Con 78 voti favorevoli e 59 contrari, il Senato ha approvato il decreto legge Università e Ricerca, che ora passerà alla Camera. Ci si aspetta che anche lì passerà senza problemi, e si avrà così un ulteriore provvedimento sul mondo dell’accademia e della ricerca scientifica che non tocca assolutamente i suoi problemi fondamentali.
Anzi, sembra che questo decreto sia stato fatto semplicemente per tappare alcune falle, e spostare voci di spesa per far cantare vittoria al governo. Infatti, il punto cardine di questo provvedimento sarebbe lo stanziamento di ulteriori 160 milioni di euro (40 quest’anno, 60 nel 2026 e nel 2027) per gli enti di ricerca posto sotto il Ministero dell’Università.
Ma ecco la prima ‘mezza verità’: questi fondi erano già a disposizione di tali istituti, e sono stati semplicemente trasferiti da un capitolo di spesa a un altro, per dare un’immediata boccata d’ossigeno a un gran numero di programmi che hanno usufruito dei fondi PNRR, e che ora vedranno dunque chiudersi i rubinetti.
15 milioni sono stati prelevati dal Fondo integrativo speciale per la ricerca, 25 dal Fondo italiano per la scienza, 90 dal Fondo italiano delle scienze applicate e infine 30 dal finanziamento del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Non si tratta, dunque, di risorse strutturali, che permettano la stabilizzazione del personale e una programmazione delle attività almeno sul medio periodo.
Negli enti pubblici di ricerca è ormai precario oltre il 50% del personale. Solo per il CNR, già con la scorsa legge di bilancio, era stata sbloccata la possibilità di stabilizzazione, ma le procedure non erano mai state avviate per mancanza dei criteri di selezione. Oggi arrivano 22 milioni di euro spalmati su tre anni, una cifra ancora inadeguata rispetto alle necessità.
È interessante poi che nel decreto venga previsto il Piano d’azione ‘Ricerca Sud’, per cui vengono svincolati 150 milioni di euro. Lo scopo è quello di creare “ecosistemi dell’innovazione” in tutto il Mezzogiorno, che tradotto significa rafforzare la subordinazione degli atenei alle imprese.
Una misura che, tra le altre cose, viene presentata come funzionale a fermare l’emorragia di giovani serve in realtà a sostenere la ricerca, sì... ma del profitto. Bisogna inoltre ricordare che, stando alle dichiarazione dell’Associazione Dottorandi Italiani (ADI), nel 2026 saranno ben 2 mila i contratti di ricerca che scadranno, e saranno soprattutto il Sud e le Isole a subirne gli effetti.
Insomma, sembra che l’unica utilità di questo decreto sarà quella di sanare la situazione dei laureati in Scienze dell’educazione e della formazione primaria, i quali, per vari motivi burocratici, se si erano iscritti all’università prima del 2018-19 non avrebbero potuto diventare educatori nei nidi per la fascia d’età dagli 0 ai 3 anni.
Una vicenda che assume i contorni paradigmatici dello stato in cui versa l’università italiana: tanti giovani con importanti competenze che vengono sostanzialmente cacciati da un paese incapace di qualsiasi pianificazione del proprio sviluppo funzionale agli interessi collettivi.
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