I recenti scontri tra tifosi sulla autostrada A1 sono stati accolti sui media e sui social nella consueta sovrapposizione tra vivaci espressioni di condanna e polemiche su come possa essere chirurgico un intervento di polizia in questi casi. Del resto, la politica è culturalmente ridotta ai minimi termini e pensa la società in modo schematico, come risorsa per l’arricchimento oppure come tessuto angelico per la solidarietà quindi semplifica queste manifestazioni come se fossero sgradevoli effetti meteo o del traffico dai quali liberarsi velocemente.
È anche vero che, specie negli ultimi anni, è venuta meno l’efficacia del conflitto sul campo come strumento di trasformazione sociale quindi, assieme al ritrarsi di analisi complesse dedicate a questi fenomeni, gli scontri parlano sempre meno alla società e sempre più ai soli attori che sono sul terreno.
II fatto che gli incidenti di qualche giorno fa siano avvenuti nei pressi dello stesso autogrill nel quale, nel novembre 2007, morì il tifoso laziale Gabriele Sandri per un colpo di pistola sparato (secondo sentenza) volontariamente da un agente di polizia aiuta a far capire cosa sia cambiato nelle dinamiche di scontri tra tifoserie. Allora, a partire dalla morte dell’ispettore Raciti durante un Catania-Palermo del febbraio dello stesso anno, sul piano simbolico, e quindi dei concreti rapporti tra soggetti sul campo, si giocava lo scontro tra tifoserie e Stato. Oggi si gioca il perpetuarsi di una trasposizione del fenomeno della faida sul piano dei rapporti tra gruppi visto che le relazioni tra tifoseria napoletana e romanista hanno il pesante precedente della morte del tifoso Ciro Esposito della primavera del 2013.
In altre sedi, si veda l’antologia Stadio Italia, a cura di Silvano Cacciari e Lorenzo Giudici, lo si è detto chiaramente: con le ristrutturazioni nelle politiche di ordine pubblico legate allo stadio, e al tessuto urbano che lo riguarda, gli scontri e gli incidenti non scompaiono, semplicemente si ridislocano. Trovando, come accaduto in altri paesi, autostrade o strade appositamente scelte, come per gli scontri tra tifosi del 2018 nei quali morì Daniele Belardinelli, come terreno di “regolazione” dei rapporti tra tifoserie.
Nella prima decade degli anni 2000, la ridislocazione, dopo una stagione di ristrutturazione delle politiche di contenimento delle tifoserie della fine degli anni ’90, produsse, assieme alle tradizionali frizioni tra tifoserie, la dimensione simbolica dello scontro tra tifosi e Stato. Oggi gli scontri, dopo la ristrutturazione dei dispositivi di ordine pubblico partita con il 2007, si ridislocano in nuove modalità extraurbane, lontane dal teatro storico dello stadio, e seguono, anche facendo spettacolo, prevalentemente dinamiche di ridefinizione di rapporti tra gruppi.
Come nel passato gli incidenti servono per evocare possibili forme di controllo del futuro. Stavolta è toccato al riconoscimento biometrico, chiesto dai media per l’identificazione istantanea dei presunti responsabili, già messo sotto accusa negli USA per i problemi che pone in termini di violazione della privacy. Vedremo, le ristrutturazioni dei dispositivi di controllo dei comportamenti della folla hanno tempi di sviluppo differenti dalle richieste che appaiono sui media.
Un aspetto però va sottolineato se si vuol capire quello che accade e, riscoprire, cosa è la società e magari anche cosa è un intervento politico. Quello che è accaduto sulla A1, al contrario di quello che sostiene la retorica securitaria, non significa che la violenza è al centro delle ossessioni di gruppi senza regole che si scontrano. Come dimostra un grande lavoro antropologico sui gruppi ultras, Football Hooligans di Gary Armstrong, è la formazione di una identità, con codici di comportamento, che rende possibile la formazione di un gruppo, chiamiamolo, aggressivo anche sul campo. Insomma, piaccia o non piaccia, non è l’assenza di regole ma sono i codici di comportamento, assieme all’identità, ad essere funzionali alla formazione di gruppi capaci di scontrarsi sul terreno. Su questi fenomeni la politica, quando conosce solo la condanna della violenza, agisce legittimando dispositivi securitari, di cui può perdere anche il controllo, semplicemente ridislocando nel tempo la riemersione dei conflitti. Mentre, allo stesso tempo, se conosce i fenomeni può agire sulle identità, sui codici di comportamento sulle dinamiche di gruppo magari intervenendo sul cuore del fenomeno. Ma si parla, ovviamente, di politica qualcosa che agisce sul tessuto sociale non in nome dell’ingegneria securitaria.
In ciò che oggi definiamo politica, sostanzialmente cartelli elettorali e nessi istituzionali che si fanno faticosamente spazio nelle dinamiche di comunicazione, prevalgono le retoriche sulla violenza non la conoscenza, e meno che mai la riscoperta, della società. Riscoprire come funziona la società aiuta a ridefinire ed innovare il modo di fare politica. Fatti come quello della A1, in questo senso, non sono facili da inquadrare, specie sul piano delle politiche da adottare, ed è vero che la società oggi è un essere polimorfo, e persino perverso, ma è anche vero che la politica si è ridotta a schemi, cognitivi e di comportamento, elementari che non servono a molto. Oggi abbiamo una politica che non sa mettere le mani nei nidi di vipere che si formano nella società e questa incapacità è il più generale riflesso dell’assenza di strategia, e di orizzonte, dell’intero corpo sociale. La sua inutilità è palese mentre le bande si scontrano sull’autostrada, riprese dagli smartphone degli automobilisti attoniti.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento