Traduciamo e riportiamo un articolo apparso su Mondoweiss con la firma collettiva di Writers against the war on Gaza, una sigla sotto la quale si riunisce una lunga lista di scrittori, accademici, artisti, giornalisti e anche associazioni. In esso, vengono esposti i legami di 20 tra dirigenti e giornalisti del New York Times con il mondo sionista.
Si tratta di una denuncia degli interessi materiali che si trovano dietro il silenzio o persino il sostegno al genocidio e all’escalation bellica mediorientale promossi da Israele. Un comportamento che abbiamo visto un po’ ovunque: per l’Italia basta pensare agli scomposti attacchi di Molinari a Francesca Albanese.
Ma oltre Atlantico il livello di connivenza raggiunge vette preoccupanti. Un recente articolo pubblicato da The Cradle fa presente che il Wall Street Journal ha pubblicato l’auto-candidatura di un mercenario al soldo di Tel Aviv, coinvolto in traffici di droga e armi con l’ISIS, a governare Gaza una volta completata la pulizia etnica.
Jeffrey Goldberg, caporedattore di The Atlantic, ha servito nelle IDF, come guardia carceraria durante la prima Intifada. Giusto per citare un altro caso. Poi parlano di informazione libera...
Buona lettura.
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Stiamo mettendo in guardia il New York Times. Da quando il genocidio sionista a Gaza è iniziato oltre 20 mesi fa, il “paper of record” (formula per indicare un giornale autorevole, ndr) ha coperto i crimini di guerra israeliani. Abbiamo visto l’entità sionista sganciare bombe da 2.000 libbre sui palestinesi sfollati costretti a sopravvivere nelle tende, massacrare palestinesi affamati nei siti di soccorso, arrestare e torturare palestinesi accusati di aver reagito o di aver somministrato cure, distruggere l’intero sistema sanitario di Gaza, distruggere quasi tutte le sue scuole e università, danneggiare oltre il 90% degli edifici residenziali e impedire l’ingresso di cibo e rifornimenti nella Striscia assediata. Ma i giornalisti del New York Times hanno scelto di ignorare, insabbiare, distorcere o giustificare ciascuno di questi crimini. Come qualsiasi produttore di armi, il New York Times è parte della macchina bellica, producendo, nell’opinione pubblica, l’impunità che consente e sostiene il genocidio in corso da parte di Israele.
Quando occupammo per la prima volta la hall del New York Times nel novembre 2023, denunciammo il rifiuto del giornale di storicizzare l‘Alluvione di Al Aqsa’ (nome dell’operazione di Hamas nell’ottobre 2023, ndr) nel contesto dell’occupazione israeliana della Palestina, durata oltre sette decenni, e la sua scelta di inquadrare il bombardamento militare israeliano di Gaza come una guerra mirata contro Hamas. Chiedemmo al Times di dire la verità. Pubblicammo un nostro giornale, The New York War Crimes, che conteneva i nomi dei martiri palestinesi registrati all’epoca. Ci volle più di un’ora solo per leggere i nomi dei martiri di età inferiore a un anno. Invitammo il nostro pubblico a boicottare il Times; a privarlo del proprio tempo, della propria fiducia e della propria attenzione; e a disdire l’abbonamento alle sue notizie, ai suoi giochi e alle sue ricette.
Non siamo i primi a sottolineare l’impegno del Times nei confronti del sionismo. Il dossier che abbiamo pubblicato questo mese si basa sul lavoro investigativo di testate e organizzazioni, tra cui The Electronic Intifada, Mondoweiss, The Intercept, Fairness and Accuracy in Reporting e di scrittori palestinesi che hanno denunciato per decenni le frodi del “paper of record”. Dal 7 ottobre, tali critiche hanno acquisito un nuovo pubblico e una nuova urgenza. I dati che tracciano le scelte linguistiche in redazione, così come le fughe di notizie sulle direttive editoriali del Times, evidenziano un pregiudizio anti-palestinese. Le correzioni dei titoli del Times sono diventate uno degli strumenti preferiti nei discorsi del movimento di solidarietà con la Palestina – per rivelare il revisionismo, per mettere le cose in chiaro, per dire la verità. Il nostro dossier arricchisce questo corpus di conoscenze: smaschera 20 redattori, dirigenti e giornalisti di alto rango che si occupano della guerra a Gaza e hanno legami con lo Stato sionista, minando ulteriormente il prestigio immeritato del Times.
Natan Odenheimer ha prestato servizio nell’unità commando Maglan delle forze speciali di occupazione israeliane. Ora che è corrispondente da Gerusalemme per il Times, scrive dei suoi ex compagni d’armi e si relaziona con loro. Come possiamo aspettarci che qualcuno scriva correttamente sull’occupazione quando ha indossato l’uniforme dell’occupante per quattro anni? Isabel Kershner è madre di due ex soldati delle IOF e moglie di un altro. Dopo il suo incarico, il marito di Kershner ha diretto il Programma di Strategia dell’Informazione di un think tank israeliano, un dipartimento incaricato di plasmare un’immagine positiva di Israele nei media. Non c’è bisogno di chiedersi come questo rapporto influenzi la sua copertura mediatica: Kershner ha citato il think tank del marito oltre 100 volte da quando ha iniziato a scrivere per il Times nel 2007. Il nostro dossier, che mette a nudo i legami materiali e le alleanze storiche di redattori, dirigenti e scrittori influenti con il sionismo, dimostra chiaramente che il Times è compromesso. L’intera istituzione è sistematicamente organizzata per proteggere Israele dalle responsabilità internazionali.
Il sostegno del Times al sionismo e alla missione coloniale dello Stato colonizzatore nella regione è profondamente radicato nella storia del giornale. AM Rosenthal, a capo della redazione del Times per quasi vent’anni, è stato elogiato al suo funerale per aver dimostrato che era possibile amare Israele “tanto quanto amare il nostro Paese”. Max Frankel, direttore esecutivo del Times per oltre dieci anni, ha ammesso di aver scritto “da una prospettiva filo-israeliana” e ha affermato che ci si aspettava che difendesse Israele “che avesse ragione o torto”.
Il Times ha condannato la nostra ricerca definendola “una campagna vile” sulla stampa, ma si rifiuta di accettare che l’uccisione di oltre 200 giornalisti palestinesi da parte di Israele sia stata un’operazione mirata. Ci rammarichiamo di aver definito il martire Hossam Shabat “collega” di giornalisti d’élite che scrivono la loro propaganda da case rubate nella Gerusalemme occupata. Coloro che prestano servizio nelle IOF, pagati dalla lobby israeliana per diffondere la sua hasbara (propaganda per un’immagine positiva di Israele, ndr), non sono colleghi dei più coraggiosi palestinesi: sono i loro nemici.
La risposta del giornale al nostro dossier impiega la stessa logica contorta presente nella sua copertura: come possono i contenuti della nostra ricerca essere allo stesso tempo “di dominio pubblico” e “inesatti”? Sappiamo perché il Times è rimasto in silenzio sull’uccisione di operatori dei media: i giornalisti palestinesi rivelano la stessa verità che il giornale cerca di oscurare. Vengono costantemente accusati di essere di parte e incapaci di riferire in modo obiettivo perché palestinesi. La loro identità è l’accusa definitiva. Sul Times, l’equità sfugge per i palestinesi e la loro lotta per vivere liberi è illegale, ingiusta e degna di condanna.
“Il New York Times non riconosce la Palestina”, disse una volta un redattore del Times all’intellettuale palestinese Ibrahim Abu-Lughod. Abu-Lughod rispose: “Beh, nemmeno la Palestina riconosce il New York Times”. Il suo rifiuto di riconoscere il Times 37 anni fa è un invito a minarne il prestigio. Tutti dovrebbero ascoltare il suo appello e boicottare, disinvestire e disiscriversi dal “paper of record”.
Per immaginare una Palestina libera nel corso della nostra vita, è utile immaginare un mondo senza il New York Times.
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