I commentatori più servili, o meno brillanti, hanno colto l’occasione della morte di Henry Kissinger per precisare ancora meglio la “propria” visione della politica mondiale... secondo gli Stati Uniti attuali.
Solo alcuni titoli per capirci: «Xi Jinping è rimasto orfano del suo ”amico”» (Corriere della Sera), “Il secolo di Kissinger, fabbro del potere”(Libero), “Addio a Kissinger. Aprì le porte della Cina agli Usa” (Repubblica), “L’ultimo ambasciatore d’Occidente” (Il Messaggero), “Il Metternich della globalizzazione, Henry Kissinger lascia un vuoto” (Domani).
Come si vede, si va dall’elogiativo all’encomiastico, con qualche stilla di veleno anticinese. Sotto i titoli, però, la preoccupazione per il futuro, vista l’assenza di “tessitori” di eguale capacità.
Ma anche la rivendicazione di una politica di potenza più assertiva ed esplicita di quella messa in atto dal “Bismarck del XX secolo”, rappresentante massimo del “realismo politico” in campo occidentale.
Negli ultimi anni, nonostante si avvicinasse al traguardo del secolo di vita, Kissinger aveva rilasciato a più riprese critiche più o meno ruvide alla politica estera Usa, finendo spesso per essere elogiato da chi – in campo “progressista” – l’aveva sempre individuato come il più cinico tra i funzionari dell’imperialismo nel “secolo greve” (buon titolo de il manifesto).
Potremmo dire che ci troviamo in tempi così bui e rozzi, sul piano del pensiero, da ripensare quasi con nostalgia ai molti “belzebù” occidentali del Novecento, crudeli e violenti oltre ogni dire, ma – se non altro – almeno statisti in grado di pensare strategie, non soltanto di mostrare obbedienza “ai mercati”.
Andreotti, Craxi, Cossiga ed altri ancora, in effetti, spiccano come vette alpine rispetto al piattume dell’ultimo trentennio...
È cambiato molto rispetto ai tempi in cui Kissinger dettava legge su questa parte del pianeta. Allora la critica della realpolitik era una critica “da sinistra”, che coglieva il legame tra il cinismo violento e la “volontà di potenza”. Oggi la critica viene da destra, e considera quell’impostazione quasi “compromissoria” con i nemici dell’Occidente.
Conviene perciò capire bene la differenza, perché permette di vedere con maggior chiarezza la “filosofia di fondo” dell’imperialismo attuale.
Il “realismo politico”, in estrema sintesi, è quell’atteggiamento che riconosce che “gli altri” – i nemici potenziali o espliciti – esistono, hanno interessi diversi dai “nostri”, possiedono capacità e risorse che non possono essere ignorate anche se li si vuole battere e imporre i propri interessi come dominanti.
Nella realpolitik non c’è “morale”, ma soprattutto calcolo razionale dei costi e benefici, prefigurazione degli scenari possibili e definizione di obiettivi strategici secondo una scala di “gradimento”. Si punta al massimo risultato, certo, ma tenendo d’occhio i molti “piani B” (o “C”) che sono comunque preferibili ad una sconfitta.
“Gli altri” esistono, non possono essere azzerati (a meno che non siano così piccoli e deboli da non costituire un problema).
Non è più questa, da anni, la “cultura politica” dietro le strategie imperialiste occidentali.
A far data dalle molte “guerre asimmetriche” scatenate – non a caso – dopo la “Caduta del Muro”, gli Usa e l’Occidente al loro seguito si sono mossi schiacciando “gli altri”. Se non li hanno del tutto eliminati, li hanno comunque lasciati in condizioni tali da non riuscire neppure ad autogovernarsi. “Stati falliti” come la Somalia, la Libia, in buona misura l’Iraq, ecc., o frantumati come l’ex Jugoslavia.
Ma la cosa peggiore è che si sono abituati a pensare ed agire così. Neanche l’esser stati alla fine costretti a fuggire dall’Afghanistan ha modificato il modo di affrontare i problemi internazionali.
Lo si è cominciato a capire quando le vecchie strategie “asimmetriche” hanno sbattuto contro la reazione russa. Ossia contro uno “nemico simmetrico”, se pur economicamente meno forte, che può controbattere ad ogni livello, dalla fanteria alle testate nucleari.
Senza più l’arte difficile della realpolitik abbiamo visto un crescendo di argomentazioni pseudo-etiche a favore della guerra contro “nemici inumani”, che vanno conseguentemente eliminati e basta. Nessuna trattativa, nessuna pace, nessun “equilibrio di potenza”, nessun limite nella conduzione concreta della guerra. Nessun realismo politico.
Perché “noi” abbiamo “valori superiori”, una “civiltà”; siamo “un giardino circondato dalla giungla”. E la giungla può essere solo disboscata. Col napalm, probabilmente, di cui gli Usa di Kissinger fecero uso smodato in Vietnam, Cambogia e Laos. Arrivando però, “con realismo”, a fare un passo indietro quando capirono di non poter vincere...
Il contrario del “realismo politico” è un’astrazione da psicopatici: la superiorità dell’Occidente. Un “suprematismo” (a maggioranza bianca, certo, anche se non mancano leader o generali coloured, tra Londra e Washington) che non ammette contrasto.
Ma se “gli altri” devono smettere di esistere, allora c’è solo una politica possibile: lo sterminio. È quello che fecero i turchi con gli armeni, i nazisti con gli ebrei (e i comunisti, i rom, gli omosessuali), gli statunitensi bianchi con i nativi pellirosse. È quello che sta facendo, da 75 anni anni, Israele con i palestinesi. È quel che dicevano apertamente di voler fare i nazisti ucraini nel Donbass e in Crimea.
Sembra un “pensiero forte”, ma è esattamente l’opposto. Ed è proprio la biografia di Kissinger a dimostrarlo.
Quando gli Stati Uniti erano una superpotenza in crescita potevano permettersi di agire con molta crudeltà (golpe in America Latina, guerra in Vietnam, massacri in Indonesia, ecc.), ma sempre mantenendo il filo del realismo politico.
Per combattere meglio l’Unione Sovietica si potevano fare accordi strategici con la Cina di Mao, politicamente ancora più lontana della Mosca di Breznev. Ma non pensavano neanche lontanamente – perché irrealistico – a combattere una guerra vera con entrambi contemporaneamente...
Gli Stati Uniti in crisi di egemonia, invece, si ritrovano a maneggiare e diffondere un bellicismo irresponsabile che brucia tutti i ponti alle spalle e lascia ampie zone del mondo senza soluzioni politiche possibili. Per esempio in Palestina, ma non solo.
Il suprematismo occidentale è insomma un rinsecchimento della capacità di elaborazione strategica, una prova di debolezza politica.
Ma del resto, se l’intera classe politica occidentale, dopo quarant’anni di neoliberismo, è stata selezionata in base al grado di “obbedienza ai mercati”, dove volete mai trovare qualche statista che sia in grado di “pensare il tutto” con un briciolo di realismo?
Giusto al cimitero...
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