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02/11/2022

IIT - Tecnici senza contratto e ricercatori precari a vita

Ricercatori e dipendenti dell’Istituto Italiano di Tecnologia, la fondazione privata (ma lautamente finanziata dallo Stato) da cui ha preso il volo Roberto Cingolani, impegnati nella ricerca su robotica, nanomateriali e scienze computazionali, chiedono stabilità e un vero contratto di lavoro. Troppo? Pare di sì.

Chiedono semplicemente un contratto come qualunque altro lavoratore. Sono 600 dipendenti, amministrativi e tecnici, dell’IIT, l’Istituto Italiano di Tecnologia, fondazione di ricerca privata finanziata dallo Stato e sotto il controllo del Ministero dell’Economia e di quello dell’Università e Ricerca, vera e propria creatura di Roberto Cingolani, che ne è stato direttore scientifico per 15 anni, dalla nascita fino al 2019, prima di entrare in Leonardo e di diventare ministro nel governo di Mario Draghi e ora consulente per il nuovo esecutivo di centrodestra diretto da Giorgia Meloni.

Per tecnici e amministrativi contratto fai da te

“Sono lavoratori che svolgono funzioni di supporto ai ricercatori e il cui rapporto di lavoro, a differenza che per i loro dirigenti, non è normato da contratto collettivo ma un regolamento interno adottato in modo unilaterale dalla Fondazione e in cui, ad esempio, non sono previste le relazioni sindacali” ci spiega Maurizio Rimassa responsabile dell’Unione Sindacale di Base a Genova, dove hanno sede il cuore dell’Istituto – 11 sedi in Italia e due negli USA, che collaborano con istituzioni prestigiose come il MIT e la Harvard University – e il grosso dei dipendenti e dei ricercatori, oltre 1.900, di cui circa un quinto sono studenti di dottorato.

Il regolamento non nomina mai la parola “sindacato”, ma prevede la possibilità di eleggere una “Rappresentanza dei Dipendenti”, che è stata rinnovata circa un anno fa. Subito dopo le elezioni FLC CGIL e USB hanno tenuto fede agli impegni presi coi lavoratori, avviando un confronto con la Fondazione con l’obiettivo di sostituire il regolamento con un vero e proprio contratto, frutto di un negoziato con l’Istituto e non più “per gentile concessione”.

A giugno – ci raccontano i rappresentanti di CGIL e USB – le organizzazioni sindacali avevano incontrato i rappresentanti della Fondazione. Questi in un primo momento si erano mostrati abbastanza disponibili ad affrontare la discussione, compatibilmente con la situazione economica dell’Istituto, ma avevano respinto la proposta dei sindacati di creare un contratto ad hoc, partendo da quello della Ricerca e provando ad “armonizzarlo” con la situazione dell’IIT. E avevano scelto, in alternativa, di affidare a uno studio legale di Roma l’incarico di studiare quale tra i contratti collettivi già in vigore – metalmeccanici, chimici, commercio – fosse il più confacente alle proprie esigenze. A settembre, non avendo più ricevuto alcuna comunicazione, CGIL e USB sollecitano una risposta e il 10 ottobre ricevono una lettera in cui i vertici dell’Istituto scrivono che nessuno dei testi vagliati “presenta una struttura e disposizioni compatibili con l’attività, con l’organizzazione, con la natura giuridica e con la stessa funzione peculiarmente propria del nostro Istituto” e concludono che “il fatto che ad oggi non vi sia un contratto collettivo nazionale di lavoro di riferimento per operai, impiegati e quadri degli Istituti di ricerca privati rende allo stato di fatto impossibile adottarne uno, pur nella consapevolezza che alcune peculiarità del nostro Istituto potrebbero essere normate attraverso un processo negoziale di secondo livello”. La Fondazione, infatti, è un istituto di diritto privato, anche se riceve due terzi dei finanziamenti dallo Stato – nel 2021 circa 91 milioni di euro, contro 53 provenienti da “fonti esterne”, in larga misura anch’esse pubbliche o comunitarie – e soprattutto qualche anno fa, quando ci fu il blocco dei salari nella Pubblica Amministrazione, non ebbe esitazioni ad applicarlo ai propri collaboratori come se fossero dipendenti statali.

“L’attuale Regolamento del Personale, seppure tecnicamente sia di natura unilaterale, è frutto di oltre dieci anni di consuetudini di dialogo continuo con i dipendenti, i quali si sono dotati ormai da molto tempo di forme di rappresentanza, e resta dunque il miglior strumento di normazione dei rapporti di lavoro attuali e futuri, contenendo nella forma aggregata di fatto istituti economici e regolatori di gran lunga migliorativi – anche analiticamente valutato – rispetto alla totalità delle fonti esaminate” concludono i rappresentanti della Fondazione. Insomma “accontentatevi di quel che avete”.

Il problema è – replica Stefano Boero, segretario della FLC CGIL di Genova – che “siccome parliamo di concessioni unilaterali oggi tu potresti godere delle condizioni migliori del mondo, ma domani l’IIT potrebbe cambiarle senza chiedere niente a nessuno”. Ragione per cui il sindacato ha avviato le procedure di raffreddamento e ora attende una convocazione dal Prefetto insieme alla Fondazione e “se non ci saranno risposte dovremo inevitabilmente pensare allo sciopero”.

Al tema del contratto e delle relazioni sindacali nelle scorse settimane si è aggiunta una comunicazione i cui l’IIT annuncia l’intenzione di chiudere alcune sedi nei fine settimana e in altri periodi per ragioni di risparmio energetico, mettendo i dipendenti in ferie forzate. Un annuncio che ha fatto lievitare ulteriormente la tensione.

Per i ricercatori precarietà strutturale

Sullo sfondo resta il nodo altrettanto spinoso dei ricercatori. A giugno un gruppo di loro, riuniti sotto la sigla Comitato Ricercatrici e Ricercatori Precari IIT, aveva inviato una lettera aperta a Draghi e ai titolari del MEF e del MIUR, senza firme individuali, denunciando che “IIT basa la produzione scientifica sul lavoro precario di personale ad altissima formazione. La stragrande maggioranza dei ricercatori di IIT è infatti assunta come para-subordinato con contratti di collaborazione coordinata e continuativa (co.co.co). Per ogni nuovo contratto, l’istituto chiede ai ricercatori di dichiarare in prima persona la natura puramente collaborativa del rapporto di lavoro presso un ente certificatore terzo” senza neppure assicurare loro alcuna prospettiva di carriera sia interna che esterna, anche perché “i contratti che IIT usa per Post-Doc e Ricercatori non figurano nelle procedure concorsuali quali requisiti di accesso o esperienza pregressa”. Nella lettera il Comitato chiede al Governo di intervenire affinché “IIT assuma il personale scientifico con contratti di lavoro conformi al contratto nazionale di ricerca; i precari storici di IIT (impiegati con continuità come parasubordinati da più di 3 o 5 se non 10 anni) possano beneficiare di provvedimenti di stabilizzazione analoghi a quelli implementati presso gli enti pubblici di ricerca; gli anni spesi in IIT siano equiparati agli anni di ricerca presso le Università e gli Enti Pubblici di Ricerca sia per l’accesso ai concorsi sia per le progressioni di carriera, in modo da favorire la mobilità nel panorama della ricerca nazionale”, oltre a un tavolo analogo a quello aperto con tecnici e amministrativi.

Del resto che essere precario per un ricercatore sia lo stimolo necessario a rinnovarsi costantemente è sempre stato uno dei pallini di Roberto Cingolani, che nel giugno 2007, in un’intervista pubblicata sulla newsletter dell’INSME, il network internazionale delle PMI, aveva rivendicato apertamente quella scelta. E così, mentre nel contratto collettivo della ricerca adottato negli istituti pubblici l’articolo 83 fissa per i contratti a tempo determinato o in somministrazione un tetto massimo pari al 20% del personale stabile, all’IIT, invece, secondo i dati del bilancio 2021, alla fine dell’anno scorso il personale con contratto a tempo o di collaborazione ammontava a 931 addetti (di cui ben 895 nel personale di ricerca), contro 533 dipendenti a tempo indeterminato. Il raffronto con altri istituti di ricerca ci fornisce alcuni spunti di riflessione. Nel 2021 il CNR su uno staff di 9.770 addetti ne contava 8.327 a tempo indeterminato. Ancor più basso il tasso di precarietà all’INGV, l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, dove secondo i dati del Rendiconto generale 2021 i precari erano soltanto 65 su 913, meno del 10%. Che questa dovrebbe essere la norma ce lo conferma anche Francesco Sylos Labini, direttore di ricerca del Centro di Ricerca Enrico Fermi: “La questione è semplice. Come funziona nel resto del pianeta terra? Se vai a vedere scopri che non esistono altri posti come l’IIT perché tu, certo, puoi avere una certa percentuale di assegnisti o di contratti a tempo determinato, ma poi devi mettere in piedi delle linee di ricerca strutturate. Sennò come fai a fare ricerca? La ricerca si fa con ricercatori dotati di una posizione stabile”. Lo stesso Sylos Labini, in un articolo scritto con Angelo Leopardi e intitolato “Enti di ricerca e IIT: dov’è l’eccellenza” (2011) aveva argomentato, numeri alla mano, che i risultati concreti smentiscono le ricette di Cingolani.

D’altra parte i dati indicano che il ricorso al precariato, nella ricerca come nei settori di lavoro più tradizionali, influisce soprattutto sui conti. Nel bilancio del CNR il costo del lavoro annuo è scorporato tra i dipendenti fissi e i precari e questo ci permette di calcolare il costo del lavoro medio annuo di ciascuno, che ammonta rispettivamente a circa 68.000 euro e meno di 25.000. Insomma chi ha una posizione stabile guadagna quasi tre volte un precario. All’IIT, secondo la relazione 2020 della Corte dei Conti sull’IIT, il gap tra la retribuzione unitaria dei dipendenti a tempo indeterminato e non (rispettivamente 66.000 e 68.000 euro) e quella dei co.co.co. (47.000) è più ridotto ma comunque rilevante. “I ricercatori più giovani toccano a malapena 1250 euro al mese, no buoni pasto, no alloggi, e niente parcheggi. Carico di lavoro da 10-12 ore al giorno di media. Poi se gli dici che non producono abbastanza, s’incazzano.” scriveva Andrea Cammarata nel 2011 (Dentro l’IIT. Un giorno con i ricercatori, Agoravox). “Con questo mito del tenure track all’americana mascherano semplicemente lo sfruttamento dei giovani ricercatori” ci sintetizza la situazione uno scienziato con quarant’anni di esperienza nei laboratori di ricerca pubblici.

Eppure, come rivendica nella Lettera di introduzione al Bilancio, il presidente della Fondazione Gabriele Galateri di Genola, manager di lungo corso con un passato in FIAT, Mediobanca e Generali, nel 2021, nonostante gli strascichi della pandemia la Fondazione non se l’è passata male: “In IIT il trasferimento tecnologico ha realizzato il numero massimo di contratti e l’importo più alto di sempre di ricavi da licenze. Sono stati registrate 76 nuove invenzioni e 57 prime domande di deposito di brevetto, portando il portafoglio IIT a 372 invenzioni per un totale di 1210 titoli di brevetto”.

MIT o mito italiano?

Quando nei primi anni 2000 a Genova, città colpita pesantemente dalla deindustrializzazione e dalla ristrutturazione dell’IRI, che mietono decine di migliaia di posti di lavoro, viene lanciato il MIT italiano i toni sono entusiastici: nel 2005, due anni dopo la nascita della Fondazione, Prodi assicura che l’IIT sarà “un vantaggio strategico enorme”, mentre l’allora presidente di Confindustria Genova Marco Bisagno ne parla addirittura come l’alternativa all’acciaio dell’ILVA di Cornigliano. Vittorio Grilli, commissario unico e poi primo presidente dell’IIT, all’epoca anche direttore generale del Tesoro, spiega che negli USA “Il MIT ha prodotto più di tremila imprese, quasi tutte nel Massachussets, ed esperienze analoghe si sono realizzate anche in Olanda e in Germania”.

Vent’anni dopo la parabola dell’IIT sembra snodarsi lungo una traiettoria molto più modesta. Lo scorso 30 settembre Giorgio Metta, successore di Cingolani alla guida della Fondazione, dichiarava che con quelle del 2022 il numero di start-up lanciate dall’IIT nel 2022 raggiunge le 33 unità (IndustriaItaliana300922); il declino della siderurgia a Genova è andato avanti senza trovare alcun contrappeso nelle pretesa ascesa di un’industria high-tech e nella città dell’ex ministro della transizione energetica persino Ansaldo Energia, come abbiamo visto nei giorni scorsi, viene messa in discussione. E chi col proprio lavoro ha permesso la nascita di iCub, il robot umanoide progettato nei laboratori dell’Istituto, per citare solo una delle sue creazioni più celebrate, è costretto a entrare in agitazione o a scrivere al governo proteggendosi dietro l’anonimato per poter ottenere ciò che dovrebbe essere garantito a qualunque lavoratore. Comprese regole e accordi vigenti per tutti i lavoratori, anche quelli non contrattualizzati, ad esempio gli accordi tra sindacati e Confindustria, a cui l’IIT è associato; lo Statuto dei Lavoratori, che tutela l’agibilità sindacale; la Carta Europea dei Ricercatori e le relative raccomandazioni della Commissione Europea.

Nel 2003 la CGIL commentava i massicci investimenti destinati all’IIT (e sotratti alla ricerca pubblica) parlando della “ennesima riproposizione del modello di agenzia per il trasferimento tecnologico, modello che già in ripetute occasioni è più o meno rapidamente fallito, ma che è coerente con l’idea prevalente in questo governo di una necessaria e immediata finalizzazione di ogni investimento pubblico in ricerca alla realizzazione di un vantaggio immediato per il sistema privato”. Nel 2004 anche Carlo Rubbia dichiarava al Corriere della Sera i propri dubbi sulla decisione di investire tanti soldi sul “fantomatico MIT italiano” senza neanche sapere esattamente cosa dovesse fare. Ed esortava a investire, invece, sul lavoro: “Nei discorsi che si ascoltano negli ultimi tempi ci si dimentica degli uomini e delle donne che fanno ricerca. Inseguiamo modelli stranieri ma intanto da tre anni sono bloccate le assunzioni e oggi l’età media di chi lavora è intorno ai 50 anni, quindi fuori gioco. Nel frattempo ci sfuggono le nuove generazioni dalle quali nascono i risultati. In altre parole, si è perso il fulcro della discussione”. Insomma persino nei settori di maggiore rilevanza strategica il capitalismo italiano non riesce a sottrarsi all’impulso di fare le nozze coi fichi secchi. Sulle spalle di chi lavora.

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