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21/07/2025

Genova 2001, il “decreto sicurezza” prima del ddl

Quando si parla di Genova, a più di vent’anni di distanza, si rischia spesso di rimuovere la sua natura più profonda: Genova non fu un incidente, né un eccesso, né una parentesi chiusa. Fu, al contrario, la manifestazione acuta di un conflitto strutturale, il punto di convergenza fra un ciclo storico di restaurazione e un tentativo, embrionale ma reale, delle classi subalterne di riorganizzarsi contro l’ordine globale.

Le radici di quel luglio 2001 affondano nei decenni precedenti. La sconfitta delle grandi lotte operaie alla Fiat nel 1980 chiuse un ciclo: la borghesia italiana, sostenuta apertamente dallo Stato, impose flessibilità, disciplinamento, privatizzazioni. Il PCI, incapace di una strategia autonoma, abbandonò ogni pretesa di egemonia operaia e divenne garante della stabilità repubblicana.

Negli anni Novanta il PDS-DS completò la mutazione: servilmente allineato a Blair e Schröder, si fece gestore delle compatibilità neoliberali, abbandonando le periferie, smantellando il welfare e normalizzando la precarietà.

Napoli, nel marzo 2001, segnalò la vitalità di un nuovo antagonismo sociale. Il Global Forum mise in luce la capacità di mobilitazione di un blocco composito: disoccupati organizzati, centri sociali, studenti, sindacalismo conflittuale. La repressione fu feroce: cariche, arresti preventivi, militarizzazione dei quartieri. Napoli fu il banco di prova di una strategia che a Genova avrebbe trovato applicazione sistematica.

A Genova, nel 2001, la macchina dello Stato si mosse compatta. Il governo Berlusconi II dettò la linea politica: Claudio Scajola, ministro dell’Interno, orchestrò la cornice repressiva; Piero Fassino, dai banchi dell’opposizione, contribuì a legittimare la retorica della “sicurezza” con un linguaggio bipartisan; Roberto Castelli, alla Giustizia, difese pubblicamente l’operato della polizia. Gianni De Gennaro guidò la macchina esecutiva come capo della Polizia, Arnaldo La Barbera coordinò i servizi segreti operativi sul terreno, mentre Francesco Colucci fu la figura formale della questura di Genova.

Tutti, ciascuno al proprio livello, eseguirono la funzione che la gerarchia imponeva: garantire che la sfida lanciata dalla piazza venisse ricondotta alla compatibilità, a qualunque costo.

Il 20 luglio 2001 la città era già blindata, la zona rossa presidiata, le strade militarizzate. Fu in quella giornata che l’ordine di mostrare la forza dello Stato si concretizzò nella sua forma più feroce.

Nel pomeriggio, in piazza Alimonda, la giovane vita di Carlo Giuliani venne spezzata. Ventitré anni, figlio di una famiglia comunista, un ragazzo che aveva scelto di stare dalla parte giusta della barricata. Un proiettile lo colpì al volto, e il suo corpo fu schiacciato sotto le ruote del blindato: la violenza dello Stato non si limitava a disperdere, ma a punire esemplarmente.

La macchina della propaganda si mise subito in moto: la vittima fu trasformata in colpevole, la ribellione in devianza. Per anni Carlo fu descritto come teppista, sobillatore, come se la sua esecuzione fosse la logica conseguenza della sua esistenza. Ma chi guarda la storia dal basso sa che Carlo non fu un errore, ma un segnale: che la giovinezza proletaria, quando si fa soggetto, fa paura. La sua memoria resta, ostinata, fra i caduti della lotta di classe.

Nelle ore successive, decine e decine di manifestanti vennero arrestati, portati a Bolzaneto. Fu lì che la sospensione del diritto divenne regola: umiliazioni, pestaggi sistematici, torture psicologiche e fisiche. Non fu un eccesso, ma una pedagogia della paura: dimostrare che la democrazia cede, senza scrupoli, davanti alla necessità di difendere i rapporti di produzione.

La notte del 21 luglio, infine, fu la Diaz a chiudere il cerchio: l’irruzione più brutale e simbolica. I vertici politici e polizieschi, con De Gennaro, La Barbera e Colucci al comando operativo, scelsero la violenza deliberata: un massacro di corpi e diritti, un tentativo di distruggere la capacità dei movimenti di egemonizzare l’opinione pubblica. La Diaz fu la prova che lo Stato è disposto a calpestare i propri stessi codici pur di riaffermare l’ordine.

Politicamente, Genova rivelò la piena complicità della sinistra istituzionale. I DS non solo non furono in piazza, ma giustificarono la repressione. Rifondazione Comunista, pur intercettando inizialmente la mobilitazione, preferì il compromesso e la governabilità con Prodi, votando missioni militari e austerità.

Nel dopo-Genova, la rabbia restò, ma si fece impotente. La crisi globale del 2008 completò la sconfitta, lasciando spazio alla cooptazione populista.

Il Movimento 5 Stelle fu l’esempio più sofisticato di neutralizzazione. Nei primi anni seppe catalizzare rabbia e diffidenza verso le élite, portando avanti battaglie simboliche: la Val di Susa, l’opposizione a discariche e inceneritori, la denuncia dei privilegi della “casta”. Ma ogni conflitto venne depoliticizzato, svuotato di contenuto di classe, ridotto a “onestà” e “trasparenza”.

Le contraddizioni esplosero quando il M5S si trovò a gestire il potere: la sua partecipazione ai governi Conte e Draghi lo vide convertito da “forza antisistema” a forza d’ordine, amministratore delle compatibilità e garante della disciplina di bilancio. Il movimento che aveva parlato alla Val di Susa firmò documenti di sostegno alla TAV; quello che aveva denunciato le missioni militari ne approvò i rifinanziamenti.

Nei primi anni di governo arrivarono persino a firmare atti formali e a deliberare documenti che avallavano e sostenevano la prosecuzione dei lavori per la TAV Torino–Lione, contraddicendo clamorosamente anni di retorica No TAV che ne aveva alimentato il consenso iniziale. Quell’atto sancì simbolicamente la mutazione definitiva del M5S: da interprete moraleggiante del malcontento a garante della continuità istituzionale.

Oggi la possibilità stessa di una Genova appare remota. Il tessuto organizzativo è frammentato, la repressione è più pervasiva. Il dispositivo giuridico è più sofisticato: ordinanze restrittive, fogli di via, sorveglianze speciali, misure preventive, denunce per devastazione, associazione a delinquere, terrorismo interno.

La giurisprudenza ha criminalizzato picchetti e blocchi stradali, mentre la sorveglianza digitale e la schedatura preventiva isolano e neutralizzano le avanguardie. A livello internazionale, il ciclo delle mobilitazioni globali è stato interrotto: la guerra al terrore, le crisi economiche, la chiusura dei confini hanno legittimato uno stato di eccezione permanente.

Qui sta la lezione più dura e più lucida di Genova. La lotta di classe non conosce scorciatoie: ogni tregua rafforza il nemico, ogni compromesso ne legittima il dominio. La cooptazione è più efficace della repressione diretta: il capitale sa trasformare la ribellione in spettacolo, il dissenso in brand, la lotta in governabilità.

Eppure Genova resta.

Resta come ammonimento: che nessuna mobilitazione può vincere se non è radicata nei rapporti di produzione, se non è organizzata in autonomia, se non ha coscienza storica.

Resta come memoria: che lo Stato, anche nella sua forma più democratica, è sempre pronto a mostrare la propria violenza di classe, sempre pronto a colpire chi minaccia i rapporti sociali.

Resta come promessa: che nessun ordine, per quanto saldo, è eterno; che ogni sistema porta in sé le contraddizioni che possono distruggerlo.

Ma resta, anche, la domanda più amara: sapremo mai, noi, esserne all’altezza? Sapremo trasformare la memoria in forza, la rabbia in progetto, la frammentazione in organizzazione? O resteremo prigionieri delle nostre nostalgie, mentre le classi dominanti continuano a governare l’ingiustizia con la benevolenza dei vinti?

Genova ci consegna, insieme, la più alta delle promesse e la più dura delle sconfitte.

Nulla è più pericoloso per le classi dominanti di una generazione che abbia imparato la lezione di Genova: che la violenza dello Stato non è devianza ma regola; che la sinistra istituzionale non è avanguardia ma complice; che il populismo non è alternativa ma gestione ordinata del malcontento.

Nulla è più temibile di un movimento che abbia imparato a non dimenticare, a non farsi più addomesticare, a trasformare la memoria in organizzazione e la rabbia in progetto.

Genova resta.

Carlo Giuliani resta.

E attende chi saprà, finalmente, farne storia.

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