C’è un filo ormai evidente che lega gli sviluppi politici interni a tutto l’Occidente che sbrigativamente chiamiamo “neoliberista”, ma che si potrebbe anche definire “imperialismo occidentale”, ovvero la parte del pianeta che resta sotto l’egemonia statunitense.
È la “nostra” area, quella in cui viviamo e lottiamo. Il capitale multinazionale che le dà forma è il nostro nemico. I complessi blocchi sociali di potere incancrenitisi in questo “ambiente tumorale” sono l’ostacolo ad ogni cambiamento, ad ogni sviluppo progressivo del modello economico e delle istituzioni.
Anzi, assistiamo ovunque, in ogni angolo di questa parte di mondo, ad un costante arretramento culturale e “valoriale”, fino al ritorno vero e proprio a forme di dominio selvaggio, legittimato unicamente dalla forza, appena verniciata dai volenterosi carnefici della propaganda.
L’arrivo del pagliaccio Milei alla Casa Rosada è solo l’ultimo caso di un “Manchurian candidate” creato con cura negli studi televisivi per rappresentare in termini socialmente spendibili i comandamenti del capitale internazionale.
Una versione di ultradestra del “grillismo”, più efficace di Bolsonaro ma che attinge – come anche Trump – alla stessa miniera di argomenti creata da un trentennio di privatizzazioni e liberalizzazioni realizzate da “democratici” o pallidissimi sedicenti “diritto-umanisti”.
Stagione di privatizzazioni che non ha potuto eliminare alcune ultime “sacche” di intervento pubblico indispensabili per garantire il funzionamento della macchina statale e un briciolo di coesione sociale che evitasse esplosioni incontrollabili.
Proprio qui residui, ormai strutturalmente inconsistenti, ma utili comunque a garantire un margine clientelare-corruttivo per alimentare un establishment lontanissimo dal “popolo”, sono diventati il simbolo di ciò che andrebbe invece affrontato con la “motosega”.
Non è sorprendente – se non per l’abilità manipolatoria messa in opera – che questo allineamento assoluto agli interessi del grande capitale internazionale (fino all’adozione del dollaro come moneta “nazionale”) si sposi con un nazionalismo straccione, senza contenuti riconoscibili che vadano al di là del tifo da stadio.
Non è sorprendente, inoltre, che questi “nazionalisti delle multinazionali” si ritrovino tutti insieme nell’appoggio al genocida Netanyahu, a dimostrazione della “comune natura” di questa antica nuova destra reazionaria.
Ma al di là dei casi limite – tipici di paesi ai margini della catena imperialista, ancora oggetto di “contesa” tra moti di emancipazione e revanche “padronale” – l’identica spinta a destra attraversa tutti i paesi, specie nel presunto “giardino” di Borrell.
In Francia, Spagna, Italia, Olanda, nella stessa Germania, per non dire poi dell’Est europeo, si consolidano due fenomeni convergenti: lo sdoganamento del nazifascismo da parte delle forze sedicenti “liberali” e l’innalzamento continuo della soglia dell’”orrore accettabile” per imporre i propri interessi.
Possiamo parlare delle “riforme costituzionali”, o comunque della legislazione portante in molti paesi, come della spinta ad aumentare le spese militari; della criminalizzazione di qualsiasi opposizione sociale (basti guardare come vengono trattati gli ecologisti oggi in Italia...) come del diritto di sciopero in quanto tale.
Ovunque vediamo governi che rafforzano i propri poteri e riducono gli spazi legali per opporsi. Ovunque vediamo sistemi mediatici votati alla “distrazione di massa” e al silenziamento delle voci di dissenso reale.
Ovunque aumenta la propensione ad affrontare i problemi di qualsiasi tipo “con la motosega”, gli atti di forza, la guerra. Dalle pensioni a Gaza, potremmo dire, i problemi non si risolvono. Si eliminano.
Immaginate – o guardate, perché il processo è già in atto da anni – decine di milioni di anziani sempre più impoveriti e privati di un’assistenza sanitaria efficiente. Non è difficile prevederne la morte fortemente anticipata rispetto alle aspettative di vita, crescenti fino a qualche anno fa.
E così non vengono più descritte con orrore le uccisioni in massa di bambini sotto le bombe tra Jabalyia, Gaza City e Khan Yunis. Solo numeri, addirittura messi in dubbio dai bombardieri più cinici.
Tutto ormai può esser fatto, se nell’interesse dell’Occidente liberale. Nessun atto può essere invece tollerato, se viene da un’altra parte. Basta mettere a confronto i servizi giornalistici sull’Ucraina e sulla Palestina. Un civile ucciso nella prima vale più di diecimila massacrati nella seconda.
Non è neanche più il “doppio standard” in vigore da sempre, ma un nuovo standard. “È giusto massacrare chi “ci” ostacola, e guai a chi si oppone”. Il cosiddetto “diritto a difendersi” è tracimato da tempo nel diritto di rappresaglia.
Kesselring e Priebke potrebbero pretendere i diritti d’autore...
Il suprematismo occidentale – ovviamente “bianco” e razzista – è uscito dal vaso di Pandora in cui era stato rinchiuso con la Seconda Guerra Mondiale, quando il nazifascismo era stato vissuto come “colpa” di tutto l’Occidente capitalistico, soprattutto perché era stato battuto in primo luogo grazie all’Unione Sovietica (la vittoria di Stalingrado, che rovescia l’andamento della guerra, precede di un anno e mezzo lo sbarco in Normandia).
Oggi lo sguardo coloniale, euro-atlantico, sul mondo pretende di imporsi senza più preoccuparsi di apparire – almeno apparire – democratico, “diritto-umanista”, garantista o “socialmente attento”. Tutto il gran parlare di “democrazia”, alla prova dei fatti, diventa una cortina di buoni sentimenti astratti stesa su un mattatoio in continua espansione.
E, come negli anni ’20 del secolo scorso, i “liberali” o “democratici” si stringono ai nazifascisti (potremmo parlare a lungo della beatificazione del battaglione Azov...) pur di mantenere la “libertà di impresa”, l’unica che per loro conti davvero.
Ma c’è una enorme differenza rispetto a un secolo fa. Allora, quando il capitalismo occidentale era in piena spinta imperialista, la torsione autoritaria nazifascista proponeva ai propri popoli nazionali uno scambio criminale: espansione coloniale all’esterno ed elargizione di briciole di benessere all’interno.
Quote di minimo benessere, insomma, ricavate dalla rapina di popoli troppo deboli per opporre una resistenza efficace. Uno schema poi ereditato quasi senza discontinuità nel dopoguerra, sia pure con le dovute operazioni cosmetiche che hanno accompagnato una “decolonizzazione senza reale autodeterminazione”.
Oggi la situazione mondiale è completamente diversa. I popoli che allora costituivano la riserva di caccia a disposizione dell’imperialismo occidentale sono cresciuti di forza economica e autoconsapevolezza, non sono più res nullius conquistabile con poco sforzo.
Cina, Brasile, India, Iran, Sudafrica, produttori di petrolio arabi in genere, e persino la Russia “de-comunistizzata” – solo per citare autentiche potenze già ampiamente “emerse” – aggregano intorno a sé l’interesse a costruire un modo senza un unico padrone dispotico.
Lo “spazio vitale” per il suprematismo occidentale si va riducendo a vista d’occhio, tra tensioni, guerre e stagnazione economica più che ventennale.
Quel “patto sociale criminale” istituzionalizzato dal nazifascismo storico non ha più la materia prima per andare avanti. E i popoli, in primo luogo i lavoratori, che pure abitano “il giardino” dei coloni, “devono” essere trattati esattamente come “i selvaggi” al di là di quel confine.
Oggi, perciò, la presa dei governi sulle rispettive “opinioni pubbliche” è assai meno ferrea di un secolo fa, nonostante l’opera incessante di media mai come ora asserviti in termini quasi militari.
Possono seminare disinformazione, distrazione di massa, sconforto e scoramento, accentuare l’individualismo dell'”io speriamo che me la cavo”. Ma non riescono a creare un “patriottismo suprematista occidentale”, basato sui “nostri valori”. Perché, semplicemente, di “valori” – o almeno di “vantaggi” – non se ne riesce più a vederne uno.
La lunga corsa alla cancellazione dei diritti e alla riduzione dei salari può quindi essere gestita, temporaneamente, solo spostando drasticamente a destra l’asse ideologico-culturale, moltiplicando i “nemici” da indicare come responsabili dell’impoverimento generale.
“Nemici” da cambiare di continuo, perché anche l’eliminazione di uno di essi non genera alcun miglioramento minimamente percepibile. È uno stato di guerra permanente, ancorché interamente delegata ai “professionisti”, che non può convivere a lungo né facilmente con le incertezze della “democrazia”, con la conflittualità dei diversi interessi sociali, con la piena rappresentatività istituzionale di quei diversi interessi.
Sul piano strettamente politico, quindi, all’interno dell’Occidente neoliberista la “discriminante antifascista” è stata non soltanto “superata” nella pratica quotidiana e nel discorso pubblico. Ma sostituita dal suo opposto.
I governi occidentali, infatti, oggi si formano su una “discriminante anti-progressista”.
Perché non c’è “progresso” all’orizzonte di questo mondo, ma solo la certezza del declino. E la necessità disperata di mantenere un certo livello di privilegio imperiale, a garanzia dei profitti.
Per questo ciò che ostacola la marcia del profitto privato individuale, in effetti, anche se da molto lontano o in modo addirittura inconsapevole, allo sguardo occidentale finisce per odorare di “resistenza” o addirittura di “socialismo”. Un fantasma da combattere come sempre. Senza più badare all’umanità dei mezzi...
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