Rumore e ritmo
A differenza della maggioranza del rock, e del noise rock americano a cui appartengono, gli Helmet del loro esplosivo esordio “Strap It On” (1990) si presentano con una propulsione diversa: è la batteria di John Stanier a incendiare i brani, a spingere avanti l’assalto, a guidare la terrificante guerriglia sonora che portano avanti per 30 minuti di intensità viscerale.
Un drumming al servizio delle canzoni, che punta inaspettatamente sul groove più che sul virtuosismo della velocità e della variazione, proponendo cellule ritmiche abbastanza essenziali da diventare il punto di riferimento dell’ascoltatore, in mezzo ad un arrangiamento assediato dalle chitarre, compresse e cacofoniche, e dal canto ben poco educato di Page Hamilton, una via di mezzo tra un rabbioso bercio hardcore e un angustiato spasmo thrash-metal. D’altronde gli statunitensi Helmet, formati nel 1989 da Hamilton (voce e chitarra; autore di musica e testi), Peter Mengede (chitarra), Henry Bogdan (basso) e appunto John Stanier alla batteria sono al confine tra vari stili del rock duro: radici hardcore, passione per il rumore, muscoli da heavy-metal. Ad ascoltarli li si può ricollegare ai Big Black di Steve Albini, noise-rock abrasivo che dichiara guerra nucleare ai timpani, ma anche al groove-metal dei Prong e persino a certi Pantera. I riff di chitarra spesso stoppati seguono le scansioni ritmiche meccaniche di Stanier e si alternano ad assoli tagliagole con il gain al massimo e l’intenzione di fare più male possibile strapazzando lo strumento. Il basso s’impasta con la batteria e dona corpo, verrebbe da dire peso, al sound. Sopra, la voce di Hamilton urla, agonizza, si agita, richiamando alla mente lo stile tormentato di Henry Rollins e dei Black Flag.
Groove e malumore
L’iniziale "Repetition", a ben ascoltare, già suggerisce il lavorio ritmico che vede Stanier protagonista, ma è un brano fondamentalmente hardcore, che trova il suo punto di svolta nelle accelerazioni perfette per i mosh ricorrenti. Il manifesto di questo approccio ritmico al noise-rock trova candidati molto più quotati in "Rude" e "Bad Mood", un’accoppiata che definisce un sound duro e negativo, rabbioso ma senza nessun vero sfogo.
“Rude”
sembra pronta all’esplosione e invece rimane strozzata, asfittica. È
sempre la batteria che costringe la furia degli altri strumenti in una
gabbia ritmica. I fill e le variazioni riconducono comunque al groove martellante su cui il brano si costruisce.
L'apice
di questra violenza frustrata è cristallizzata in Hamilton che urla il
titolo, attorniato da chitarre elettriche seviziate e ovviamente quel groove che incanala tutta l’energia.
“Bad Mood” è ancora più diretta, nel titolo e nel sound: un riff stoppato e un groove
che picchia ossessivamente, sul punto di deragliare ma poi ricondotto
alla sua corsa dritta contro il muro, qua rappresentata dal finale
truculento di urla e barriti di chitarra.
Altro groove
assassino, "Sinatra" aggiunge il desolante all’angosciante e propone uno
sviluppo più elaborato, con una seconda parte più palesemente violenta e
assordante; non è, per la sua natura più articolata, uno dei brani
tipici di questi Helmet, pur essendo uno dei vertici dell’album.
Un esempio più tipico è "Blacktop", appena più musicale, forse il momento più spettacolare di Stanier nell’album, con l’intero scheletro ritmico costruito su un drum kit essenziale, spremuto fino allo stremo delle sue possibilità. Quando verso il finale il brano sembra lanciato verso una definitiva e clamorosa esplosione, tutto si esaurisce nel ritorno del groove pachidermico e “Strap It On” può dirsi virtualmente concluso: gli ultimi brani non aggiungeranno granché a questa grammatica thriller.
Più metodo e meno istinto
L’album d’esordio degli Helmet è spesso punitivo, rozzo, sgradevole. Prodotto con un budget assai modesto, dura mezz'ora ma alcuni pezzi non erano necessari. Il successivo “In The Meantime” (1992) toglie gli Helmet da quel territorio di confine e li arruola nel metal, pur alternativo e atipico, rifacendo “Strap It On” in modo più professionale anche grazie ad un budget decuplicato. Inevitabilmente, l’intensità cala di una tacca o due, e “Unsung” ha persino un cantato melodico. La produzione, che coinvolge Steve Albini, distingue maggiormente gli strumenti e illumina anche il contributo del basso, praticamente sommerso per quasi tutto l’esordio. La scrittura dei brani più eclettica, sempre in mano ad Hamilton, contribuisce a un album più dinamico, fondamentalmente meno ostile ma comunque assai potente. Incredibilmente, “In The Meantime” venderà qualcosa come due milioni di copie, facendo degli Helmet un'improbabile “next big thing". “Betty” (1994; con un nuovo chitarrista) si allontanerà ancora di più da “Strap It On”, ampliando ulteriormente il loro linguaggio. Nulla che replichi lo scontro frontale con quei groove infernali, che Stanier suonava con furiosa precisione meccanica.

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