di Marco Codebò
Ferdinando Fasce, Beatles in Italy:De Ferrari, pp. 148, eur0 14,90 stampa
Nel suo Beatles in Italy, Ferdinando Fasce compie un viaggio
a ritroso nel tempo. Lo fa nel senso, ovvio, di narrare un evento del
passato, la tournée dei Beatles in Italia nel giugno 1965. Ma lo fa,
soprattutto, perché quel racconto è una sonda calata nel mezzo della
cultura e del costume italiani degli anni Sessanta.
Nell’estate del 1965 i quattro di Liverpool sono al vertice del
successo. In patria come negli Stati Uniti guidano le classifiche di
vendita dei dischi e riempiono di spettatori i locali dove si esibiscono
dal vivo. Il tour italiano è parte di una serie di esibizioni
nell’Europa mediterranea, Francia, Italia e Spagna, che nei piani di
Brian Epstein, il manager dei fab four, dovranno allargare il
mercato della band oltre i confini dell’anglofonia. Ma in quel tempo il
fenomeno Beatles fa sentire i suoi effetti ben al di là della sfera
puramente musicale, come si può verificare dalla popolarità, in tutto il
mondo, del taglio di capelli da loro adottato. Detta appunto “alla
Beatles”, quell’acconciatura è simbolo sì di identificazione con la
band, ma anche e soprattutto segno che “the times they are a-changin’,
come l’anno prima aveva cantato Bob Dylan.
La forza iconica dei capelli “alla Beatles” e l’adorazione di cui sono
oggetto da parte dei fan segnalano l’esistenza di un mondo giovanile che
possiede valori suoi ed è in grado di diffonderli con strumenti
sconosciuti a chi ne sta fuori. Nella puntuale sintesi di Fasce, i
“Beatles partecipano del continuo, libero, giocoso sconfinamento che
caratterizza con crescente intensità, in un impulso diffuso al rifiuto
delle convenzioni e degli steccati, il decennio. È una circolazione
senza precedenti di persone, esperienze e idee. […] È questo ciò che di
più genuinamente esplosivo la band condivide con anni di grandi fermenti
di liberazione e abbattimento di muri e barriere di ogni tipo” (p. 19).
Il filo conduttore di Beatles in Italy è il racconto del
mancato incontro fra i quattro di Liverpool, che vivono felicemente al
di là degli steccati menzionati da Fasce, e i rappresentanti “ufficiali”
della cultura italiana, giornalisti, critici musicali, scrittori, che
si tengono con attenzione al di qua di quelle barriere. In mezzo,
un’entità ancora misteriosa, la gioventù italiana. Applicando un metodo
perfezionato durante la scrittura di La musica nel tempo. Una storia dei Beatles
(2018), pubblicato da Einaudi, Fasce spiega il mondo giovanile italiano
della metà degli anni Sessanta attraverso una coordinata serie di
dettagli materiali. Si tratta, ogni volta, di punti d’incontro tra
tecnica e cultura, con quest’ultima a inverarsi tanto in oggetti di uso
comune quanto in determinate pratiche sociali. In Italia, tra i primi,
spiccano i juke box, “in nemmeno un decennio cresciuti da 500 a 20.000
unità”, e le radio a transistor, “nel 1965 nelle mani di tre ragazzi su
cinque” (p. 27). Tra le seconde, oltre al massiccio acquisto di dischi
da parte dei giovani (la metà dei 30 milioni venduti nel 1965), si
segnalano tre novità emerse fra il 1962 e il 1965: l’incontrarsi dei
giovani in locali a loro esclusivamente destinati, pratica a cui dà il
via l’apertura a Roma del Piper, i raduni musicali organizzati da Ciao
amici e, infine, l’organizzazione del Cantagiro, una gara canora a tappe
in giro per la provincia italiana. Nel giugno del 1965, “il tour dei
Beatles riassume in sé tutte e tre queste forme di spettacolo” (p. 36).
Fasce descrive con la massima precisione gli elementi logistici,
economici e comunicativi che fanno da contesto alle esibizioni musicali
dei fab four in Italia. Così, dopo aver ricordato come, a
fronte delle 1.000 lire del biglietto più economico per vedere i Beatles
a Milano, il reddito familiare mensile non superasse le 85.000 lire,
Fasce passa a informarci dei luoghi, degli orari e dei presentatori dei
vari eventi, nonché dei musicisti incaricati di scaldare l’uditorio
prima dell’esibizione dei quattro di Liverpool (p. 46). Fra questi
spicca per fama il ventiseienne Peppino Faiella, in arte Peppino di
Capri. Ma tutto questo è solo contorno. I veri protagonisti del racconto
sono i fan, tipi umani fino ad allora sconosciuti in Italia e in
possesso di tratti antropologici sorprendenti, inquietanti per la
stampa. Natalia Aspesi scrive di “un beatle fan milanese medio milanese
maschile ‘fra i 12 e 17 anni, poco incline alla pulizia personale […]
sempre ricoperto di capelli col taglio ispirato a quello dei grandi
maestri di Liverpool’” (p, 55). Ma a Genova sono invece le ragazze a
distinguersi, protagoniste di “una sfida al mondo adulto, e per vie più
sottili e complesse, alla maschilità” (p. 98). Di questa doppia
provocazione sembrano essere coscienti i poliziotti, quando “intimano ai
loro vicini maschi: ‘tenetele d’occhio perché le portiamo via’”
(ibidem). Il rilievo che il protagonismo dei fan assume in Beatles in Italy
è confermato da una sezione del libro che potremmo intitolare
“Sessant’anni dopo”. Si tratta di una serie di interviste, condotte ai
giorni nostri, a spettatori e spettatrici del concerto serale genovese
del 1965.
Assegnare un ruolo di primo piano alle reazioni e ai ricordi dei fan assume un’importanza cruciale in Beatles in Italy,
perché permette al testo, da una parte di esplorare i comportamenti
della gioventù italiana e accertarne la posizione nel già citato
decennio del rifiuto di convenzioni e steccati e dall’altra di
verificare l’incapacità della cultura “alta” di comprenderli. È una
questione di stampa e giornalisti. Tutte le testate italiane, dalle
vette del Corriere della Sera fino a un’assoluta novità come il settimanale per giovani Ciao amici, seguono la tournée dei fab four.
Lo fanno dai giorni dell’attesa, verso metà giugno, fino al bilancio
conclusivo del tour a fine mese, passando per la cronaca delle varie
esibizioni fra il 24 e il 28. Momenti chiave nel lavoro dei giornalisti
sono le conferenze stampa dei Beatles, occasioni in cui l’ironia dei
quattro si incrocia con la saccenza dei reporter italiani: “si scivola
sul difficile” commenta l’inviato del Corsera davanti al “chi è?” con cui John Lennon risponde al nome del poeta russo Evgenij Evtušenko (p. 52).
Le aspettative nascoste con cui la stampa italiana si era avvicinata
alla tourné italiana dei Beatles emergono con chiarezza quando si tratta
di tirare il bilancio, in termini di successo di pubblico, degli otto
concerti: sono andati bene o male? Le risposte tendono in netta
maggioranza al negativo: “Milano ha ridimensionato i Beatles”, “Bravi i
Beatles al Palasport ma la folla non è impazzita”, “Palazzo dello Sport
semideserto” e “Roma ha snobbato i Beatles” (pp. 85, 92, 95, 109). In
realtà il bicchiere avrebbe dovuto risultare mezzo pieno. Il bilancio
finale della trasferta in Italia dice che è stata venduta “la metà dei
biglietti disponibili” (124). Quel che però interessa alla stampa è che
fra i Beatles e la gioventù italiana ci sia stato il minor contagio
possibile e che ragazze e ragazzi girino pagina il più in fretta
possibile. La festa è finita insomma. Ed è importante che sia anche
mezza fallita. Di qui la soddisfazione di notare “che ‘sugli spalti del
Vigorelli c’erano parecchie chiazze grige’”, come si legge sul genovese Corriere Mercantile (p. 86); oppure di sapere, scrive Enzo Rava sul romano Paese Sera, che al teatro Adriano, a Roma, “la prima impressione per chi si affaccia dentro è quella di ‘un vuoto desolante’” (p. 114).
Dalle pagine dei giornali italiani del giugno 1965 emerge un’Italia
adulta del tutto provinciale, tutta tesa a tener fuori lo straniero
dall’immaginario della gioventù di casa. Milano ha ridotto i Beatles, si
legge sul genovese Secolo XIX, “a quello che sono, un fenomeno
anglosassone, una spinta all’evasione per popoli introversi e
complessati quali sono appunto gli anglosassoni”. Meglio allora
archiviare il più in fretta possibile la tournée. “I Beatles sono
divertenti”, scrive Domenico Bartoli su Epoca, ma “i giovani
devono ricordarsi che ‘lo studio è il lavoro’ dei ragazzi, ‘i quali
devono imparare che senza fatica non si va avanti” (p. 126). Insomma i
tempi non stanno cambiando, tutt’altro: i giovani in Italia continuano a
essere dei minorenni incapaci di conoscere se stessi e il mondo, di
immaginare una realtà diversa da quella dei genitori, di dedicarsi a
qualcosa di differente da uno studio matto e disperatissimo. O forse non
era così? Perché le reazioni degli opinionisti italiani a otto concerti
frequentati in tutto da 47.000 spettatori – meno, in quel tempo, dei
paganti in un incontro calcistico di cartello in serie A – segnalano una
preoccupazione nascosta, capace di esprimersi solo per via di luoghi
comuni, e tuttavia reale. È il disagio, appunto, che ai giornalisti
viene dall’intuire che dietro alla popolarità dei Beatles c’è
dell’altro: un’inafferrabile inquietudine giovanile, un malessere che
fino a ieri stava là, fuori dai confini, ma che oggi, chissà, agita
anche i ragazzi e le ragazze della Penisola.
A leggere i giornali del tempo, nulla di particolarmente eversivo accade
durante i concerti dei Beatles nel giugno 1965: solo urla di fan, danze
frenetiche in mezzo al pubblico, qualche svenimento. Anche il prezzo
dei biglietti non viene mai contestato, né vengono organizzati tentativi
di entrare gratis. E dando un’occhiata all’universo giovanile italiano
del tempo, in senso più largo, non vi si rivengono pratiche esplicite
della ribellione, come le comuni dalle convivenze indecifrabili o i
cortei militanti del decennio successivo. Ma in quell’estate
beatlesiana, messa lì esattamente a metà strada fra Piazza Statuto
(1962) e Valle Giulia (1968), qualcosa doveva bollire sotto il coperchio
del conformismo. Allora, forse, il nervosismo con cui la grande stampa
segue i concerti dei Beatles rivela un’inespressa percezione sia delle
fratture profonde che percorrono la società italiana del tempo sia dei
nuovi allineamenti lungo i quali si stanno aggregando soggetti sociali
chiave. Tutti fenomeni incomprensibili per chi li guardasse da fuori,
rimanesse chiuso nella sfera musicale e trattasse i Beatles come quattro
musicisti puri e semplici.
Il merito di Fasce in Beatles in Italy,
allora, è di averci fatti vivere quella tournée senza sciorninarci dati
statistici, riflessioni sociologiche, o letture di pentagrammi, ma
accompagnandoci a fare esperienza diretta dei fatti, da un albergo a un
palasport, da una conferenza stampa a un concerto. Col risultato di
mostrarci la maniera strana e imprevedibile con cui avanza la storia:
perché Peppino di Capri condivideva il palcoscenico di John Lennon, ma i
tempi stavano cambiando per davvero.
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