È iniziata a Dubai la convention annuale delle Nazioni Unite sul Clima (COP28). I lavori, che proseguiranno fino al 12 dicembre, si sono aperti con la pesante assenza di Joe Biden e di Xi Jinping da un lato (responsabili insieme di oltre il 40% delle emissioni di gas serra), e con la presenza massiccia della delegazione brasiliana che si erge a capofila di un programma di protezione delle foreste tropicali (dopo la fortissima spinta alla deforestazione dell’Amazzonia operata dall’ex presidente Bolsonaro).
Nello scenario caratterizzato dalla guerra in Ucraina e in Palestina, sarà da vedere inoltre quanto la Russia, ancora sotto embargo a causa del conflitto ucraino, potrà aver voce nel determinare le scelte effettive di questo meeting.
I lavori si sono aperti con un minuto di silenzio per le vittime di Gaza, e sono proseguite con l’Iran che – a meno di 24ore dall’inizio della convention – sta lasciando Dubai in aperta denuncia della presenza di Israele.
Mentre la Meloni incontra Erdogan e auspica l’aiuto del boia per evitare che il conflitto si estenda al Medioriente, c’è solo Lula, ad oggi, a mettere a tacere tutti denunciando che “solo lo scorso anno, il mondo ha speso più di 2000 miliardi di dollari in armi. Importo che potrebbe essere investito nella lotta alla fame e nel contrasto al cambiamento climatico” e che “l”1% più ricco del pianeta continua ad emettere la stessa quantità di carbonio del 66%della popolazione mondiale” e che “il mondo ha ‘naturalizzato’ disparità inaccettabili di reddito, genere e razza“.
Il piano d’azione della presidenza per realizzare i pilastri dell’accordo di Parigi si concentra su quattro settori: “accelerare la transizione energetica, definire i finanziamenti per il clima, mettere la natura, le persone, la vita e i mezzi di sussistenza al centro dell’azione per il clima, porre alla base di tutte le iniziative la piena inclusività”.
Il tema all’ordine del giorno della COP28, neanche a dirlo, è quello della crisi climatica e dell’innalzamento delle temperature che stanno provocando catastrofi demografiche, territoriali ma anche economiche in tutto il mondo.
Contro ogni negazionismo ancora possibile fino a qualche anno fa, è oggi evidente che la questione del cambiamento climatico è dirimente, e che porta con se non solo l’avanzata del deserto, il peggioramento della qualità dell’aria che respiriamo, le alluvioni, ma anche il problema della produzione di cibo, della sicurezza idraulica (più di 300 persone sono morte tra Etiopia e Somalia a causa di piogge e inondazioni, ma come abbiamo visto, le catastrofi ambientali accadono anche in alcune regioni italiane), delle migrazioni, delle guerre e della messa a rischio di intere filiere agroalimentari che fruttano milioni di euro.
Un primo obiettivo del meeting, questa volta, è quello di costituire e rendere effettivo un “Loss and Damage Fund”, un fondo per gestire le emergenze climatiche, dove i Paesi ricchi che nei decenni hanno maggiormente inciso sull’inquinamento del pianeta e sull’ipersfruttamento delle risorse si impegnino a stanziare cifre più consistenti a favore delle catastrofi ambientali che hanno colpito e colpiranno i Paesi ricchi ma soprattutto quelli poveri.
L’accordo, siglato all’inizio del meeting, sta già vedendo le prime adesioni e le prime promesse di stanziamenti finanziarie, su cui per ora né USA né Cina si sono espressi.
C’è da dire comunque che, se e quando questo fondo diventerà effettivo, sarà solo un primo passo non tanto per ridurre l’impatto del nostro sistema economico e produttivo sul pianeta, ma “solamente” per solidarizzare e fare “fronte comune” sulle conseguenze devastanti legate al cambiamento climatico.
Si tratta del resto di un fondo per gestire le emergenze, necessario ma non sufficiente ad invertire la rotta, tema che rappresenta la vera sfida, quella che la maggior parte dei Paesi ricchi non vuole affrontare davvero, perché significa necessariamente mettere in discussione il modello di produzione e accumulazione capitalista.
Altro tema preponderante è quello della cosiddetta “transizione energetica”, che ha come obiettivo l’eliminazione dei combustibili fossili a favore delle energie rinnovabili.
La scelta di fare questa convention a Dubai, in uno dei Paesi leader mondiale del business dei combustibili fossili, è sfidante, da un lato, ma genera anche molte polemiche dall’altro. Secondo l’ong Global Witness erano 673 i lobbisti accreditati a Cop27, e quest’anno potrebbero essere ancora di più.
Viene da chiedersi quanto questi attori influenzeranno le scelte e gli accordi da intraprendere, ma soprattutto la messa in campo concreta delle misure necessarie alla riduzione dell’uso dei combustibili fossili.
Guardando a casa nostra, intanto, già da anni ENI ha intrapreso un cospicuo fronte di ricerca e sviluppo sulle energie rinnovabili, drenando anche una grossa fetta di investimenti PNRR.
Si lavora su transizione energetica e ‘mitigazione climatica’, cosa che per ora rimane sulla carta, nonostante i proclami di Green Deal e Neutralità Climatica della “nostra” Unione Europea. Di fatto, per ora, si tratta di grossi investimenti volti ai per lo più ai grossi big del mercato, mentre le politiche pubbliche continuano a giocare al ribasso, come nel caso della nuova PAC, la politica agricola che doveva accompagnare la transizione verde dell’agricoltura e che si sta dimostrando di fatto di un “verde” assai pallido.
Già dai primi interventi dei capi di Stato, tra cui quello della premier Meloni, il messaggio rimane comunque chiaro: si parli di fondi di solidarietà per gestire le emergenze, si parli di sostenibilità delle produzioni e di energie rinnovabili, si parli di sicurezza alimentare, ma non si metta in discussione il diritto a competere e continuare a fare profitto sulle risorse del pianeta (e sulle popolazioni che lo abitano)!
La missione Ue a Dubai è “stabilire il quadro per la cooperazione internazionale e stabilire un solido punto di riferimento per i mercati dei crediti di carbonio“. Per Von del Leyen infatti, la soluzione è mercificare il carbonio, e dare corpo e struttura alla “banca dei crediti di carbonio”, in cui i privati possano bilanciare le loro emissioni di CO2 attraverso l’acquisto di quote di carbonio provenienti da altre fonti, ad esempio le foreste.
Un meccanismo distorto che non può che portare ad un ulteriore mercificazione e privatizzazione dell’ambiente e del territorio. E soprattutto ad ulteriori disuguaglianze tra paesi ed aree del pianeta.
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