In una cerimonia ufficiale svoltasi il 17 luglio a Dakar, capitale del Senegal, la Francia ha restituito al paese africano le due ultime basi in cui erano presenti sue forze militari. Finisce, dunque, la presenza transalpina in Africa occidentale, dopo alcuni anni in cui Parigi ha dovuto registrare una sconfitta strategica dopo l’altra del sistema della Françafrique.
Il capo di stato maggiore delle forze armate senegalesi, Mbaye Cissé, ha affermato che questo evento arriva al “culmine di diversi mesi di discussioni amichevoli e fraterne” e che il partenariato di sicurezza tra i due paesi continua. Ma ha anche sottolineato che ora la volontà è quella di consolidare “i numerosi successi ottenuti lungo il percorso verso l’autonomia strategica”.
Una tale posizione può essere compresa solo nella cornice più ampia delle vicende del Sahel e dell’Africa occidentale, dal Covid in poi. I nuovi governi che ora guidano Burkina Faso, Niger e Mali hanno costituito l’Alleanza degli Stati del Sahel e si sono posti in netta rottura con la tradizionale dominazione neocoloniale francese.
La rottura dello stallo mondiale, frantumatosi con la guerra in Ucraina, ha visto l’emergere di un mondo multipolare e, con esso, nuove opportunità di emancipazione rispetto ai precedenti padroni coloniali. Ciò non ha fatto che accelerare il processo di espulsione dei militari francesi da tutta la zona occidentale dell’Africa.
Dopo i tre paesi citati, anche il Ciad ha chiesto e ottenuto, all’inizio dell’anno, il ritiro dei soldati transalpini. Lo stesso ha fatto anche il Senegal dove, dal marzo 2024, al governo c’è Bassirou Diomaye Faye. Si tratta del presidente più giovane che il paese abbia mai avuto, e anche una figura di rottura col passato: basti pensare che fino a una decina di giorni prima dell’elezione si trovava in carcere...
Tale rottura è evidenziata anche dal tentativo attuato da Macron di salvare le apparenze della grandeur francese, quando lo scorso gennaio aveva detto a vari ambasciatori che Parigi non si stava ritirando dall’Africa, ma si stava semplicemente “riorganizzando”. La risposta era arrivata poco dopo dal primo ministro senegalese Ousmane Sonko, che ha ricordato il ruolo francese nella destabilizzazione di buona parte dell’Africa sopra l’Equatore, con conseguenze disastrose per la sicurezza.
Bisogna sottolineare che la strategia dei paesi della regione non prevede la cesura definitiva di ogni legame, nemmeno di quelli nel settore militare e della sicurezza. Prendendo ad esempio il Senegal, Parigi è ancora il principale investitore estero, con 3,5 miliardi di euro per 250 progetti nel paese africano.
Ma è sufficientemente chiaro che l’Africa occidentale non è più terreno di dominio europeo, per interposta presenza francese. Basti pensare che, proprio a fine giugno, Sonko si è recato a Pechino per firmare un partenariato strategico finalizzato a rafforzare la cooperazione nel Sud Globale.
L’area del Sahel rappresenta una regione fondamentale per la proiezione dell’imperialismo europeo, sia per le risorse che possiede, sia per il ruolo di gestione dei flussi migratori verso la più vicina periferia europea del Nord Africa. Perderla è un duro colpo, e oggi i militari francesi rimangono solo in un campo d’addestramento condiviso col Gabon, sulla costa atlantica centrale del continente, e in Gibuti, nel Corno d’Africa.
Se ne sono andati anche dalla Costa d’Avorio, anche se qui la decisione non è stata unilaterale, ma probabilmente concordata una volta che è stato considerato il clima politico generale della regione, in vista delle elezioni del prossimo autunno. Il paese rimane uno degli ultimi appigli francesi nella zona, anche se i suoi politici hanno cominciato a guardare con più interesse oltre l’Atlantico.
Ad ogni modo, le votazioni autunnali rappresenteranno un altro momento fondamentale per la definizione degli equilibri in una parte non piccola dell’Africa, e dunque degli equilibri nelle crescenti tensioni della competizione globale.
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