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14/10/2022

I militari italiani e la possibilità di uno scontro con la Russia. “La maggioranza non lo vuole”

Abbiamo intervistato per Contropiano un ex Parà della Folgore, Simone, per comprendere qual’è, secondo lui, la situazione generale dell’Esercito ed “il morale delle truppe” di fronte alla possibilità di una guerra ad alta intensità tra la NATO e la Russia.

D: Simone, ti ringrazio in anticipo per la disponibilità che hai dimostrato. Vorrei iniziare raccontando la tua storia. Per quanto tempo sei stato nella Folgore e perché hai fatto la scelta della carriera militare?

R: Provengo da un piccolo paese dell’Appennino Abruzzese ed appena finite le scuole ho deciso di arruolarmi come volontario. Era il 2001 e mi sembrava un buon modo per dare un contributo al Paese. Ho fatto tutta la trafila, prima VFA, poi VFB, poi le missioni: due ONU (Sudan e Libano) ed una NATO (Afghanistan).

Nell’ultima missione, Enduring Freedom in Afghanistan, durante uno scontro a fuoco con i talebani, fui colpito da un tiro di kalashnikov. Ho subito alcune operazioni, ma mi sono salvato. Alcuni miei compagni, ed amici, non sono stati altrettanto fortunati.

Il comportamento dello Stato nei miei riguardi, dopo il ferimento, mi ha deluso molto. Sono stato riformato per causa di servizio nel 2013, congedato con onore. 12 anni di Esercito, 12 anni in cui sono stato sostanzialmente bene ed ho legato con molti colleghi.

D: Com’è la condizione materiale dei soldati? Quanto guadagnano e come si vive sotto le armi, da professionisti?

R: Posso ovviamente parlare dei miei tempi, ovvero fino ad 8/9 anni fa. Ma da quello che mi dicono i colleghi che sono rimasti non è cambiato tantissimo.

Si entrava da precari, come VFA (oggi VFP1) ovvero con 1 anno di contratto. Poi c’era il VFB con 3 anni di ferma (oggi sostituto con il VFP4) e poi la stabilizzazione. Io sono stato precario per 5 anni. Allora nei paracadutisti si entrava minimo con contratto VFB, adesso i requisiti si sono drasticamente abbassati ed arruolano nei parà anche personale VFP1.

Gli stipendi genericamente di aggiravano sui 1.000 euro al mese all’ingresso. Se oggi fossi ancora in servizio, dopo vent’anni guadagnerei intorno ai 1.700/1.800 euro al mese, indennità incluse.

Con le missioni, oltre allo stipendio base, prendevo 100/130 euro in più al giorno per stare in Afghanistan, nel pieno delle battaglie e con turni di lavoro che nulla hanno a che vedere con un impiego “da civile”, e con molte privazioni. Dal sonno all’igiene personale al sentire la famiglia per 5 minuti, una volta a settimana.

D: A proposito di missioni. Eravate obbligati ad andare?

R: C’è una differenza tra le missioni di “peacekeeping”, su base volontaria, e le missioni di guerra vere e proprie, per le quali è obbligatorio per chiunque a qualunque livello dell’Esercito rispondere positivamente alle chiamate. Comunque, sebbene sulla carta non esista obbligo di partire per le missioni “non di guerra”, è palese che non sia proprio così.

La prima volta che mi inserirono in organico per andare in Afghanistan mi opposi perché mio padre era gravemente malato. Mi fu fatta una fortissima pressione, ma alla fine la spuntai.

La seconda volta che mi misero in organico per la partenza invece non mi opposi, per tutta una serie di responsabilità che mi ero preso verso i miei commilitoni ed anche, lo dico molto sinceramente, perché ero estremamente curioso di comprendere con i miei occhi quale fosse la verità: i politici che venivano ad incontrarci provavano a convincerci che andassimo a liberare un popolo da una dittatura.

Ma le motivazioni non sono uguali per tutti. La professionalizzazione ha fatto sì che l’Esercito diventasse molto simile ad un qualsiasi posto pubblico. Ed è normale che se hai scelto la carriera militare per avere un lavoro “stabile e sicuro” non ti va di andare a morire a 4.000 km da casa. Infatti, c’era una generale paura di stare in Afghanistan. In tanti avevano messo la firma per arruolarsi in tempo di pace. E di stare in guerra per davvero non lo avevano realmente messo nel conto. Erano impreparati psicologicamente.

D: L’escalation militare in Ucraina sembra essere sempre più aspra. Senza dare giudizi di merito, possiamo affermare che sembra sempre più complicato un compromesso e sempre più probabile un confronto diretto tra la NATO e la Russia. Ovviamente se dovesse realizzarsi, speriamo di no, questo scenario, sarebbero probabilmente mobilitati – stavolta in maniera obbligatoria anche soldati italiani. Ci diresti secondo te cosa ne pensano i militari di ciò che sta succedendo tra Russia, Ucraina e Nato?

R: Premetto che non mi arrogo assolutamente il diritto di parlare a nome di tutto l’Esercito, ma credo che la stragrande maggioranza dei militari professionisti vogliano la pace. Voi non dovete pensare all’Esercito, e nemmeno ai corpi specializzati come la Folgore, come ad una massa di esaltati.

L’Esercito rispecchia le opinioni della società. Lo dovete pensare un ambiente simile alla Pubblica Amministrazione. Quasi tutti ci sono entrati, seppur consapevoli della tipologia di vita che avevano scelto, anche attratti da una stabilità lavorativa, per far campare le famiglie. Certo, c’è sicuramente una minima parte dell’Esercito convinta di rappresentare l’Occidente democratico e che è disponibile allo scontro con i russi, ma è sicuramente maggiore – e di molte volte – l’aliquota dei militari che credono che il problema sia l’America e la sua politica aggressiva.

Per quanto mi riguarda credo fermamente che l’Italia dovrebbe uscire fuori dalla NATO e che sia necessario sottoporre a giudizio popolare, con un referendum, anche la permanenza dell’Italia nell’Unione Europea. Insomma, auspico un riposizionamento internazionale pacifico e neutrale del nostro Paese.

D: Credi ancora che la guerra in Afghanistan abbia reso un servizio all’Italia?

R: Sinceramente no. Forse non ci ho mai creduto. Mi è capitato più volte di dire ai miei amici che forse avrei dovuto essere grato a quel talebano che mi ha sparato. Perché mi ha insegnato nella maniera più concreta possibile che non si può imporre ad un popolo un sistema di governo.

L’obbiettivo della NATO non è mai stato di tipo umanitario, ma assolutamente di interesse economico e geopolitico. E pure se fosse, è un errore madornale “esportare la Democrazia”. La parola stessa “Democrazia” dovrebbe significare accettazione e dialogo con gli altri, non qualcosa che si impone con le armi. Ogni Paese è prodotto di vari fattori storici e culturali che non si possono forzare dall’esterno.

In Afghanistan ci vedevano come invasori, ed io non riesco in nessun modo a dare torto agli afgani.

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