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01/07/2025

Cori contro l’IDF al festival di Glastonbury, dove non è arrivata la censura vuole arrivare la repressione


Si è concluso il 29 giugno il famoso festival di Glastonbury, nel Somerset inglese. Organizzato quasi ogni anno, si tratta di uno dei più importanti appuntamenti dedicati alla musica e allo spettacolo nella cultura popolare britannica, ma quest’anno è salito alla cronaca per alcuni cori che hanno inneggiato alla morte per le forze armate israeliane (IDF).

La giornata che ha provocato tante polemiche è quella di sabato 28 giugno, che ha visto l’esibizione del duo punk/rap Bob Vylan, subito prima di quella del trio rap irlandese (originario di Belfast) Kneecap. I video diffusi sui social mostrano uno dei due membri di Bob Vylan che intona al microfono “morte, morte all’IDF”, oltre a “Palestina libera dal fiume al mare”.

La BBC ha trasmesso in diretta la performance, e questo ha scatenato immediatamente varie polemiche. Subito dopo l’esibizione, un portavoce del governo ha dichiarato che il ministro della Cultura, Lisa Nandy, ha fatto pressioni sul direttore dell’emittente, Tim Davie, affinché fornisse spiegazioni sull’accaduto.

Il canale si sarebbe affrettato a inserire un avviso per contenuti forti ed espliciti durante la diretta, per poi decidere di togliere l’esibizione dei Bob Vylan dall’iPlayer, la piattaforma on demand per rivedere le trasmissioni televisive in streaming. La pressione politica è giunta, in maniera bipartisan, sia dalla maggioranza sia dall’opposizione britanniche.

Non solo Lisa Nandy, ma anche il ministro ombra degli interni, Chris Philip, in un post condiviso domenica su X, ha chiesto alla polizia di “indagare urgentemente e perseguire penalmente la BBC” che, a suo dire, “sembra aver infranto la legge”. Il primo ministro Keir Starmer ha detto che si è trattato di un “discorso d’odio terrificante”.

A fare eco a Downing Street è stata la stessa organizzazione del festival, che ha condannato le dichiarazioni del duo rap/punk e ha dunque ribadito che a Glastonbury non c’è spazio per antisemitismo, incitamento all’odio o alla violenza. Anche l’ambasciata israeliana in Gran Bretagna è intervenuta sull’accaduto, affermando di essere “turbata dalla retorica incendiaria e di odio espressa sul palco”.

Si nota qui il ricorso all’apparato penale dei ‘crimini d’odio’, ovvero tutti gli atti di violenza commessi contro le persone in virtù della loro appartenenza – anche solo presunta – a un determinato gruppo sociale, etnico, religioso, e così via. Il collegamento è qui reso esplicito da coloro che hanno organizzato l’evento, i quali hanno parlato di ‘antisemitismo’, associandolo alla citazione delle IDF.

Pur non avendo le competenze per addentrarci in un discorso in punta di diritto, sembra piuttosto difficile affermare che parole dirette verso delle forze armate di uno stato, per quanto dure possano essere, si configurino come espressione di odio verso l’intero popolo ebraico, che comunque non è racchiuso e non è rappresentato nella sua totalità dalle istituzioni di Tel Aviv.

Ma al di là del discorso ‘legalitario’, quello che qui ci interessa è sottolineare l’utilizzo flessibile di tali strumenti giuridici, per reprimere chi porta una visione alternativa a quella dominante, e per censurare le espressioni culturali, anche quando queste sono così radicali da scuotere il perbenismo dell’Occidente, che mentre condanna la violenza a parole arma un genocidio nei fatti.

Infatti, l’attacco ai Bob Vylan va compreso in una più generale opera di censura, collegata all’attribuzione di un pericolo terroristico a tutti coloro che si mobilitano su di un piano più prettamente politico... come del resto visto di recente anche in Italia. In una concezione per cui ‘terrorista’ è sempre e solo il ‘nemico’ dell’ordine occidentale in decadenza.

Opera di censura che nello stesso festival di Glastonbury ha visto un campo di battaglia che andava ben oltre le parole sull’IDF. Dopo i Bob Vylan hanno suonato i Kneecap, e la BBC aveva già deciso di bloccare le trasmissioni in diretta durante la loro esibizione, asserendo che era una scelta frutto di linee editoriali.

In realtà, come per il caso poi scoppiato sabato, si è trattato di un’operazione tutta politica sui contenuti che il concerto avrebbe dovuto veicolare. Infatti, nei giorni precedenti al festival, l’organizzazione aveva subito pressioni da parte di Starmer affinché il gruppo irlandese fosse escluso dal concerto nel Somerset.

Stando alle informazioni riportate dal The Guardian, 30 dirigenti dell’industria musicale avevano scritto una lettera agli organizzatori di Glastonbury per spingerli a togliere i Kneecap dalla scaletta. In risposta, oltre 100 musicisti hanno poi firmato una lettera a sostegno del gruppo.

La scusante per tentare di escludere gli irlandesi è stata quella per cui Liam Óg Ó hAnnaidh, noto col nome d’arte Mo Chara e membro del trio, è sotto indagine da parte dell’antiterrorismo britannica, con l’accusa di aver inneggiato, in precedenti occasioni, ad Hamas e a Hezbollah, considerate organizzazioni terroristiche dalla legge di Londra.

Ricordiamo, però, che il processo deve ancora svolgersi, e il cantante dovrà presentarsi in tribunale il prossimo 20 agosto. Ma di nuovo, andando oltre il discorso puramente legale, l’obiettivo era quello di evitare l’espressione di un gruppo che si è presentato al pubblico dicendo: “il primo ministro del vostro paese, non del nostro, ha detto che non voleva che suonassimo, quindi fanculo Keir Starmer”.

A preoccupare ancora di più è la valutazione complessiva che i Kneecap fanno della loro lotta e di quella palestinese. Il gruppo è legato al movimento per l’indipendenza dell’Irlanda del Nord dal Regno Unito, e associa tale impegno di liberazione alla causa palestinese in quanto entrambi espressione di una resistenza anticoloniale.

È questo messaggio di rottura rispetto alle fondamenta dell’impianto imperialistico, tanto sull’isola irlandese quanto in Medio Oriente, che non può essere accettato da Londra. Senza considerare l’evidente preoccupazione per la diffusione di un generale sentimento di solidarietà con la resistenza palestinese, che è stato visibile al concerto stesso.

Ieri sera, sia i Bob Vylan sia i Kneecap sono finiti ufficialmente sotto indagine penale (ai primi il Dipartimento di Stato USA ha persino ritirato i visti per il paese). Ma se i cinque musicisti sono stati colpiti è per renderli un esempio di repressione, e per nascondere dietro il sensazionalismo mediatico che, a Glastonbury, oltre a loro, era pieno di solidali e bandiere palestinesi. Anche la cantante britannico-turca Nilufer Yanya si è esibita sullo sfondo di un’enorme scritta “Palestina libera”, srotolando anche uno striscione sul tema.

Usando come clava i ‘reati di odio’, si vuole mettere a tacere una diffusa rottura, agita tutta su di un piano prettamente politico come è quello del genocidio e del legame diplomatico, economico e militare con Israele, con le narrazioni occidentali di una egemonia che si è ormai sciolta di fronte a crimini continuamente commessi e giustificati.

Mentre i vertici di Londra si indignano per qualche frase detta da un palco, il governo sta procedendo a inserire l’organizzazione Palestine Action nell’elenco delle realtà terroristiche per le sue azioni di sabotaggio dell’industria bellica britannica e del suo aiuto ai sionisti. Centinaia di personalità del mondo della cultura hanno già sottoscritto un appello per impedire questo ennesimo atto di repressione.

Alcuni, giustamente, hanno sottolineato come, nel 2004, fu proprio Starmer a rappresentare legalmente Josh Richards, attivista che aveva sabotato un bombardiere diretto in Iraq. L’attuale primo ministro, allora, aveva affermato che le azioni del suo assistito erano legittime, in quanto dirette a impedire una guerra illegale.

In un paese multietnico come il Regno Unito, che è tale proprio in virtù del suo passato coloniale, la questione Palestina suscita ancora più timori, perché sul colonialismo sionista può svilupparsi ulteriormente la coscienza dell’architettura ancora fortemente razzista della società occidentale. Ma processi del genere li abbiamo visti anche in Italia, nonostante la sua ‘multietnicità’ sia molto diversa da quella britannica.

Rimane il fatto che il genocidio dei palestinesi ha sancito in sempre più ampi settori della società, e innanzitutto tra quelli popolari, la distanza insanabile tra le classi dominanti e i suoi rappresentanti, e la maggioranza della popolazione. Persa l’egemonia, non basterà la repressione a ricucire il rapporto. Anzi, allargherà la faglia, in cui chi vuole un’alternativa dovrà inserirsi.

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