Alla fine, il concerto del maestro russo Valery Gergiev, previsto per il 27 luglio alla Regia di Caserta nell’ambito della rassegna “Un’Estate da Re”, è stato annullato.
Non per motivi artistici. Non per mancanze organizzative. Ma per un linciaggio politico-mediatico orchestrato dall’europarlamentare del Pd e vicepresidente del Parlamento europeo, Pina Picierno – vero killer delle élite euroatlantiche – con la complicità della borghesia intellettuale nostrana e della sua servile burocrazia istituzionale.
Il Governatore della Campania Vincenzo De Luca, unica voce rimasta tra i dem a contestare la follia guerrafondaia che attanaglia Unione Europea e Italia (pensate come sta messa la sinistra istituzionale in questo Paese...) ci aveva provato a confermare l’evento e a contrastare il diktat in stile Min.Cul. Pop. della Picierno & co., ma a nulla sono valsi i suoi sforzi.
Dietro la scusa della “protesta ucraina” si nasconde un’operazione di puro allineamento geopolitico, degna dei tempi più oscuri della Guerra Fredda e del maccartismo.
Non importa che Gergiev sia uno dei massimi direttori d’orchestra viventi, con un curriculum che farebbe tremare di invidia qualsiasi battilocchio da conservatorio europeo.
Quel che conta è che è russo. E non russo “oppositivo”. Non dissidente da talk show occidentale. Ma russo “sovranista”, vicino a Putin. Quindi un nemico.
In tempi di guerra, anche l’arte va sottoposta a censura militare. Così funziona nella cosiddetta democrazia liberale.
Tuttavia a destare scalpore non è la condanna in sé – che potrebbe essere anche legittima e coerente con una visione etica dell’arte – ma l’evidente asimmetria con cui questo principio viene sistematicamente applicato.
Lo stesso rigore morale non si riscontra, ad esempio, nel trattamento riservato ad artisti israeliani o a istituzioni culturali che rappresentano lo Stato sionista responsabile della macelleria genocida sulla Striscia di Gaza.
In quanto marxisti non abbiamo una visione idealistica e astratta dell’arte e della cultura. Sappiamo benissimo che il terreno della battaglia delle idee è pietra fondante della lotta per l’egemonia e del conflitto di classe.
Non concepiamo la cultura e l’arte come espressioni asettiche, sganciate dai contesti storici, politici, economici, sociali e persino etnici. Non riteniamo sia giusto parlare di cultura e di arte in senso univoco e assoluto.
Riteniamo la cultura, in tal senso, anche una definizione di identità: sia essa di classe, di ceto, di popolo, nazionale. Coefficiente di un potere egemonico o di un antagonismo alle sovrastrutture dominanti. Riteniamo insomma che si debba parlare di culture e forme d’arte plurali.
Peraltro, sappiamo benissimo che in questo momento il movimento comunista sconta un arretramento gravoso sul piano ideologico, dovuto non solo alla sconfitta seguita alla caduta dell’URSS ma anche ad un vero e proprio smantellamento teorico operato in seno alle stesse sinistre.
Le nostre istanze, la nostra visione, la nostra cultura di classe non hanno voce. Non trovano, se non in rarissimi casi, spazi adeguati. Non riescono a praticare insomma contro-egemonia.
Purtuttavia non possiamo rassegnarci alla resa. Non possiamo non denunciare quella che riteniamo una deplorevole discrasia tra i principi altisonanti da sempre pronunciati dalle democrazie occidentali proprio nel merito delle manifestazioni culturali: ovverosia proclamandone la libertà dai vincoli del potere e della politica; ed una realtà che ha invece, oggi più di prima – la censura e il controllo lo stato borghese li ha sempre sistematicamente messi in atto, non raccontiamoci balle – tradito quegli stessi postulati di libertà.
In poche parole arte e cultura sono oggi, nell’Occidente euroatlantico, sotto occupazione militare.
La vicenda del direttore Gergiev delinea in buona sostanza lo specchio della decadenza ideologica dell’Europa, trasformata in braccio armato dell’imperialismo Nato anche sul terreno della musica e dell’estetica in generale.
Il potere occidentale, incapace di sostenere un vero confronto tra visioni del mondo diverse, cancella il dissenso anziché rispondervi. Anche quando quel dissenso non parla, ma dirige un’orchestra.
A nulla sono servite le ridicole dichiarazioni di circostanza del ministro della Cultura Alessandro Giuli – altra figura grottesca, ex ideologo della destra postfascista – che oggi finge equilibrio tra “libertà d’arte” e “protezione dei valori occidentali”.
La sua conclusione, in perfetto stile orwelliano, è infatti che l’arte può essere libera solo se non contraddice la narrazione dominante.
E così la Reggia di Caserta e la sua direzione divengono pedine di una strumentalizzazione scandalosa, posta in essere per mettere al bando l’artista indesiderato. Roba da Restaurazione. Da Ancien Régime.
Tutto ciò mentre in quella parte di mondo che con una hỳbris da far apparire Prometeo un dilettante, Josep Borrell, l’ex Alto rappresentante UE per la Politica estera, definiva il giardino contrapposto alla giungla – le voci israeliane non solo non vengono silenziate, ma spesso ricevono un’accoglienza protetta, se non celebrativa.
Le stesse istituzioni che si affrettano a cancellare Gergiev o altri artisti russi mantengono una complicità passiva – o attiva – verso lo Stato israeliano, ignorando gli appelli al boicottaggio culturale che da decenni arrivano dalla società civile dell’altra metà del globo.
Ciò che emerge è quindi un evidente doppiopesismo. Un artista russo viene bandito per non aver condannato con forza l’invasione dell’Ucraina, mentre la cultura israeliana continua a godere di legittimità, anche nel mezzo di operazioni militari che hanno provocato decine di migliaia di morti civili. E soprattutto di bambini.
In questo contesto l’arte non appare più come uno spazio di dialogo universale ma come uno strumento di propaganda selettiva, subordinato agli interessi geopolitici dell’Occidente.
Questa dinamica mina la già insussistente credibilità morale delle istituzioni europee che continuano ad ergersi, in un delirio di autoreferenzialità, a giudici etici solo quando conviene loro, facendo emergere tutta l’ipocrisia di una politica culturale che si traveste di valori umanisti rispondendo in realtà a volgari logiche di potere.
Annullare Gergiev viene rivenduto come un “gesto coraggioso”, ma assume toni farseschi se non è accompagnato da una riflessione coerente sulla responsabilità di tutti gli Stati nei crimini contro l’umanità. Indipendentemente dalla loro posizione nello scacchiere internazionale.
Il teatrino della sinistra liberal inscenato dalla Picierno, con l’avallo di Calenda, si è poi ulteriormente “arricchito” delle ancor più invereconde petizioni firmate da alcuni Premi Nobel. Tra essi molti rigorosamente ucraini o bielorussi dissidenti.
A dare il colpo di grazia al concerto sono stati in effetti i panni sporchi dell’intellighenzia occidentale, con i suoi appelli morali.
Premi Nobel che si autoproclamano custodi dell’etica internazionale, petizioni firmate da chi ha imparato a fare opposizione cliccando da uno smartphone, associazioni “di protesta” che comprano i biglietti della prima fila per inscenare contestazioni performative davanti ai fotografi dei giornali di regime.
Tutto regolare, tutto conforme all’estetica del dissenso addomesticato. Un dissenso e una censura esercitati in modo rigidamente selettivo.
Il direttore d’orchestra russo, come l’opera lirica o i romanzi di Dostoevskij, diventa l’oggetto simbolico da sacrificare per dimostrare la propria fedeltà alla nuova religione a trazione NATO.
L’unica voce fuori dal coro – non a caso accusata di “propaganda” – è quella dell’ambasciata russa, che ha giustamente denunciato il danno d’immagine non per Mosca, ma per l’Italia stessa.
E ha ragione. La cultura italiana, già devastata da decenni di tagli, precarizzazione e svilimento mercantile, ora si piega anche a una censura preventiva mascherata da “scelta responsabile”.
L’unico errore dell’ambasciata è pensare che ci sia ancora qualcosa da danneggiare nella dignità culturale di questo paese, quando invece è già tutto compromesso.
Il caso Gergiev è infatti solo l’ultimo tassello di un processo di militarizzazione ideologica della cultura, in cui chi non si inginocchia davanti all’egemonia atlantica viene espulso, silenziato, diffamato. L’ultimo atto di un servilismo culturale atavico.
L’Italia conferma ancora una volta infatti, con questa vicenda, il proprio ruolo subalterno alla Nato e alle logiche di un dominio che non risiedono nei nostri confini.
Non solo nelle basi militari, ma ormai anche nei teatri e nei cortili monumentali si decide chi può suonare, chi può recitare, chi può dipingere. E si decide sulla base della fedeltà all’impero.
L’arte, secondo quei valori liberali che si richiamavano più sopra, dovrebbe configurare uno spazio per la verità, la complessità e la dissidenza.
Quando diventa viceversa un campo di battaglia per l’egemonia non culturale ma morale, allora perde la sua funzione più profonda. Quella di mettere in discussione i poteri, non servirli.
Chi oggi accetta silenziosamente la cancellazione di Gergiev ma tace sui crimini israeliani, non difende la pace ma la guerra. Non difende la cultura, ma la censura. Non combatte l’autoritarismo, ma lo impone con altri mezzi.
L’antifascismo sbandierato dagli ambienti liberal sinistrati si dimostra ancora una volta un involucro vuoto, utile solo a mascherare le logiche più reazionarie del potere occidentale.
La lotta contro l’ipocrisia culturale di questo impero in piena decadenza diventa pertanto parte integrante della lotta contro il capitalismo globale.
Perciò l’arte, se vuole essere davvero libera, deve schierarsi. Non con i governi, ma con i popoli. Non con l’ordine imposto, ma con chi lo sovverte.
Intanto, benvenuti nel mondo libero. Quello in cui la libertà è concessa solo a chi obbedisce.
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