivere. Sei lunghi minuti di ritmiche impetuose, chitarre psichedeliche e chorus iconici ne fanno una stoccata alternative rock perfetta, nella quale la formazione sfiora e padroneggia l'allure radiofonica di alcuni colleghi grunge più moderati:
Is she ready to know my frustration?L'atmosfera diventa asfissiante nella parte finale del disco, tra frustate di stoner isterico a tinte funk ("God Smack"), rigurgiti grotteschi alimentati dalla voce di Tom Araya degli Slayer ("Untitled") e acuminati riff hard-rock à-la Jimmy Page ("Hate To Feel"). Ma l'esperienza più intensa è racchiusa nei due dei brani che chiudono, tra i più emblematici degli Alice in Chains, "Angry Chair" e "Would?", scritti rispettivamente da Staley e Cantrell. Nel primo ci troviamo in bilico tra poche note e semitoni, inspirando la claustrofobia domestica dell'eroinomane attraverso le parole di Staley, la cui voce è sdoppiata, triplicata, sparata dalle continue armonizzazioni:
What she slippin' inside, slow castration
I'm a riddle so strong, you can't break me
Did she come here to try, try to take me?
Did she call my name?
I think it's gonna rain
When I die
Loneliness is not a phaseIl secondo, un brano scritto per la colonna sonora di "Singles" (1992) di Cameron Crowe e interpretato nel film dalla band live in un club di Seattle, pone il sigillo sull'album. Non esiste qualcosa in "Would?" che non sia memorabile: il fraseggio iniziale del basso scalfito dai piatti della batteria, il coretto psych-black con cui Staley introduce il riff della chitarra, la strofa con le voci che si moltiplicano come in un incubo per riemergere con nerbo e disperazione nei versi del ritornello, la dichiarazione di una disfatta che non conosce soluzione:
Field of pain is where I graze
Serenity is far away
Saw my reflection and cried
So little hope that I died, oh
Into the flood again
Same old trip it was back then
So I made a big mistake
Try to see it once my way
Am I wrong?
Have I run too far to get home?
Have I gone?
Left you here alone
"Dirt" incarna lo spirito del tempo, pulsionale e tossico, strabordante e incontenibile. È la creatura di uno dei più importanti compositori rock degli anni 90 e il testamento di un interprete unico, che ha saputo innervare lo stoner, l'hard-rock, l'heavy metal e lo sludge della disperazione e dell'angoscia di molte musiche tradizionali afroamericane, prima di tutto il blues. "Dirt" e il destino di Staley, così come "Nevermind" e quello di Cobain o "Superunknown" (A&M, 1994) e quello di Chris Cornell, ripercorrono circolarmente la propria cornice per tornare esattamente al punto di partenza: "broken home(s), broken heart(s)" dai quali fugge il protagonista di "Zen Arcade" (SST, 1984) degli Hüsker Dü e da cui nessuno di loro, invece, è riuscito mai veramente a uscire.
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