Forse non serviva un’altra prova di come (e quanto) gli Stati Uniti abbiano scaricato la guerra ucraina sugli europei, senza peraltro lasciare loro in mano neanche la possibilità di gestire gli accordi di pace, quando ci saranno. Però le ricostruzioni giornalistiche dei colloqui tra Trump e Zelenskij, al di là delle forzature e dei dettagli coloriti, confermano una decisione già presa dagli Usa e che solo dei dementi possono pensare di correggere “volenterosamente”.
La vicenda dei Tomahawk è esemplare di un certo modo di gestire la crisi da parte di Trump. Prima una “svolta” a parole, con un tweet che lasciava aperta la possibilità di concedere quei missili potenzialmente a testata nucleare, sollevando così le speranze della giunta nazista di Kiev e dei guerrafondai europei. Poi la retromarcia vis-a-vis con l’ex attore prestato alla geopolitica, in cui viene ribadito chi è che comanda. L’America e Trump, ovviamente, non il circo barnum europeo.
Fino all’incontro previsto a Budapest – un altro schiaffo a Bruxelles – vedremo probabilmente lo stesso schema con qualche altro diversivo (le sanzioni, i “sono deluso da Putin” e altre sciocchezze inventate lì per lì), anche se diventa sempre più chiaro che la soluzione della guerra al momento non c’è.
Anche il tormentone proposto dal Washington Post – giornale “democratico”, nel senso di Biden – sulla cessione del Donbass e lo stop ai combattimenti sull’attuale linea del fronte, appare inconsistente.
È vero infatti che i quattro oblast russofoni sono ormai in gran parte sotto il controllo russo, e che rovesciare la situazione è del tutto impossibile (l’aveva ammesso persino Zelenskij, un paio di mesi fa, prima di scoprire che poteva chiedere i Tomahawk per far girare l’inerzia della guerra).
Ma è vero soprattutto che gli obiettivi strategici di Mosca alla base della decisione di invadere l'Ucraina sono stati fin qui completamente ignorati dall’amministrazione Usa. E non sono obiettivi “strani” – “garanzie di sicurezza” incentrati sul non posizionamento di vettori nucleari troppo vicini alle principali città russe e sul non ingresso di Kiev nella Nato – anche se di fatto ben poco “negoziabili”.
Senza un trattato molto dettagliato che risolva questo nodo (a altri, comunicati da prima dell’inizio della crisi) è piuttosto difficile che la guerra finisca.
Non a caso qualcuno ha ipotizzato che Cuba potrebbe a questo punto riproporre il colpo del 1962, quando si dispose ad ospitare missili sovietici, aprendo una crisi globale certo momentanea ma fortissima. A quel punto sarebbe forse più chiaro perché nessuna superpotenza – gli Usa, in questo caso, ma neanche la Russia o la Cina – può accettare una minaccia del genere alle proprie frontiere, in barba ad ogni “libera scelta di sovranità nazionale”.
Trump ha ovviamente smentito di aver suggerito la cessione del Donbass, ma non l’idea di congelare l’attuale linea del fronte (è quasi la stessa cosa) dando così ad entrambe la parti la possibilità di dichiararsi “vincitori”. Una presa in giro di Zelenskij, di fatto, perché è difficile fare la parte del vincitore dopo aver perso oltre il 20% del territorio e quasi metà della popolazione (tra Donbass, espatriati, disertori, morti e feriti).
Come del resto ha fatto notare, con la consueta ruvidità, il “falco” Dmitry Medvedev: “Il problema è che l’attuale cricca banderista a Kiev non potrà mai essere vista come “vittoriosa” in patria, in alcuna circostanza. Il ghoul drogato e i suoi tirapiedi lo sanno perfettamente. Perdere territorio non verrà mai perdonato, né dai nazionalisti rabbiosi, né dai rivali politici. Per loro, la fine della guerra significa la fine del regime. Ecco perché la formula di Trump non si applica qui”.
Ma tutto questo dichiarare e poi smentire o menare il can per l’aia non produce molto, se non fracasso mediatico. Una “pace” richiede qualcosa di concreto, che né Trump né Zelenskij, e tanto meno l’Unione Europea, sono in questo momento in condizioni di garantire.
Il disimpegno statunitense, se da un lato priva Kiev di risorse militari e finanziarie importanti, al tempo stesso segna un potenziale calo dell’influenza Usa sulle dinamiche di questo continente. E lo sforzo “europeo” (anglo-francese-tedesco, più polacchi e baltici) di sostituire l’America sul piano finanziario-militare si scontra brutalmente con l’inadeguatezza della UE.
Per quanto rapido e colossale possa apparire lo sforzo di riarmo, infatti, come minimo occorreranno cinque anni per realizzare qualcosa di significativo. Il “piano militare” presentato alla Commissione Europa qualche giorno fa, infatti, dichiara che “Entro il 2030, l’Europa avrà bisogno di una postura di difesa europea sufficientemente forte da risultare un deterrente credibile i suoi avversari, nonché per rispondere a qualsiasi aggressione”.
Ma anche questo piano appare un wishful thinking, visto che lo stesso documento lamenta il fatto che questa spesa “rimane prevalentemente nazionale, portando a frammentazione, inflazione dei costi e mancanza di interoperabilità”.
Continuando su questa strada, insomma, non solo la UE non raggiungerà l’obiettivo di una “difesa unitaria sufficientemente forte”, ma si troverà a che fare con eserciti nazionali potenziati che sono comunque insufficienti a confrontarsi collettivamente con la Russia. Ma abbastanza potenti da essere utilizzabili nella risoluzione di eventuali contese infra-europee.
E con tanti nazionalisti retoricamente “forzuti” che si stanno avvicinando al governo – Le Pen in Francia, AfD in Germania, Vox in Spagna, Farage in Gran Bretagna, oltre a FdI in Italia – questo rischio non è più così improbabile.
E non sarebbe la prima volta nella storia che una “campagna di Russia” preparata da europei poco brillanti (e Napoleone o Hitler erano comunque più “solidi” di Kallas e von der Leyen) finisce in un disastro continentale. Stavolta con il contorno indigesto di testate nucleari a disposizione...
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