L’America brucia, ma non sono gli anni ‘60 e ‘70. La prima cosa che salta agli occhi vedendo gli scontri a Los Angeles – che ora promettono di allargarsi ad altri stati dove sono presenti consistenti comunità di immigrati, in primo luogo messicani e centroamericani – è che questa volta non si tratta di una sommossa sociale motivata da richieste di maggiore salario, diritti, integrazione. Non sono insomma l’emersione “dal basso” di bisogni incompatibili con l’assetto economico dominante.
Al contrario, le proteste sono state intenzionalmente provocate dal governo federale, ovvero “dall’alto”, da Washington, che ha inviato la Guardia Nazionale addirittura in alcune fabbriche e centri per l’immigrazione, arrestando gente senza permesso di soggiorno o con quel documento ormai scaduto, al solo scopo di radunare una quantità sufficiente di “irregolari” da espellere e dar così un po’ di lustro elettoralistico ad un primo semestre di presidenza decisamente farraginoso.
Tutto il mondo, ed anche gli elettori di Trump, vedono infatti che le promesse elettorali sono parecchio ardue da realizzare.
La “pace” in Ucraina è di là da venire, anche “grazie” ad alleati europei ormai preda di un bellicismo da operetta macabra.
I dazi sulle importazioni da tutto il Mondo si sono rivelati un mezzo boomerang ancor prima di entrare in funzione, spezzettando il quadro – e il commercio internazionale, cosa più grave – in una miriade di contrattazioni con singoli paesi ed aree economiche, con l’unico risultato certo di incentivare ovunque la ricerca di alternative di mercato rispetto agli Usa “impazziti”.
Anche sul genocidio dei palestinesi – che ovviamente Trump non chiama così – le sue mosse non hanno prodotto alcun effetto positivo. L’unico risultato è aver aperto una guerra suicida con le maggiori università statunitensi, “colpevoli” di non aver represso a sufficienza le proteste pro-Gaza, tacciate in modo infame come “antisemitismo”.
L’offensiva anti-migranti sembrava perciò la mossa giusta per cogliere più obiettivi in un colpo solo: farsi bello davanti all’elettorato ultra-reazionario che l’ha riportato alla Casa Bianca, “dare una lezione” all’establishment liberal della California (e un monito a tutti gli altri), bruciare l’ascesa del governatore del Golden State – Gavin Newsom – come candidato democratico vincente alle presidenziali del 2028.
Come sempre accade, quel che sembra più facile può diventare un problema complicato.
L’offensiva in California straccia via lo stesso ordine legale-costituzionale su cui gli Usa hanno costruito la rutilante immagine di “grande democrazia”, almeno sul piano interno. La “federalizzazione” della Guardia Nazionale (un corpo costituito da personale civile, agli ordini dei governatori locali), senza neanche invocare l’unica legge che lo consentirebbe (l’“Insurrection Act” del 1807), nonché le minacce di arresto per Gavin Newsom, sono in effetti una novità assoluta che certifica una pratica del potere tendenzialmente “assolutistica” da parte di Trump e della sua banda.
Ma soprattutto ha aperto il vaso di Pandora della potenziale guerra civile interna.
Acchiappare “stranieri” a casaccio ha portato nelle prigioni statunitensi, con destinazione Guantanamo, anche cittadini di paesi “amici” (o servi) come Gran Bretagna, Italia, Francia, Germania, Irlanda, Belgio, Paesi Bassi, Lituania, Polonia, Turchia e Ucraina. I loro governi non protesteranno, tanto meno prenderanno misure “simmetriche” (tipo arrestare cittadini statunitensi e internarli all’Asinara o a Stammheim), ma certo viaggiare negli States anche solo per turismo diventa improbabile.
Questi raid all’ingrosso indeboliscono molto la pretesa che questa sia un’operazione dotata di senso concreto, ma che soprattutto apre la strada – nella parte più retrograda dell’“America profonda” – all’idea che “tutti gli stranieri siano un problema da risolvere con la forza”.
Si tratta di un messaggio quasi mortale per un paese costruito sull’immigrazione, prima dall’Europa, poi dall’America Latina, con in mezzo il periodo dello schiavismo che ha portato negli Usa milioni di africani. Come buttare un cerino in un pagliaio secco. Le conseguenze si vedranno nei prossimi anni, molto probabilmente. Ma qualcosa si sta già vedendo, con il profluvio di bandiere messicane – e persino di qualche falce e martello – lungo la Central Alameda.
In un colpo solo, insomma, gli Stati Uniti stracciano il velo della pretesa “democrazia”, l’alone immaginario della “civiltà superiore”, il castello dei “valori”, quel che restava della coesione sociale “patriottica”, l’attrattività “morale” insieme a quella economica.
Esercitare l’“egemonia” sul mondo, o quantomeno la leadership, in queste condizioni, diventa mission impossible.
Che un’amministrazione della prima superpotenza mondiale sia arrivata a fare tutte queste stronzate insieme, dice molto su quanto grave sia la decadenza complessiva dell’imperialismo Usa. E se per le ragioni economiche sottostanti il discorso può sembrare molto complesso, e inevitabilmente di difficile lettura per i non addetti ai lavori, gli atti politici sono decisamente più chiari.
Se i marines ti servono per difenderti – od offendere, più realisticamente – la tua stessa popolazione, beh, le carte che ti sono rimaste in mano sono solo delle scartine...
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