Di una cosa ero certo: che il disco di reunion dei Coroner avrebbe preso forma con molta intelligenza. E così è stato. Dispiaciuto per l’assenza nel trio di Marquis Marky, ossia il batterista, che inizialmente era stato coinvolto nelle primissime tournée, mi sono avvicinato a Dissonance Theory pensando a due cose soltanto: a quanto è bella la fica, e al fatto che nessun album dei Coroner assomiglia a un altro album dei Coroner. E pertanto neanche Dissonance Theory sarebbe cascato nel tranello di volere assomigliare a un Grin essendone, trent’anni dopo e oltre, il diretto successore, o a un Punishment for Decadence.
La copertina, però, che è pur bella, ce la mette tutta a instaurare paragoni, con quella banda nera verticale buttata sulla destra, e il logo in alto, con lo stesso pattern grafico presente dai tempi di No More Color.
È il momento di spalare fango laddove ne spalerò tanto per i futuri dieci anni, sempre che riesca a camparli tutti: il pregio del nuovo Coroner è lo stesso difetto che aveva caratterizzato l’ultimo e inconsistente album dei Dark Angel. Da loro volevo un punto di contatto, una somiglianza, un ponte con Time Does Not Heal. Dagli svizzeri non lo volevo affatto: musica nuova, musica diversa, musica che i Coroner potessero proporre nel 2025. Ricorderei anche che il gruppo si era sciolto in un periodo storico in cui, al netto delle innovazioni e evoluzioni apportate al proprio suono, nessuno all’atto pratico se li voleva più cacare di striscio. Oggi i Coroner hanno un senso, e il problema è semmai che si sono presi delle tempistiche particolarmente dilatate: Dissonance Theory, arriva dopo reunion già chiacchierata intorno al 2004/2005, e ufficializzata cinque anni più tardi.
Avevo sentito un singolo d’anticipazione e non mi era particolarmente piaciuto, era un banale thrash metal moderno, lineare e vagamente anonimo. L’album nel suo complesso mi ha esaltato come poche volte mi sono esaltato negli ultimi anni. Le prime tre canzoni sono una legnata: la prima aggressiva e semplice, con un riff portante che mi ha ricordato The Seven Tongues of God e i Nevermore di The Politics of Ecstasy, dopodiché Sacrificial Lamb a evocare i Voivod, e Crisium Bound. Una più bella dell’altra.
Symmetry è il singolo. È moderna, è ascoltabile, e, messa a metà album di un album sino a quel punto infallibile, ha come il compito di alleggerire un po’ il carico. È come se l’ascolto complessivo di Dissonance Theory ne giustificasse appieno la discussa esistenza. Mi sto rendendo conto che sto facendo un odiato track-by-track, per cui ormai lo porto in fondo, dopodiché corro in cantina a flagellarmi i coglioni con uno sparachiodi e con la promessa di non farlo mai più. Perché odio le recensioni track-by-track.
The Law è ciò che gli scribacchini intorno al 2002/2003 avrebbero facilmente etichettato come vorticosa ed evocativa, ma poi accelera, la butta in caciara. Ho sempre visto i Coroner come un qualcosa che girava al cento per cento dal punto di vista dello stile, salvo poi inciampare, non di rado, sulla riuscita delle canzoni. È il motivo per cui tutti li citano come influenza, ma poi siamo all’atto pratico in cinque gatti ad ascoltarne i dischi con una certa frequenza. È come se questa cosa non avessero avuto il tempo materiale per metterla a posto fino, appunto, allo scioglimento in seguito alla pubblicazione di The Unknown (Unreleased Tracks).
Con questo non voglio affermare che Dissonance Theory sia il migliore album dei Coroner, ma sotto alcuni aspetti è esattamente quello, pur non possedendo il peso specifico che poteva avere un Mental Vortex nel 1991 e via discorrendo, e pur non possedendo una Reborn Through Hate, ossia una delle mie personalissime canzoni metal preferite di tutti i tempi.
Ho sentito piovere critiche sul suono di questo album, scarse dinamiche della batteria, un po’ troppa modernità eccetera eccetera. Le solite cose. Sarò sincero: non riesco a immaginarlo con una produzione vecchio stampo. Questo disco ha un suono che gli sta addosso benissimo, perché il suo appeal richiede quello e non un’altra cosa. Ritorno alla premessa: è un album concepito con grande lentezza ma anche con tantissima intelligenza. Il mixaggio è ad opera di Jens Bogren, che se non lo fai lavorare viene a incendiarti la porta del garage mentre stai dormendo.
Transparent Eye sembra una roba alla Meshuggah quando i Meshuggah ancora avevano l’intenzione di farti arrivare vivo in fondo all’album, e smorza tutte quelle stoppate e quelle dissonanze con un efficace ed essenziale ritornello. Tommy Vetterli, anzi Tommy Baron, è il dio dei riff. Quando a metà di Transparent Eye c’è quel ponte aggressivo che anticipa l’assolo, è una goduria clamorosa per tutti noi thrasher che ancora andiamo dallo psicologo per comprendere il male che ci ha appena fatto Gene Hoglan pubblicando un disco. Gli assoli sono bellissimi. Tommy Vetterli, anzi Tommy Baron, è il dio degli assoli. In qualunque stile musicale lui decida di affrontare un assolo, lo fa alla perfezione e lo pensa perfetto per il brano in cui lo vorrà incastrare. Se avete una figlia di sedici anni prego per voi che vi presenti come primo fidanzatino l’eclettico Tommy Baron, con tutte le conseguenze del caso. Almeno ci ragionate di musica a pranzo.
Bella pure Trinity, e qui inizio a tagliare corto, perché poi Charles, che non scrive mai un cazzo da quella bellissima recensione dei Lacuna Coil, ha pure il coraggio di sfracellarmelo perché gli articoli li faccio troppo lunghi, mentre per Renewal si ritorna al discorso stabilito per Symmetry: un po’ banalotta ma proprio per questo in grado di alleggerire l’ascolto, nell’economia di un disco relativamente complesso. Il mio album dell’anno. (Marco Belardi)

Nessun commento:
Posta un commento