Avvertenza. Proseguendo nel lavoro di riflessione critica su alcuni nodi
teorici che Marx tratta nei Libri II e III del Capitale, mi sono reso
conto dell'opportunità di apportare un paio di varianti al progetto iniziale:
1) in questa quarta parte ho inserito un cenno alla integrazione della classe operaia nel capitale, argomento che inizialmente avevo pensato di discutere in una sesta parte dedicata alla “de-naturalizzazione” di lavoro e terra. Ciò perché mi sono reso conto che non avrei potuto scriverne senza studiare a fondo la questione della rendita fondiaria, il che, al momento, mi è impossibile, per cui la sesta parte è stata esclusa dal progetto;
2) quanto all’annunciata appendice sulle critiche della Luxemburg agli schemi marxiani dell’accumulazione allargata, sarà integrata nella quinta e ultima parte su centralizzazione del capitale, caduta del saggio di profitto e crisi.
Colgo infine l’occasione per chiarire (ove ve ne fosse bisogno) che con questi cinque testi non intendo offrire niente più che un elenco di dubbi e problemi relativi alla misura in cui certe categorie marxiane appaiono applicabili ai giorni nostri (un lavoro sistematico sulla seconda e terza sezione del Capitale avrebbe richiesto ben altre dimensioni).
Quanto agli autori citati, oltre a Marx ed Engels, si tratta di mie personalissime scelte, per cui mi scuso in anticipo con tutti coloro che mi rimprovereranno di avere trascurato questa o quella voce dell’immane bibliografia che la tradizione marxista (e non solo) ha sfornato su queste questioni.
4. Processo di socializzazione e transizione socialista
I brani del Capitale in cui Marx mette in evidenza il peso determinante del fattore sociale nel modo di produzione capitalistico sono talmente frequenti e numerosi che, a volerli citare tutti, si accumulerebbe una quantità di pagine non molto inferiore a quelle del Capitale stesso. Ecco perché le citazioni seguenti non hanno la pretesa di essere esaustive dell’argomento, ma rappresentano una scelta inevitabilmente limitata e arbitraria.
Prendo le mosse da due passaggi che spiegano come l’attività del singolo capitalista si avvalga dei benefici della forza produttiva sociale generata dal sistema nel suo complesso:
Il concetto di lavoro generale è sinonimo di quello di general intellect, al centro delle celeberrime pagine dei Grundrisse (1) che hanno acceso la fantasia dei teorici operisti e post operaisti, tanto da indurli a delirare su un presunto “comunismo del capitale” (2). Nè minore impatto nei confronti di costoro ha esercitato il concetto di “operaio combinato”, identificato di volta in volta con l’operaio massa e/o l’operaio sociale, fino ad approdare, a coronamento di un lungo ciclo di disillusioni e sconfitte, all’anodina categoria di moltitudine. Ma di questo ci occuperemo più avanti, discutendo del soggetto politico che dovrebbe scaturire dal lavoro collettivo. Prima ci occuperemo di quegli aspetti del processo di socializzazione che fanno sì che la figura tradizionale, storica del capitalista, venga oscurata dalle potenze che egli stesso, a mò di apprendista stregone, ha evocato. Un processo storico che, secondo Marx, è necessariamente destinato a culminare nell’emancipazione di quelle potenze dalle forme mistificate in cui sono state ingabbiate dalla proprietà privata.
Con la crescente concentrazione “Il capitale appare sempre più come una potenza sociale di cui il capitalista è funzionario (questa e la seguente sottolineatura sono mie) e che è ormai priva di qualunque rapporto con ciò che può creare il lavoro di un singolo individuo; ma come una potenza sociale alienata, resasi autonoma, che si contrappone alla società e come cosa, e come potere del capitalista grazie a quella cosa. La contraddizione fra la potenza sociale generale che il capitale incarna, e il potere privato del capitalista singolo su queste condizioni sociali della produzione, assume forme sempre più stridenti e implica la dissoluzione finale di questo rapporto” (Libro III, p. 337). Teniamo fermi i tre concetti evidenziati – il capitalista si converte da proprietario a funzionario del capitale (ma senza perderne la proprietà!); il capitale in quanto potenza sociale astratta ed autonoma che trascende i soggetti sociali concreti si oppone alla società nel suo complesso; e il processo è logicamente (quindi necessariamente!) destinato a culminare nella dissoluzione del rapporto di proprietà – e vediamo come si articolano nelle parti successive del III Libro.
Nel capitolo XXII (“Ripartizione del profitto, saggio d’interesse”) leggiamo: “con lo sviluppo della grande industria, il capitale denaro, in quanto si presenta sul mercato, tende sempre più a non essere rappresentato dal singolo capitalista, proprietario di questa o quella frazione del capitale reperibile sul mercato, ma ad intervenire come massa concentrata, organizzata, che soggiace, ben altrimenti dalla produzione reale, al controllo dei banchieri rappresentanti del capitale sociale” (Libro III, p. 465.). Il tema della finanziarizzazione, che nella puntata precedente abbiamo affrontato in rapporto al concetto di “divenire merce” del capitale, qui si ripresenta come tappa cruciale del processo di socializzazione del capitale: se il singolo capitalista industriale decade a funzionario del suo stesso capitale, il banchiere, in quanto funzionario del grande capitale finanziario, si eleva a rappresentante del capitale sociale.
Nello stesso capitolo, troviamo la paradossale descrizione del declassamento del capitalista a “lavoratore”: “l’utile d’impresa si presenta al capitalista come indipendente dalla proprietà di capitale, come risultato delle sue funzioni di... lavoratore” (Libro III, p. 479). E una decina di pagine dopo: “La stessa produzione capitalistica ha avuto per effetto che il lavoro di direzione viaggia per le strade in completa separazione dalla proprietà del capitale: è quindi inutile che a eseguirlo siano dei capitalisti” e due pagine dopo: “non resta che il funzionario, e il capitalista scompare come persona superflua dal processo di produzione” (entrambe le sottolineature sono mie). Ciò non significa che Marx dimentichi che il ruolo del manager industriale resta quello di sfruttare la forza lavoro (il che equivarrebbe a dire che Marchionne era un “lavoratore” ben retribuito grazie alle sue eccezionali capacità manageriali), infatti a pag. 488 scrive: “Di fronte al capitalista monetario, il capitalista industriale è lavoratore, ma lavoratore come capitalista, cioè come sfruttatore di lavoro altrui”.
Il tema della funzione del capitale finanziario come acceleratore del processo di socializzazione del capitale generale ricorre continuamente nel Libro III. Nel capitolo XXXVI (“Il processo della produzione capitalistica”) leggiamo per esempio: “Questo carattere sociale del capitale è mediato e integralmente realizzato solo dal pieno sviluppo del sistema creditizio e bancario. Quest'ultimo (...) mette a disposizione dei capitalisti industriali e commerciali tutto il capitale disponibile e perfino potenziale, non impegnato già attivamente, della società, cosicché né chi presta né chi impiega questo capitale ne è proprietario o produttore. Con ciò, esso sopprime il carattere privato del capitale e contiene in sé, ma anche soltanto in sé, la soppressione del capitale stesso” (sottolineatura mia) (p. 756). Ma nella pagina seguente troviamo un’affermazione ancora più sorprendente del ruolo (oggettivamente) rivoluzionario del capitale finanziario: “non v’è dubbio che il sistema creditizio servirà da leva potente durante il passaggio dal modo di produzione capitalistico al modo di produzione del lavoro associato, ma solo come un elemento in connessione con altri grandiosi rivolgimenti del modo di produzione stesso”. In poche parole, per Marx, le trasformazioni associate allo sviluppo del grande capitale industriale e finanziario si possono descrivere come “la soppressione del modo di produzione capitalistico entro i confini del modo di produzione capitalistico”, nella misura in cui rappresentano “la proprietà privata senza il controllo della proprietà privata” (Libro III, p. 555).
Ad onta della precisazione – secondo cui la transizione al modo di produzione del lavoro associato sarà facilitata dall’evoluzione del sistema verso forme produttive sempre più socializzate, “ma solo come un elemento in connessione con altri grandiosi rivolgimenti del modo di produzione capitalistico” – è difficile negare che le argomentazioni appena citate possono essere interpretate in modo da giustificare la tesi di una transizione più o meno spontanea, “automatica” dal modo di produzione capitalistico al modo di produzione del lavoro associato. Del resto è proprio così che le hanno interpretate i dirigenti della Seconda Internazionale, autoproclamandosi i veri custodi dell’eredità teorica di Marx contro l’eresia leninista che, viceversa, ha colmato il “buco” di un sistema teorico incapace di tradurre la critica delle contraddizioni interne al modo di produzione capitalistico in organizzazione politica del soggetto rivoluzionario (3).
Il buco in questione nasce da due limiti: da un lato una visione teleologica della storia le cui leggi immanenti condannano il capitalismo a creare le condizioni della propria fine; dall’altro lato il fatto che nel Capitale la classe operaia viene rappresentata esclusivamente come “classe in sé”, capitale variabile, elemento totalmente interno al processo capitalistico di produzione, al pari del capitale costante.
I passaggi che documentano il primo limite sono innumerevoli. Mi limito a citarne tre: “Se perciò il modo di produzione capitalistico è un mezzo storico (sottolineatura mia) per sviluppare la forza produttiva materiale e creare il mercato mondiale a essa corrispondente, è al tempo stesso la contraddizione permanente fra questa sua missione storica (idem) e i rapporti sociali di produzione che gli corrispondono” (Libro III, p. 320); “Così in questo ramo [si riferisce all’industria chimica] la concorrenza ha lasciato il posto al monopolio e si è preparato nel modo più felice il terreno alla futura espropriazione ad opera della società complessiva” (Libro III, p, 555, si tratta in questo caso di un inserto di Engels); “le imprese azionarie capitalistiche vanno considerate allo stesso titolo delle aziende cooperative come forme di trapasso dal modo di produzione capitalistico a quello associato” (Libro III, p. 558). Si passa dunque dalla definizione del capitalismo come strumento della hegeliana “astuzia della ragione” per sviluppare le forze produttive, all’affermazione del presunto ruolo delle imprese azionarie come passo intermedio verso la società dei produttori associati.
Quanto al secondo limite (la classe operaia ridotta a capitale variabile) ecco un paio di esempi: “Dal lato dell’operaio, l’impiego produttivo della sua forza lavoro diventa possibile solo dal momento in cui, in seguito alla sua vendita, essa viene posta in collegamento coi mezzi di produzione (...) Ma non appena, essendo stata venduta, sia posta in collegamento coi mezzi di produzione, essa forma parte integrante del capitale produttivo del suo compratore, allo stesso titolo dei mezzi di produzione” (sottolineatura mia; per inciso, vorrei osservare che ciò potrebbe essere interpretato nel senso che la resistenza soggettiva alla subordinazione sostanziale del lavoratore al processo di valorizzazione può darsi solo prima della vendita (4), cioè prima di essere trasformato in merce forza lavoro, mentre una volta integrato nel processo egli non è altro che uno strumento produttivo) (Libro II, p. 53). E ancora: “La produzione capitalistica (...) non produce soltanto merce e plusvalore, ma riproduce, e in proporzioni sempre più vaste, la classe dei salariati, e trasforma in salariati l’enorme maggioranza dei produttori diretti” (Libro II, p. 57). Anche qui la forza lavoro appare come oggetto, “viene riprodotta”, mentre il suo accrescimento numerico rappresenta una contraddizione per il capitale solo in senso “oggettivo”, contraddizione immanente che incarna la necessità storica della rivoluzione.
Prima di passare ad analizzare la soluzione leninista al doppio limite in questione, occorre tuttavia completare l’analisi marxiana del processo di socializzazione, descrivendo come costui immaginava il punto di approdo di tale processo, vale a dire la transizione alla società dei produttori associati. È noto che Marx è stato parco nel descrivere la propria visione di una società post capitalista. Tanto che molti ritengono che l’unico testo significativo che egli ci abbia lasciato in merito sia La critica al programma di Gotha (Editori Riuniti). In realtà nel Capitale esistono almeno due passaggi tutt’altro che marginali sul tema, uno nel Libro I (5) e l’altro nel Libro III. Personalmente ritengo più interessante il secondo, che riproduco qui di seguito quasi integralmente.
1) nelle righe iniziali ritroviamo la visione teleologica che abbiamo già più volte messo in luce: i meriti del capitale come agente involontario del “progresso umano”, nella misura in cui accumula le risorse materiali, le conoscenze e le relazioni sociali che preludono a un salto di civiltà (una visione illuminista che gli intellettuali rivoluzionari del Sud del mondo accusano di eurocentrismo e di scarsa attenzione alle conseguenze dei cosiddetti aspetti “civilizzatori” del capitale);
2) l’idea – su cui molto insiste l’ultimo Lukacs della Ontologia dell’essere sociale (6) – che, per quanto sviluppate siano le forze produttive del lavoro sociale, il regno della necessità, inteso come ricambio organico fra uomo e natura, non verrà mai meno “in ogni forma di società e in tutti i modi di produzione possibili” (che si potrebbe tradurre dicendo che un giorno potremo forse liberarci del valore di scambio, ma mai del valore d’uso);
3) l’idea che, stante questo vincolo, la libertà potrà consistere solo nel controllo collettivo dei produttori associati (controllo la cui forma politica resta indefinita) sulle modalità del ricambio organico emancipato dalla “cieca potenza” delle leggi dell’economia (capitalistica);
4) l’idea che al di là di questi vincoli materiali potrà esistere quel non ben definito “vero regno della libertà” del quale Ernst Bloch ci ha consegnato una versione vagamente misticheggiante (7);
5) viceversa Marx, nella misura in cui àncora il tutto alla riduzione della giornata lavorativa, ci fornisce l’unico elemento concreto per immaginare l’avvento di un altro mondo possibile.
1) in questa quarta parte ho inserito un cenno alla integrazione della classe operaia nel capitale, argomento che inizialmente avevo pensato di discutere in una sesta parte dedicata alla “de-naturalizzazione” di lavoro e terra. Ciò perché mi sono reso conto che non avrei potuto scriverne senza studiare a fondo la questione della rendita fondiaria, il che, al momento, mi è impossibile, per cui la sesta parte è stata esclusa dal progetto;
2) quanto all’annunciata appendice sulle critiche della Luxemburg agli schemi marxiani dell’accumulazione allargata, sarà integrata nella quinta e ultima parte su centralizzazione del capitale, caduta del saggio di profitto e crisi.
Colgo infine l’occasione per chiarire (ove ve ne fosse bisogno) che con questi cinque testi non intendo offrire niente più che un elenco di dubbi e problemi relativi alla misura in cui certe categorie marxiane appaiono applicabili ai giorni nostri (un lavoro sistematico sulla seconda e terza sezione del Capitale avrebbe richiesto ben altre dimensioni).
Quanto agli autori citati, oltre a Marx ed Engels, si tratta di mie personalissime scelte, per cui mi scuso in anticipo con tutti coloro che mi rimprovereranno di avere trascurato questa o quella voce dell’immane bibliografia che la tradizione marxista (e non solo) ha sfornato su queste questioni.
4. Processo di socializzazione e transizione socialista
I brani del Capitale in cui Marx mette in evidenza il peso determinante del fattore sociale nel modo di produzione capitalistico sono talmente frequenti e numerosi che, a volerli citare tutti, si accumulerebbe una quantità di pagine non molto inferiore a quelle del Capitale stesso. Ecco perché le citazioni seguenti non hanno la pretesa di essere esaustive dell’argomento, ma rappresentano una scelta inevitabilmente limitata e arbitraria.
Prendo le mosse da due passaggi che spiegano come l’attività del singolo capitalista si avvalga dei benefici della forza produttiva sociale generata dal sistema nel suo complesso:
“Ciò che caratterizza questo genere di risparmio del capitale costante [dovuto all’aumento della forza produttiva del lavoro], derivante dai continui progressi dell’industria, è che l’aumento del saggio di profitto in un ramo dell’industria è qui dovuto allo sviluppo della produttività del lavoro in un altro. Ciò che qui torna a beneficio del capitalista rappresenta a sua volta un guadagno che è il prodotto del lavoro sociale, anche se non del lavoro degli operai da lui stesso direttamente sfruttati. Quello sviluppo della forza produttiva si riconduce sempre, in ultima analisi, al carattere sociale del lavoro messo in azione; alla divisione del lavoro entro la società; allo sviluppo del lavoro intellettuale, soprattutto delle scienze naturali. Ciò che il capitalista utilizza, qui, sono i vantaggi dell'intero sistema della divisione sociale del lavoro (sottolineatura mia)”. (Libro III, pp. 116-117).Qui Marx spiega insomma che il capitalista non si appropria solo del lavoro non pagato dei suoi operai, bensì degli effetti generati dall’aumento dell’intero potenziale produttivo del sistema in cui agisce. Analogamente, in un paragrafo intitolato “Economie mediante invenzioni”, scrive che le economie nell’impiego del capitale fisso “servono come condizioni di lavoro immediatamente sociale, socializzato, ovvero di cooperazione diretta entro il processo produttivo”. Ovviamente qui non si fa riferimento alla manifattura, bensì alla produzione industriale su grande scala, che è l’unica che “rende possibili le economie derivanti dal consumo produttivo sociale”. Inoltre, per sgombrare il campo dall’equivoco in base al quale sarebbero le invenzioni tecniche in quanto tali a garantire tale risultato, aggiunge: “Infine, però, è solo l'esperienza dell’operaio combinato che scopre e indica come e dove risparmiare, come tradurre in pratica nel modo più semplice le invenzioni già fatte, quali frizioni pratiche nella realizzazione della teoria – nella sua applicazione al processo produttivo – vadano superate ecc.”. Dopodiché conclude che “bisogna distinguere fra lavoro generale e lavoro collettivo. Entrambi svolgono la loro parte nel processo di produzione (...) Lavoro generale è ogni lavoro scientifico, ogni scoperta, ogni invenzione. Esso dipende sia dalla cooperazione coi vivi sia dall’utilizzo del lavoro dei morti. Il lavoro collettivo presuppone la cooperazione diretta degli individui” (Libro III, pp. 142-143).
Il concetto di lavoro generale è sinonimo di quello di general intellect, al centro delle celeberrime pagine dei Grundrisse (1) che hanno acceso la fantasia dei teorici operisti e post operaisti, tanto da indurli a delirare su un presunto “comunismo del capitale” (2). Nè minore impatto nei confronti di costoro ha esercitato il concetto di “operaio combinato”, identificato di volta in volta con l’operaio massa e/o l’operaio sociale, fino ad approdare, a coronamento di un lungo ciclo di disillusioni e sconfitte, all’anodina categoria di moltitudine. Ma di questo ci occuperemo più avanti, discutendo del soggetto politico che dovrebbe scaturire dal lavoro collettivo. Prima ci occuperemo di quegli aspetti del processo di socializzazione che fanno sì che la figura tradizionale, storica del capitalista, venga oscurata dalle potenze che egli stesso, a mò di apprendista stregone, ha evocato. Un processo storico che, secondo Marx, è necessariamente destinato a culminare nell’emancipazione di quelle potenze dalle forme mistificate in cui sono state ingabbiate dalla proprietà privata.
Con la crescente concentrazione “Il capitale appare sempre più come una potenza sociale di cui il capitalista è funzionario (questa e la seguente sottolineatura sono mie) e che è ormai priva di qualunque rapporto con ciò che può creare il lavoro di un singolo individuo; ma come una potenza sociale alienata, resasi autonoma, che si contrappone alla società e come cosa, e come potere del capitalista grazie a quella cosa. La contraddizione fra la potenza sociale generale che il capitale incarna, e il potere privato del capitalista singolo su queste condizioni sociali della produzione, assume forme sempre più stridenti e implica la dissoluzione finale di questo rapporto” (Libro III, p. 337). Teniamo fermi i tre concetti evidenziati – il capitalista si converte da proprietario a funzionario del capitale (ma senza perderne la proprietà!); il capitale in quanto potenza sociale astratta ed autonoma che trascende i soggetti sociali concreti si oppone alla società nel suo complesso; e il processo è logicamente (quindi necessariamente!) destinato a culminare nella dissoluzione del rapporto di proprietà – e vediamo come si articolano nelle parti successive del III Libro.
Nel capitolo XXII (“Ripartizione del profitto, saggio d’interesse”) leggiamo: “con lo sviluppo della grande industria, il capitale denaro, in quanto si presenta sul mercato, tende sempre più a non essere rappresentato dal singolo capitalista, proprietario di questa o quella frazione del capitale reperibile sul mercato, ma ad intervenire come massa concentrata, organizzata, che soggiace, ben altrimenti dalla produzione reale, al controllo dei banchieri rappresentanti del capitale sociale” (Libro III, p. 465.). Il tema della finanziarizzazione, che nella puntata precedente abbiamo affrontato in rapporto al concetto di “divenire merce” del capitale, qui si ripresenta come tappa cruciale del processo di socializzazione del capitale: se il singolo capitalista industriale decade a funzionario del suo stesso capitale, il banchiere, in quanto funzionario del grande capitale finanziario, si eleva a rappresentante del capitale sociale.
Nello stesso capitolo, troviamo la paradossale descrizione del declassamento del capitalista a “lavoratore”: “l’utile d’impresa si presenta al capitalista come indipendente dalla proprietà di capitale, come risultato delle sue funzioni di... lavoratore” (Libro III, p. 479). E una decina di pagine dopo: “La stessa produzione capitalistica ha avuto per effetto che il lavoro di direzione viaggia per le strade in completa separazione dalla proprietà del capitale: è quindi inutile che a eseguirlo siano dei capitalisti” e due pagine dopo: “non resta che il funzionario, e il capitalista scompare come persona superflua dal processo di produzione” (entrambe le sottolineature sono mie). Ciò non significa che Marx dimentichi che il ruolo del manager industriale resta quello di sfruttare la forza lavoro (il che equivarrebbe a dire che Marchionne era un “lavoratore” ben retribuito grazie alle sue eccezionali capacità manageriali), infatti a pag. 488 scrive: “Di fronte al capitalista monetario, il capitalista industriale è lavoratore, ma lavoratore come capitalista, cioè come sfruttatore di lavoro altrui”.
Il tema della funzione del capitale finanziario come acceleratore del processo di socializzazione del capitale generale ricorre continuamente nel Libro III. Nel capitolo XXXVI (“Il processo della produzione capitalistica”) leggiamo per esempio: “Questo carattere sociale del capitale è mediato e integralmente realizzato solo dal pieno sviluppo del sistema creditizio e bancario. Quest'ultimo (...) mette a disposizione dei capitalisti industriali e commerciali tutto il capitale disponibile e perfino potenziale, non impegnato già attivamente, della società, cosicché né chi presta né chi impiega questo capitale ne è proprietario o produttore. Con ciò, esso sopprime il carattere privato del capitale e contiene in sé, ma anche soltanto in sé, la soppressione del capitale stesso” (sottolineatura mia) (p. 756). Ma nella pagina seguente troviamo un’affermazione ancora più sorprendente del ruolo (oggettivamente) rivoluzionario del capitale finanziario: “non v’è dubbio che il sistema creditizio servirà da leva potente durante il passaggio dal modo di produzione capitalistico al modo di produzione del lavoro associato, ma solo come un elemento in connessione con altri grandiosi rivolgimenti del modo di produzione stesso”. In poche parole, per Marx, le trasformazioni associate allo sviluppo del grande capitale industriale e finanziario si possono descrivere come “la soppressione del modo di produzione capitalistico entro i confini del modo di produzione capitalistico”, nella misura in cui rappresentano “la proprietà privata senza il controllo della proprietà privata” (Libro III, p. 555).
Ad onta della precisazione – secondo cui la transizione al modo di produzione del lavoro associato sarà facilitata dall’evoluzione del sistema verso forme produttive sempre più socializzate, “ma solo come un elemento in connessione con altri grandiosi rivolgimenti del modo di produzione capitalistico” – è difficile negare che le argomentazioni appena citate possono essere interpretate in modo da giustificare la tesi di una transizione più o meno spontanea, “automatica” dal modo di produzione capitalistico al modo di produzione del lavoro associato. Del resto è proprio così che le hanno interpretate i dirigenti della Seconda Internazionale, autoproclamandosi i veri custodi dell’eredità teorica di Marx contro l’eresia leninista che, viceversa, ha colmato il “buco” di un sistema teorico incapace di tradurre la critica delle contraddizioni interne al modo di produzione capitalistico in organizzazione politica del soggetto rivoluzionario (3).
Il buco in questione nasce da due limiti: da un lato una visione teleologica della storia le cui leggi immanenti condannano il capitalismo a creare le condizioni della propria fine; dall’altro lato il fatto che nel Capitale la classe operaia viene rappresentata esclusivamente come “classe in sé”, capitale variabile, elemento totalmente interno al processo capitalistico di produzione, al pari del capitale costante.
I passaggi che documentano il primo limite sono innumerevoli. Mi limito a citarne tre: “Se perciò il modo di produzione capitalistico è un mezzo storico (sottolineatura mia) per sviluppare la forza produttiva materiale e creare il mercato mondiale a essa corrispondente, è al tempo stesso la contraddizione permanente fra questa sua missione storica (idem) e i rapporti sociali di produzione che gli corrispondono” (Libro III, p. 320); “Così in questo ramo [si riferisce all’industria chimica] la concorrenza ha lasciato il posto al monopolio e si è preparato nel modo più felice il terreno alla futura espropriazione ad opera della società complessiva” (Libro III, p, 555, si tratta in questo caso di un inserto di Engels); “le imprese azionarie capitalistiche vanno considerate allo stesso titolo delle aziende cooperative come forme di trapasso dal modo di produzione capitalistico a quello associato” (Libro III, p. 558). Si passa dunque dalla definizione del capitalismo come strumento della hegeliana “astuzia della ragione” per sviluppare le forze produttive, all’affermazione del presunto ruolo delle imprese azionarie come passo intermedio verso la società dei produttori associati.
Quanto al secondo limite (la classe operaia ridotta a capitale variabile) ecco un paio di esempi: “Dal lato dell’operaio, l’impiego produttivo della sua forza lavoro diventa possibile solo dal momento in cui, in seguito alla sua vendita, essa viene posta in collegamento coi mezzi di produzione (...) Ma non appena, essendo stata venduta, sia posta in collegamento coi mezzi di produzione, essa forma parte integrante del capitale produttivo del suo compratore, allo stesso titolo dei mezzi di produzione” (sottolineatura mia; per inciso, vorrei osservare che ciò potrebbe essere interpretato nel senso che la resistenza soggettiva alla subordinazione sostanziale del lavoratore al processo di valorizzazione può darsi solo prima della vendita (4), cioè prima di essere trasformato in merce forza lavoro, mentre una volta integrato nel processo egli non è altro che uno strumento produttivo) (Libro II, p. 53). E ancora: “La produzione capitalistica (...) non produce soltanto merce e plusvalore, ma riproduce, e in proporzioni sempre più vaste, la classe dei salariati, e trasforma in salariati l’enorme maggioranza dei produttori diretti” (Libro II, p. 57). Anche qui la forza lavoro appare come oggetto, “viene riprodotta”, mentre il suo accrescimento numerico rappresenta una contraddizione per il capitale solo in senso “oggettivo”, contraddizione immanente che incarna la necessità storica della rivoluzione.
Prima di passare ad analizzare la soluzione leninista al doppio limite in questione, occorre tuttavia completare l’analisi marxiana del processo di socializzazione, descrivendo come costui immaginava il punto di approdo di tale processo, vale a dire la transizione alla società dei produttori associati. È noto che Marx è stato parco nel descrivere la propria visione di una società post capitalista. Tanto che molti ritengono che l’unico testo significativo che egli ci abbia lasciato in merito sia La critica al programma di Gotha (Editori Riuniti). In realtà nel Capitale esistono almeno due passaggi tutt’altro che marginali sul tema, uno nel Libro I (5) e l’altro nel Libro III. Personalmente ritengo più interessante il secondo, che riproduco qui di seguito quasi integralmente.
“Uno degli aspetti civilizzatori del capitale consiste nel fatto di estorcere questo pluslavoro in un modo e in condizioni che sono più favorevoli allo sviluppo delle forze produttive e dei rapporti sociali, e alla creazione degli elementi di una nuova e più elevata cultura, di quanto avvenisse nelle forme precedenti della schiavitù, della servitù della gleba, ecc. Da un lato esso genera uno stadio in cui la costrizione e la monopolizzazione dello sviluppo sociale (...) ad opera di una parte della società a spese dell'altra vengono a cessare; dall’altro crea i mezzi materiali e il germe di rapporti che permettono, in una forma superiore di società, di combinare questo pluslavoro con una maggior limitazione del tempo dedicato in genere al lavoro materiale. (...) L’effettiva ricchezza della società e la possibilità di un costante ampliamento del suo processo di riproduzione non dipendono quindi dalla durata del pluslavoro, ma dalla sua produttività e dalle condizioni di produzione più o meno ricche in cui esso si svolge. Il regno della libertà comincia in effetti soltanto là dove cessa il lavoro determinato dal bisogno e dalla convenienza esterna; risiede quindi, per la natura stessa della cosa, oltre la sfera della produzione materiale in senso proprio. Come il selvaggio deve lottare con la natura per soddisfare i suoi bisogni per conservare e riprodurre la sua vita, così deve fare l’uomo civile, e deve farlo in ogni forma di società e in tutti i modi di produzione possibili. Con il suo sviluppo si estende il regno della necessità naturale, perché si espandono i bisogni; ma nello stesso tempo si espandono le forze produttive che li soddisfano. La libertà in questo campo può consistere unicamente in ciò, che l’uomo socializzato, i produttori associati, regolino razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo sottopongano al loro controllo collettivo, invece di esserne dominati come da una cieca potenza; lo eseguano col minor dispendio di energie e nelle condizioni più degne della loro natura umana e ad essa più adeguate. Ma questo rimane pur sempre un regno della necessità. Al di là dei suoi confini ha inizio lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso; il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulla base di quel regno della necessità. La riduzione della giornata lavorativa ne è la fondamentale condizione.” (Libro III, pp. 1010-1012)Il brano è di tale densità che richiederebbe pagine e pagine di esercizio ermeneutico. Qui mi limito a elencare i punti che considero più significativi:
1) nelle righe iniziali ritroviamo la visione teleologica che abbiamo già più volte messo in luce: i meriti del capitale come agente involontario del “progresso umano”, nella misura in cui accumula le risorse materiali, le conoscenze e le relazioni sociali che preludono a un salto di civiltà (una visione illuminista che gli intellettuali rivoluzionari del Sud del mondo accusano di eurocentrismo e di scarsa attenzione alle conseguenze dei cosiddetti aspetti “civilizzatori” del capitale);
2) l’idea – su cui molto insiste l’ultimo Lukacs della Ontologia dell’essere sociale (6) – che, per quanto sviluppate siano le forze produttive del lavoro sociale, il regno della necessità, inteso come ricambio organico fra uomo e natura, non verrà mai meno “in ogni forma di società e in tutti i modi di produzione possibili” (che si potrebbe tradurre dicendo che un giorno potremo forse liberarci del valore di scambio, ma mai del valore d’uso);
3) l’idea che, stante questo vincolo, la libertà potrà consistere solo nel controllo collettivo dei produttori associati (controllo la cui forma politica resta indefinita) sulle modalità del ricambio organico emancipato dalla “cieca potenza” delle leggi dell’economia (capitalistica);
4) l’idea che al di là di questi vincoli materiali potrà esistere quel non ben definito “vero regno della libertà” del quale Ernst Bloch ci ha consegnato una versione vagamente misticheggiante (7);
5) viceversa Marx, nella misura in cui àncora il tutto alla riduzione della giornata lavorativa, ci fornisce l’unico elemento concreto per immaginare l’avvento di un altro mondo possibile.
*****
Nelle pagine del Capitale che abbiamo appena riletto, spiccano, fra gli altri, alcuni nodi problematici. Il primo, metodologico, riguarda l’impronta teleologica di una narrazione che annuncia la necessità storica, frutto di leggi immanenti alle forme stesse assunte dal modo di produzione capitalistico nel corso del suo processo evolutivo, della transizione al socialismo. Si tratta di un tema filosofico che, ancorché di grande momento, non considero prioritario nel contesto di questo scritto, per cui rinvio ai testi che vi ho dedicato altrove, a partire dai contributi di autori come Gyorgy Lukacs e Costanzo Preve (8).
Più urgenti mi paiono qui altre tre questioni:
1) posto che la socializzazione e il conseguente sviluppo delle forze produttive si concentrano nelle nazioni occidentali, dove tale processo è più avanzato, perché in queste nazioni tutti i tentativi di rovesciare il dominio del capitale sono falliti?
2) Come e in che misura la teoria marxista è riuscita a definire le condizioni della trasformazione della classe in sé (in quanto capitale vivo integrato nel processo produttivo di plusvalore) in classe per sé, cioè in organizzazione politica della propria lotta per l’emancipazione dal dominio del capitale?
3) Come e in che misura le concrete esperienze storiche di costruire una società socialista differiscono dal modello della società dei produttori associati abbozzato da Marx (ed Engels)?
Lungo l’intero corso del Novecento (ma anche oggi, sia pure in forme diverse), il marxismo si è diviso in due grandi correnti (ancorché frammentate al proprio interno) a partire dall’evento scismatico della Rivoluzione d’Ottobre e dalla svolta radicale che Lenin ha impresso alla teoria attraverso i concetti di imperialismo e partito rivoluzionario di classe. Il 1917 è lo spartiacque fra un marxismo occidentale che è rimasto fedele alla visione di un processo di maturazione spontanea del socialismo come “soppressione del modo di produzione capitalistico entro i confini del modo di produzione capitalistico”, per parafrasare le parole di Marx citate in precedenza, e la concezione leninista della rivoluzione come esito di un progetto politico, come discontinuità radicale del processo storico indotta e preparata da un partito che raccoglie e organizza l’avanguardia politicamente consapevole di una parte sociale, altrimenti condannata a riprodursi eternamente come mera forza lavoro, componente produttiva del processo di accumulazione capitalistica.
L’adesione dogmatica a questa concezione leninista del partito, non ha tuttavia salvato dalla sconfitta le minoranze rivoluzionarie che hanno tentato di opporsi all’egemonia riformista, schiacciante nell’ambito della cultura marxista occidentale. Questo perché, a mio avviso, il leninismo poteva funzionare, e ha funzionato, solo nelle condizioni create nelle regioni periferiche e semi periferiche del mondo dall’imperialismo. È questo il vero grande contributo di Lenin alla teoria marxista: un’analisi che, come osserva John Bellamy Foster in un lungo articolo apparso sulla Monthly Review conserva tutta la sua validità anche se “è stata integrata e aggiornata in vari momenti dalla teoria della dipendenza, dalla teoria dello scambio ineguale, dalla teoria dei sistemi-mondo (…). In tutto questo, la teoria marxista dell'imperialismo ha mantenuto un’unità di base che ha ispirato le lotte rivoluzionarie globali” (9). Dal 1917 alla vittoria della Rivoluzione cinese del 1949, alla sconfitta americana degli anni Settanta in Vietnam, alle rivoluzioni latinoamericane di ieri (Cuba) e di oggi (Venezuela e Bolivia), le vittorie delle masse popolari del Sud del mondo sono il frutto dell’allargamento della contraddizione di classe dal conflitto fra capitale e lavoro in Occidente al conflitto fra nazioni sfruttatrici e nazioni sfruttate nel sistema-mondo imperialista.
È grazie alla consapevolezza di tale allargamento che è stato possibile superare i limiti eurocentrici della visione marxista “ortodossa”, e integrare nella lotta anticapitalista le larghe masse contadine e popolari del Sud del mondo. Né è un caso, come nota ancora Bellamy Foster, se le sinistre postmoderne hanno tentato in tutti i modi di invalidare la teoria leninista dell’imperialismo, o riducendola a una teoria geopolitica del conflitto territoriale e militare fra grandi potenze, sorvolando sulle implicazioni in termini di sfruttamento economico delle periferie da parte delle metropoli, o addirittura negando l’esistenza stessa di quest’ultimo (10). Ma a urtare le sinistre politiche e accademiche occidentali, non è solo la denuncia della loro oggettiva complicità nei confronti delle proprie élite dominanti: è anche e soprattutto la presa d’atto, da parte di Lenin e dei suoi eredi teorici, che sul rapporto di sfruttamento delle periferie da parte delle metropoli si è fondata la trasformazione di larga parte del proletariato occidentale in aristocrazia operaia mondiale, in “classe media”, oggettivamente interessata alla conservazione dello status quo. Un dato di fatto che brucia, al punto che anche parte delle sinistre occidentali presuntamente antagoniste hanno cercato di negare – a partire dalla metà degli anni Settanta – il concetto stesso di imperialismo, e/o di rappresentare, come vedremo fra poco, l’aristocrazia di cui sopra come “nuova” avanguardia rivoluzionaria.
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Analizzando le grandi imprese monopolistiche degli Stati Uniti, Baran e Sweezy, (11) riprendono il tema marxiano della separazione fra funzioni manageriali e proprietà (tendenziale nella seconda metà del secolo XIX, fatto compiuto nel secondo dopoguerra del XX) e lo approfondiscono:
1) definendo il ruolo del manager come “uomo della organizzazione” in contrapposizione all’individualismo dell’imprenditore classico;
2) chiarendo che questi funzionari del capitale non rappresentano una nuova classe sociale – tesi sposata da chi li accosta alla burocrazia sovietica, descritta a sua volta come una nuova classe sociale (12) – ma vanno considerati come la parte più attiva e influente delle classi proprietarie;
3) ribadendo che la sostituzione del capitalista individuale con il capitalista collettivo delle società per azioni costituisce una “istituzionalizzazione della funzione del capitalista”;
4) sottolineando infine che i manager sono meno condizionati – rispetto al capitalista classico – da pregiudizi personali, per cui sono più disponibili a promuovere l’uguaglianza fra razze, generi, ecc.
Quest’ultima affermazione anticipa di decenni (siamo negli anni Sessanta!) il “capitalismo woke” dei giorni nostri (13) e ci aiuta a capire come già allora era prevedibile che il capitale si sarebbe impegnato ad accogliere e integrare le aspettative di emancipazione delle minoranze di colore, delle donne, ecc. (da notare che a pagina 748 del Libro III, già Marx scriveva: “quanto più una classe dominante è capace di accogliere nel proprio seno gli uomini – e le donne dovremmo aggiungere oggi! – più eminenti delle classi dominate tanto più solido e pericoloso è il suo dominio”). Per quanto riguarda, in particolare, la nascita di una “borghesia nera” sia negli Stati Uniti che nei Paesi a regime neo-coloniale, ho a mia volta descritto – in una serie di post dedicati all’afromarxismo e al panafricanismo rivoluzionari (14) – in che misura la cooptazione di élite intellettuali, economiche e politiche di colore abbia funzionato come un’arma potente per contrastare la lotta antimperialista.
Ma il merito di Baran e Sweezy e delle le loro analisi sull’impatto socioeconomico delle dinamiche dell'imperialismo sulla composizione di classe nei paesi metropolitani, consiste soprattutto nell’avere ampiamente documentato – con dati ed esempi concreti – in che misura le aristocrazie operaie occidentali si fossero dilatate rispetto ai tempi di Lenin, convertendosi in quelle “classi medie” che hanno finito per inglobare la maggior parte degli americani, operai compresi, una massa di persone disposte a condividere senza discussione l’obiettivo di garantire la stabilità del sistema, di individui che “per dare base razionale alla propria scelta a favore della conservazione dell’american way of life, accettano e giustificano l’anticomunismo e le politiche di illimitata espansione della spesa militare” (15). A partire da questa analisi, Baran e Sweezy attribuiscono il rafforzamento dell’egemonia delle classi dominanti alla “proliferazione dei ceti divoratori di surplus” (vedi quanto ho scritto in merito alla differenza fra lavoro produttivo e improduttivo). Un punto di vista diametralmente opposto alle idee di gran parte delle sinistre radicali occidentali, le quali, a partire dagli anni Settanta del Novecento, hanno invece considerato il processo di terziarizzazione del lavoro come un’opportunità di allargamento della base sociale rivoluzionaria.
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Il ciclo di lotte operaie e studentesche che ha scosso molti paesi occidentali nel decennio a cavallo degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, ha alimentato l’illusione di un nuovo scisma: così come Lenin aveva rotto con il marxismo della Seconda Internazionale, i movimenti e le formazioni politiche nate da quel ciclo di lotte promettevano di rompere con le socialdemocrazie e le scelte opportuniste dei partiti comunisti europei, e di dare vita a una nuova corrente rivoluzionaria all’interno del marxismo occidentale. Gli “intellettuali organici” espressi da quei movimenti, pur dispersi in una miriade di diverse tendenze, erano raggruppabili in due grandi famiglie. Da un lato, c’era chi si ispirava agli insegnamenti di Lenin e/o di Mao, senza però riuscire ad applicarli creativamente a una realtà socio-economica, politica e culturale profondamente mutata rispetto a quelle della Russia del 1917 (per tacere della Cina del 1949); dall’altro c’era chi riteneva che la classe operaia occidentale di quegli anni avesse sviluppato un livello di coscienza anticapitalista talmente avanzato da potersi auto organizzare, senza necessità della guida di un partito, di un’avanguardia politica esterna. Tutti condividevano però l’obiettivo di saldare le lotte operaie con le lotte studentesche, con la differenza che gli uni concepivano questa convergenza come un’alleanza di classe fra operai e piccola borghesia democratica, mentre gli altri teorizzavano che il processo di scolarizzazione di massa in atto in quegli anni preludeva alla proletarizzazione di un ceto medio giovanile destinato a divenire forza lavoro qualificata, dunque già parte integrante di una nuova classe operaia.
Saranno diverse anche le reazioni alla sconfitta delle lotte operaie, schiacciate dalla reazione delle élite borghesi alla crisi economica degli anni Settanta (ristrutturazione organizzativa e tecnologica del processo produttivo, decentramento delle industrie verso i paesi periferici e semiperiferici e processo di terziarizzazione del lavoro nei centri metropolitani, tagli a spesa pubblica e welfare, cui seguirà la svolta neoliberale degli anni Ottanta, accettata se non agevolata dall’acquiescenza delle tradizionali organizzazioni di sinistra) e al concomitante riflusso delle lotte giovanili e studentesche: da una parte, i micropartiti neo leninisti perderanno progressivamente consistenza, rifluendo in parte nella sinistra tradizionale, dall’altra parte, l’ala operaista, che aveva celebrato le magnifiche sorti e progressive dell’operaio massa (16) fordista, invece di prendere atto della fine di un ciclo storico, inseguirà le nuove figure sociali generate dalla rapida mutazione della composizione sociale, con particolare attenzione agli strati superiori della forza lavoro tecnico scientifica (knowledge workers) e alle nuove forme di lavoro autonomo. Questa rincorsa, scandita dalla produzione ininterrotta di pseudo categorie sociologiche (proletariato giovanile, operaio sociale, ecc.) non si lascerà disarmare dalle ripetute disillusioni e smentite, riuscendo persino ad attribuire alla rivoluzione digitale iniziata negli anni Novanta inedite potenzialità eversive del sistema, senza riconoscerne la natura di arma finale della controrivoluzione neo liberale (17). Così i processi di individualizzazione del lavoro (in particolare del lavoro cognitivo e terziario, sul quale i teorici post operaisti concentrano attenzione e aspettative) che ispirano l’ideologia del lavoratore “imprenditore di se stesso” (18) vengono celebrati come prodromi della nascita di una “moltitudine” fatta di singolarità capaci di interfacciassi in nuove forme di cooperazione sociale spontanea, e di autonomizzarsi dal comando del capitale (19).
Al di sotto di questo fermento ideologico sovrastrutturale, i decenni a cavallo del passaggio di millennio assistono a una rapida e tragica evoluzione della realtà sociopolitica occidentale. Annientato e disperso il patrimonio di conoscenze, memorie storiche, strutture organizzative, principi e valori etici delle classi lavoratrici occidentali, i legami sociali di dissolvono e si riarticolano secondo nuove gerarchie funzionali alla flessibilità richiesta dal capitalismo globalizzato, terziarizzato e finanziarizzato emerso dalla crisi dei Settanta. Mentre il proletariato sprofonda nell’inferno dei lavori precari, sottopagati, privi di qualunque sicurezza del terziario arretrato e dei processi industriali ridisegnati da nuove tecnologie, tagli di organico, subappalti, ecc. e le nuove élite borghesi ascendono al paradiso dei super ricchi che usufruiscono del ciclo di accumulazione abbreviato D-D’, le classi medie subiscono a loro volta un processo di polarizzazione: i settori produttivi e le professioni tradizionali sopravvivono stentatamente, mentre le nuove figure del terziario avanzato, pur scontando il prezzo di ritmi di lavoro forsennati, crescono numericamente e vengono messi in condizione di coltivare sogni (perlopiù illusori) di promozione sociale.
È in quest’ultimo strato, composto da figli e nipoti della generazione del sessantotto, che i “nuovi movimenti” (femministe, ecologisti, lgbtq, ecc.) reclutano i propri adepti. Ed è da quest’ultimo strato, come hanno magistralmente argomentato Boltanski e Chiapello (20), che le élite dominanti estraggono il materiale del “nuovo spirito del capitalismo”. Ed è infine in quest'ultimo strato – in cui si annidano coloro che Baran e Sweezy definiscono “divoratori di surplus” (vedi sopra) – che le sinistre postmoderne convertite al liberalismo pescano i propri elettori, offrendo programmi ricchi di rivendicazioni di diritti individuali e civili e insensibili alle esigenze dei diritti sociali. Una realtà che, invece di produrre le moltitudini antagoniste sognate dai post operaisti, ha prodotto l’inversione del nuovo panorama ideologico occidentale: colletti blu che odiano i liberal e votano a destra; colletti bianchi che amano se stessi e votano a “sinistra”.
Per completare l’analisi degli effetti perversi del “cattivo uso” che un certo marxismo occidentale ha fatto dei concetti marxiani, non mi resta che descrivere come gli accenni alla società dei produttori che Marx ci ha lasciato nel Capitale, sono stati sfruttati per demonizzare gli esperimenti rivoluzionari condotti in Russia, in Cina e in altri paesi socialisti. Dalla proclamazione dell’avvenuta restaurazione del capitalismo in Cina, seguita alle riforme post maoiste, ai canti di gioia innalzati sulle rovine del Muro di Berlino, le sinistre postmoderne occidentali si sono sistematicamente associate all’entusiasmo della canaglia liberale per il (presunto) fallimento dei “socialismi reali”. Tuttavia, mentre i liberali (e ovviamente i neofascisti) gioivano del crollo del socialismo tout court, le sinistre si consolavano con la tesi che quello non era il “vero” socialismo sognato da Marx (Lenin era già caduto in disgrazia in quanto presunto precursore dello stalinismo) bensì un orribile regime autoritario.
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Ovviamente per assolvere o condannare i socialismi reali non basta confrontarli con il modello astratto di società dei produttori associati che Marx propone nelle pagine del Capitale sopra citate. Come minimo occorre attingere anche agli argomenti che lo stesso Marx utilizzò nella Critica al Programma di Gotha, un testo che interveniva nel dibattito sul concetto di socialismo all’interno dei socialdemocratici tedeschi, ma anche e soprattutto all’ulteriore sviluppo che ne offrì Federico Engels nell’Anti Duhring (21). In quest’ultimo lavoro si afferma chiaramente che il socialismo non è caratterizzato solo dalla socializzazione dei mezzi di produzione, ma anche dalla fine della produzione mercantile e dei rapporti monetari; in altre parole: quelle che più tardi verranno descritte come caratteristiche del comunismo realizzato, vengono qui già attribuite al socialismo in quanto prima fase del comunismo.
Per Engels il passaggio dell’umanità dal regno della necessità al regno della libertà si compie dunque già nella società socialista, a differenza di quanto scrive Marx nel Capitale (vedi sopra) secondo cui la transizione socialista appartiene ancora al regno della necessità. A parte questa differenza, non vi è dubbio che il socialismo sovietico (di quello cinese diremo più avanti) non si sia adeguato al modello in questione. Ciononostante Vladimiro Giacché sostiene giustamente che lo scarto rispetto alla concezione “classica” marx-engelsiana non basta a definire l’esperienza bolscevica come un “fallimento” e, in un articolo (22) dedicato alla rivoluzione economica sovietica, ricorda che, superata la fase della ricostruzione successiva alla guerra civile, la Russia socialista si è sviluppata a ritmi assai più elevati di quelli dei paesi capitalisti occidentali, e che la pianificazione le ha consentito di superare senza problemi la Grande Crisi del 1929 che aveva messo in ginocchio America ed Europa. Sottolinea poi che anche l’Occidente in quegli anni si era visto costretto a imboccare la strada della pianificazione, sia pure in forme diverse, tanto da alimentare la tesi della convergenza fra i due sistemi (23). Di più: la capacità dell’Unione Sovietica di sfidare il modello occidentale (anche e soprattutto sui terreni della sanità, dell’istruzione e della sicurezza sociale), scrive Giacché, si prolunga fino agli anni Sessanta, malgrado le tremende devastazioni provocate dall’aggressione nazista, ed è solo a partire dai Settanta che iniziano a manifestarsi difficoltà destinate a crescere fino alla crisi finale del sistema. Crisi che lo stesso Giacché – e non è l’unico (24) – attribuisce non solo a ragioni economiche (pur elencando una serie di possibili cause strutturali) ma anche e soprattutto a motivi politici.
Iniziamo con il dire che il modello classico è il frutto delle aspettative di Marx ed Engels, i quali ritenevano che una rivoluzione socialista mondiale fosse una possibilità non lontana, se non imminente. Ritenevano inoltre che il processo di transizione al socialismo sarebbe stato più (Engels) o meno (Marx) breve. E lo stesso Lenin, fino al 1919/20, pensava che al monopolio di stato sul commercio sarebbe dovuta subentrare la sostituzione totale del commercio con la distribuzione organizzata secondo un piano. Eppure, già nel 1921-23, la dura realtà dei fatti lo indusse a criticare le tesi di quegli esponenti della sinistra bolscevica che sostenevano che si sarebbe potuti passare direttamente al socialismo senza un periodo di transizione, dopodiché finì per ammettere che tale periodo sarebbe stato lungo e caratterizzato dal persistere di rapporti mercantili e monetari. Una presa d’atto che si concretizzò con la svolta della NEP, la quale indusse molti critici, sia in Russia che altrove, a parlare di ritorno del capitalismo e/o di capitalismo di stato. Critiche alle quali Lenin aveva già di fatto replicato anni prima, allorché, in un discorso del 1918 pronunciò le seguenti parole: “Noi siamo lontani anche dalla fine del periodo di transizione dal capitalismo al socialismo (...). Noi sappiamo quanto sia difficile la strada che porta dal capitalismo al socialismo, ma abbiamo il dovere di dire che la nostra repubblica dei soviet è socialista, perché noi ci siamo avviati su questo cammino. Si ha dunque ragione di dire che il nostro Stato è una repubblica socialista dei soviet” (25).
Analoghe considerazioni si impongono rispetto alla Cina: posto che l’abolizione di merce e denaro non è mai avvenuta, neppure nell’era maoista, durante la quale vi fu un tentativo di costruire un sistema pianificato di produzione diretta di valori d’uso senza passare dalla forma merce e dal denaro, ma fu proprio in seguito al suo fallimento che il PCC si convinse dell’impossibilità di liquidare completamente il processo di riproduzione del capitale in forma monetaria. Di più: le riforme iniziate da Deng nel 1978 e proseguite dai suoi successori, sono state una mossa ben più radicale della NEP sovietica nella direzione di reintrodurre il mercato come fattore di regolazione di larghi settori dell’economia cinese (pur mantenendo il controllo pubblico sui settori strategici e sul sistema finanziario e non rinunciando alla pianificazione, benché resa più flessibile). Se dunque continuiamo ad assumere la scomparsa della produzione mercantile quale unico parametro del carattere socialista di una società, dobbiamo ammettere che né la Cina di Mao, né tantomeno quella di Deng, così come la Russia dopo la fine degli anni Venti, possono essere considerate socialiste.
Contro questo punto di vista, evitando di mobilitare (il che ci porterebbe troppo lontano) l’ampia schiera di autori marxisti (26) che considerano la Cina (ma anche Cuba, Vietnam, Laos, Corea del Nord, Venezuela e Bolivia) paesi socialisti, mi limito a concludere adducendo i seguenti argomenti:
1) la rivoluzione socialista ha vinto in Paesi periferici e semiperiferici, usciti da poco da condizioni arretrate e/o dal dominio coloniale, i quali hanno dovuto in primo luogo risolvere il problema di sviluppare l’economia in misura tale da garantire l’autonomia e l'indipendenza nazionali, e un livello di vita dignitoso per i propri cittadini, un obiettivo raggiunto in tempi storicamente brevissimi, che solo grazie a un’economia pianificata e al ruolo strategico della proprietà pubblica dei mezzi di produzione è stato possibile realizzare.
2) Grazie all’esperienza delle rivoluzioni del Sud del mondo si è compreso che il processo di transizione dall’economia capitalistica all’economia socialista è un processo molto più lungo e complesso di quanto abbiano potuto immaginare Marx ed Engels un secolo e mezzo fa. Un processo in cui permangono conflitti e contraddizioni sociali, per cui non esistono garanzie a priori del suo esito positivo, mentre l’attuazione della società dei produttori associati resta un modello teorico e un obiettivo di lunghissima durata.
3) Il ruolo del potere politico (e quindi dello stato) è, e continuerà ad essere a lungo, decisivo, perché solo una salda direzione politica può impedire agli strati sociali che beneficiano della permanenza di dinamiche di tipo capitalistico di bloccare, o addirittura invertire, il processo di transizione (per inciso, va notato che non esistono modelli teorici in grado di analizzare realtà sociali in cui il potere politico e il potere economico appartengono a strati sociali differenti).
4) Il fatto che tutti i intentativi rivoluzionari nei paesi a capitalismo avanzato siano falliti non è casuale: l’analisi di Marx sul rapporto fra imperialismo inglese e popolo irlandese, l’analisi di Lenin sull'imperialismo, ripresa da Baran e Sweezy nel secondo dopoguerra, le analisi dei teorici della dipendenza, dello scambio ineguale e del sistema-mondo sono altrettanti contributi alla comprensione dei dispositivi che consentono alle élite metropolitane di neutralizzare le velleità rivoluzionarie delle classi subordinate dei propri paesi, grazie alla parziale ridistribuzione degli enormi sovraprofitti realizzati sfruttando i paesi periferici. La condanna ideologica che le classi medie e le “sinistre” occidentali esprimono nei confronti del socialismo reale, unitamente all’abbandono dei temi della lotta antimperialista, sono frutto di precisi interessi di classe, nonché di una mentalità eurocentrica che impedisce di capire e accettare le specificità culturali associate alle lotte rivoluzionarie dei popoli del Sud del Mondo.
5) Un criterio che in futuro consentirà di giudicare meglio la validità della rivendicazione dei Paesi che oggi si proclamano socialisti, sarà, una volta che essi avranno garantito ai rispettivi popoli una vita degna di essere vissuta, cioè liberata da stringenti vincoli di necessità materiale, in che misura riusciranno a garantire anche quella riduzione del tempo di lavoro che Marx indica come la condizione fondamentale per l’ingresso nel regno della libertà.
Note
(1) Vedasi il “frammento sulle macchine” (Elementi fondamentali della critica dell’economia politica, vol. 2°, pp. 389-403, La Nuova Italia, Firenze 1970), dove leggiamo i seguenti passaggi: “Finché il mezzo di lavoro rimane, nel senso proprio della parola, mezzo di lavoro (…) esso subisce solo un mutamento formale per il fatto che ora non si presenta più soltanto dal suo lato materiale come mezzo di lavoro, bensì nello stesso tempo come un modo particolare di esistenza del capitale (…) Ma, una volta assunto nel processo produttivo del capitale [esso] percorre diverse metamorfosi di cui l'ultima è la macchina o, piuttosto un sistema automatico di macchine (…) questo automa è costituito di numerosi organi meccanici e intellettuali, di modo che gli operai stessi sono determinati solo come organi coscienti di esso (…)
“L’attività dell’operaio, ridotta a una semplice astrazione di attività, è determinata da tutte le parti dal movimento del macchinario, e non viceversa (…)”
“Il processo di produzione ha cessato di essere processo di lavoro nel senso che il lavoro lo soverchi come l’unità che lo domina. Il lavoro si presenta ormai soltanto come organo cosciente, in vari punti del sistema delle macchine nella forma di singoli operai vivi (…)”
“In quanto poi le macchine si sviluppano con l’accumulazione della scienza sociale, della produttività in generale, non è nel lavoro, ma nel capitale, che si esprime il lavoro generalmente sociale”.
Fin qui può sembrare paradossale che questo testo – rilanciato nel numero 4 di “Quaderni Rossi”, la rivista fondativa della corrente teorica dell’operaismo italiano – abbia alimentato il mito dell’autonomia operaia, visto che la classe viene piuttosto descritta come un pulviscolo si singoli individui (forse Charlie Chaplin lo ha letto, prima di girare “Tempi moderni”) ridotti a cellule nervose del sistema automatico di macchine. Senonché qualche pagina più avanti compaiono le frasi che sono state interpretate come il rovesciamento dialettico della subordinazione integrale del lavoro al capitale. Eccole:
“La ricchezza reale si manifesta (…) nell’enorme sproporzione fra il tempo di lavoro impiegato e il suo prodotto, come pure nella sproporzione qualitativa fra il lavoro ridotto a pura astrazione e la potenza del processo di produzione che esso sorveglia. Non è più tanto il lavoro a presentarsi come incluso nel processo di produzione, quanto piuttosto l’uomo a porsi in rapporto al processo di produzione come sorvegliante e regolatore (…) L’operaio non è più quello che inserisce l’oggetto naturale modificato come membro intermedio fra l’oggetto e se stesso; ma è quello che inserisce il processo naturale, che egli trasforma in un processo industriale, come mezzo fra se stesso e la natura inorganica, della quale si impadronisce ” (…).
“In questa trasformazione non è né il lavoro immediato, eseguito dall’uomo stesso, né il tempo che egli lavora, ma l’appropriazione della sua produttività generale (…) in una parola è lo sviluppo dell’individuo sociale che si presenta come il grande pilone di sostegno della produzione e della ricchezza. Il furto del tempo di lavoro altrui, su cui poggia la ricchezza odierna, si presenta come una base miserabile rispetto a questa nuova base che si è sviluppata nel frattempo e che è stata creata dalla grande industria stessa: non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande fonte della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura, e quindi il valore di scambio cessa di essere la misura del valore d’uso”(…).
“Lo sviluppo del capitale fisso mostra fino a quale grado il sapere sociale generale, knowledge, è diventato forza produttiva immediata, e quindi le condizioni del processo vitale stesso della società sono passate sotto il controllo del general intellect…”.
Qui le ragioni dell'entusiasmo operaista sono invece evidenti. Marx nella sua visionarietà da autore ante litteram di fantascienza, anticipa livelli di sviluppo tecnologico e scientifico più vicini a quelli di oggi che alla proto industria meccanizzata dei suoi tempi, e associa tale visione all’esaurirsi della funzione storica del modo di produzione capitalista: nella produzione della ricchezza, ormai passata sotto il controllo del general intellect, la misurazione del valore attraverso il tempo di lavoro immediato non ha più ragione di esistere, il che vale dunque anche per il valore di scambio che viene così riassorbito nel valore d’uso. Ergo: il capitale ha creato le condizioni materiali del proprio superamento. Ma dov’è il soggetto politico che ne decreta la fine? Risposta operaista: è la classe operaia stessa che, proprio in quanto integrata nel capitale, si trasforma direttamente nella società dei produttori associati che governa il processo produttivo, e invita gentilmente il capitalista a farsi da parte...A che serve il partito leninista se è lo stesso modo di produzione capitalista a divenire spontaneamente comunista?
(2) Cfr. C. Marazzi, Il comunismo del capitale, ombre corte.
(3) Cfr. V.I. Lenin, Che fare?, in Opere Scelte, vol. I., Edizioni in Lingue Estere, Mosca 1947.
(4) Per Marx, la resistenza dei produttori diretti (contadini, artigiani, comunità precapitaliste, ecc.), e dei senza lavoro espropriati dal processo di accumulazione primitiva, è un fattore sostanzialmente conservatore, in quanto rallenta il processo di accrescimento della massa dei lavoratori salariati. Vedi in merito il suo giudizio negativo nei confronti del movimento luddista in Inghilterra (cfr. E. P. Thompson, The Making of the English Working Class, Penguin, London 1991). Ma la storia dei movimenti rivoluzionari del Sud del Mondo ci insegna che, al contrario, la lotta delle masse popolari dei paesi periferici contro il processo di colonizzazione delle proprie forme di vita da parte del modo di produzione capitalistico, ha svolto e continua a svolgere un ruolo strategico nella lotta globale all’imperialismo. Il tema è stato sviluppato soprattutto dai marxisti latinoamericani e africani (vedi, fra gli altri, J. C. Mariategui, 1972; A. G. Linera 2015 e C. Robinson 2023).
(5) K. Marx, Il Capitale I, UTET, Torino 1974, pp. 681.682: “L’eliminazione della forma di produzione capitalistica permetterà di limitare la giornata lavorativa al lavoro necessario. Tuttavia quest'ultimo, a parità di condizioni, estenderebbe il suo spazio, da un lato perché le condizioni di vita dell’operaio sarebbero più ricche e le sue esigenze vitali maggiori, dall’altro perché una parte dell’attuale pluslavoro conterebbe come lavoro necessario, cioè come lavoro necessario alla costituzione di un fondo sociale di riserva e di accumulazione. Quanto più cresce la forza produttiva del lavoro, tanto più si può abbreviare la giornata lavorativa, e quanto più su abbrevia la giornata lavorativa, tanto più l'intensità del lavoro può crescere. Dal punto di vista sociale, la produttività del lavoro cresce anche con la sua economia, che comprende non solo il risparmio dei mezzi di produzione, ma anche l'esclusione di ogni lavoro inutile. Mentre il modo di produzione capitalistico impone economia in ogni azienda individuale, il suo anarchico sistema della concorrenza provoca il più smisurato sperpero dei mezzi di produzione e delle forze lavoro sociali, oltre a un numero enorme di funzioni oggi indispensabili ma, in sé e per sé, superflue. Date l'intensità e la forza produttiva del lavoro, la parte della giornata lavorativa sociale necessaria alla produzione materiale sarà tanto più breve, e la parte di tempo conquistata alla libera attività individuale e sociale degli individui sarà tanto maggiore, quanto più il lavoro sarà proporzionalmente distribuito fra tutti i membri della società in grado di lavorare, quanto meno uno strato sociale potrà scaricare dalle proprie spalle su quelle di un altro la necessità naturale del lavoro”.
(6) Cfr. G. Lukacs, Ontologia all'essere sociale, 4 voll., Meltemi, Milano 2023.
(7) Cfr. E. Bloch, Il principio speranza, 3 voll., Mimesis, Milano-Udine 2019.
(8) Vedi in particolare, Ombre rosse, saggi sull'ultimo Lukacs e altre eresie, Meltemi, Milano 2022.
(9) J. B. Foster, La sinistra e la nuova negazione dell'imperialismo”, “Monthly Review”,
Novembre 2024.
(10) nello stesso articolo di Foster leggiamo: “Oggi, grazie alla ricerca di Jason Hickel e dei suoi colleghi sappiamo che tra il 1995 e il 2021 il Nord globale è stato in grado di estrarre dal Sud globale 826 miliardi di ore di lavoro netto appropriato. Misurato con i salari del Nord si tratta di un valore pari a 18,4 trilioni di dollari”.
(11) Cfr.P. Baran, P. Sweezy, Il capitale monopolistico. Saggio sulla struttura economica e sociale americana, Einaudi, Torino 1968.
(12) Una teoria diffusa fra i teorici di ispirazione trotzkista.
(13) Cfr. C. Rodhes, Capitalismo woke, Fazi, Roma 2023.
(14) Vedi su questo blog, gli articoli che ho dedicato a Ochieng Okoth, Du Bois, Cabral, Rodney, Williams, Padmore, Robinson e altri intellettuali di origine africana.
(15) Cfr. P. Baran, P. Sweezy, op. cit.
(16) Cfr. M. Tronti, Operai e capitale, Einaudi, Torino 1966.
(17) Ho criticato queste invenzioni pseudo sociologiche di Antonio Negri e altri autori post operaisti in diversi scritti. Vedi, in particolare, Utopie letali, Jaka Book, Milano 2013.
(18) Sull’invenzione del concetto di “lavoratore come imprenditore di se stesso”, cfr. P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo, DeriveApprodi, Roma 2013.
(19) Oltre che su un’interpretazione “creativa” dei passaggi dei Grundrisse che ho citato nella nota (1), questa teoria si è avvalsa della retorica della “cultura hacker” americana, la quale tentava di estrarre da fenomeni come le comunità di sviluppatori di software open source e come Wikipedia, la tesi di una progressiva espropriazione dei colossi dell’industria high tech da parte dei processi di aggregazione dal basso di nuove forme di imprenditorialità cooperativa (vedi in proposito Y. Benkler, La ricchezza della Rete).
20) Cfr. L. Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano-Udine 2014.
21) F. Engels, Antiduhring, Editori Riuniti, Roma 1971.
(22) V. Giacché “La rivoluzione economica sovietica”; l'articolo è pubblicato in Elogio del comunismo del Novecento, Atti del Forum della Rete dei Comunisti, 4-5 Ottobre 2024.
(23) Nell’articolo citato alla nota precedente, Giacché indica nell'olandese Jan Tinbergen l’esponente più interessante della corrente dei teorici della convergenza.
(24) Un’autrice italiana che ha elaborato tesi interessanti sulle cause sociopolitiche della crisi sovietica è Rita di Leo (vedi in particolare L’esperimento profano, Futura, Roma 2011).
(25) Citato in Economia della rivoluzione, Raccolta dei testi di Lenin a cura di V. Giacché, il Saggiatore, Milano 2017.
(26) Nel capitolo sulla Cina del secondo volume del mio Guerra e rivoluzione (Meltemi, Milano 2023) cito, oltre al capolavoro di Arrighi, Adam Smith a Pechino, le opere di Gabellini, Bertozzi, Bell, Parenti, Herrera e Gabriele.
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