Da lunedì a giovedì di questa settimana, a Pechino si svolge la IV sessione plenaria (plenum) del XX comitato centrale del Partito comunista cinese (PCC). Se ti è venuta voglia di cambiare pagina dopo aver letto queste prime due righe, ripensaci: al di là della denominazione stantia, di sovietica memoria (la Repubblica popolare cinese ha costruito la sua impalcatura istituzionale copiando quella dell’URSS), sarà molto interessante seguire questo consesso, e in questo articolo esaminiamo perché.
Anzitutto premettiamo che i plenum tra un congresso nazionale quinquennale del partito e quello successivo sono sette e che il IV è dedicato alle questioni economiche, alla discussione sul piano quinquennale di sviluppo socio-economico (il Piano). E che ciò che i 205 membri effettivi e i 171 supplenti si saranno detti, a porte chiuse nell’hotel Jinxi, dopo l’apertura del plenum nella Grande sala del popolo, lo sapremo attraverso il filtro delle agenzie ufficiali. I plenum sono caratterizzati da un elevato livello di segretezza.
Ma ora veniamo alla prima considerazione che evidenzia l’importanza di questo IV plenum e del Piano quinquennale che verrà discusso, il XV (2026-2030). Nonostante possa sembrare paradossale, per la Cina – una nazione in piena “modernizzazione”, attraversata da un impetuoso sviluppo tecnologico – il vecchio piano quinquennale è tornato più attuale e utile che mai: come strumento per indicare la direzione dello sviluppo socio-economico ai molteplici apparati del Partito-stato, nonché al capitalismo cinese.
Questo per due fattori concomitanti:
- la strategia di Xi Jinping che, da quando si è insediato (novembre 2012), è stata quella di rafforzare il Pcc e le sue istituzioni, tra le quali il Piano rientra a pieno titolo;
- il confronto con gli Stati Uniti, che ha dato ulteriore centralità alla bussola-Piano: in una fase caratterizzata dalla guerra commerciale e dal “containment” politico-tecnologico-militare Usa, per un’amministrazione come quella guidata da Xi il Piano ha un peso specifico maggiore che negli ultimi decenni.
Non a caso il segretario generale del partito, rivendicandone la centralità, ha definito il piano quinquennale un “vantaggio politico unico” della Cina rispetto agli altri paesi.
In risposta a questa capacità di programmazione della Cina incarnata dal Piano, è bene ricordarlo, gli Stati Uniti – a partire dall’amministrazione Biden – hanno riabilitato la politica industriale, cioè il diritto della politica di governare, almeno in parte, l’economia, considerata un’eresia nei precedenti decenni di iper-liberismo.
Importato negli anni Cinquanta dall’Unione Sovietica, sopravvissuto all’irruzione del mercato in Cina un quarto di secolo più tardi, infine rimesso al centro della scena dal leader protagonista di una terza rivoluzione (dopo quelle maoista e denghiana), il XV Piano quinquennale (l’URSS si fermò a 13), dopo essere stato discusso dal plenum, verrà approvato ufficialmente a marzo dall’Assemblea nazionale del popolo.
Detto ciò, è importante chiarire che – anche per la leadership che ha seguìto Xi negli ultimi 13 anni – non si tratta di tornare ai piani maoisti che fissavano irraggiungibili obiettivi e quantificavano nel dettaglio tappe e risultati intermedi per raggiungerli: ciò risulterebbe anacronistico in una fase che lo stesso PCC continua a indicare come caratterizzata da rapidi “cambiamenti mai visti nell’ultimo secolo”.
Piuttosto, il nuovo Piano sarà un mix di:
- indirizzo di politica economica;
- risultati attesi;
- obiettivi vincolanti.
Nei prossimi cinque anni l’economia e la società della Cina dovranno dimostrare se avranno superato lo stress test a cui Xi le ha sottoposte nell’ultimo lustro, segnato dalla “Guerra popolare anti-Covid”, dalla campagna contro “l’espansione disordinata del capitale” (privato), da purghe continue nel partito e nell’esercito, dalla crisi del mercato immobiliare, da uno scontro senza precedenti con gli Usa.
L’ultimo Piano ha accompagnato una fase a dir poco turbolenta ma, nonostante tutto, il Pil del paese è cresciuto in media del 5,4 per cento (in attesa dei dati definitivi sul 2025).
Il XV piano quinquennale sarà chiamato a guidare il paese verso una “modernizzazione socialista di base”, che dovrebbe arrivare nel 2035, con il raddoppio del Pil pro capite (13.400 dollari nel 2024): per raggiungerla, la crescita media dovrà attestarsi ad almeno il 4,5 per cento nel periodo 2026-2030.
Dopo che la Cina, negli ultimi anni, ha sorpreso molti osservatori con i suoi avanzamenti tecnologico-industriali, adesso si apre una fase del tutto nuova, in cui la seconda economia del pianeta è chiamata a consolidare quei risultati, in un quadro di rivalità conclamata e crescente con gli Stati Uniti, decisi a ostacolare la sua ascesa attraverso un “containment” politico-tecnologico-militare.
È chiaro che un simile contesto richiede la ricerca di soluzioni (politiche) più creative, inedite, difficili da praticare e, di conseguenza, sottopone la leadership a uno scrutinio più severo, all’interno e dall’estero. Andare allo scontro o, piuttosto, cercare una mediazione con gli Usa sulle questioni commerciali e tecnologiche così come, ad esempio, la scelta dei settori economici da privilegiare rappresentano in questa fase decisioni cruciali, foriere di conseguenze di grossa portata.
Il secondo motivo per cui questo IV plenum è così importante è che il Piano, tornato così centrale, avrà al suo centro l’innovazione tecnologica. La Cina infatti resta indietro rispetto alle economie più avanzate in settori come i semiconduttori di fascia alta, la meccanica di precisione e i software industriali. Una vulnerabilità diventata più evidente con l’intensificarsi della competizione con gli Usa, che hanno via via inasprito le restrizioni nei settori tecnologici più critici.
Di fronte a questa minaccia, non è sufficiente reagire – come negli ultimi giorni – con le restrizioni all’export verso gli Usa delle terre rare, delle quali la Cina detiene quasi il monopolio, ma è necessario rafforzare quelle filiere industriali hi-tech nelle quali il paese è tuttora dipendente dalle economie più avanzate.
Inoltre, per rafforzarsi la Cina scommetterà sulle cosiddette “nuove forze produttive di qualità”, ovvero sull’ammodernamento delle industrie tradizionali, lo sviluppo di quelle emergenti e la fondazione di quelle del futuro.
Secondo quanto dichiarato da Zheng Shanjie, presidente della Commissione nazionale per lo sviluppo e le riforme (Ndrc), la spesa totale della Cina per la R&S è cresciuta di quasi il 50 per cento tra il 2020 e il 2024, con un incremento di 1.200 miliardi di yuan: un sostegno fondamentale per le industrie emergenti strategiche, dai semiconduttori ai veicoli a nuova energia.
La visione strategica dei leader cinesi negli ultimi dieci anni ha saputo cogliere le industrie del futuro, come, ad esempio, veicoli a nuova energia, pannelli solari, pale eoliche. Anche stavolta la scommessa del Piano sarà quella di individuare in quali nuove tecnologie le imprese cinesi potranno lanciarsi alla conquista dei mercati internazionali (6G, calcolo quantistico, e intelligenza artificiale sono in prima fila).
Il mese scorso la Ndrc ha annunciato di aver istituito un fondo speciale da 70 miliardi di dollari – in grado di mobilitarne 500 – a sostegno di progetti individuati come prioritari, anzitutto quelli nell’ambito dell’innovazione tecnologica.
Non tutto è oro quel che luccica è un proverbio che si adatta perfettamente all’innovazione in Cina. Il paese che procede spedito sperimentando fabbriche intelligenti, robot industriali, intelligenza artificiale (Ia), è infatti lo stesso che sta facendo registrare tassi record di disoccupazione giovanile (18,9 per cento ad agosto).
Gli stessi cambiamenti strutturali che stanno facendo avanzare l’economia cinese stanno bruciando posti di lavoro: l’automazione, l’Ia, le industrie high‑tech a basso impiego di manodopera crescono, ma non compensano il calo occupazionale provocato dalle ristrutturazioni nei settori tradizionali.
Il ministro dell’Industria e della Tecnologia dell’Informazione, Li Lecheng, ha ricordato che la Cina ha messo su il sistema manifatturiero più completo al mondo che vanta, per il quindicesimo anno consecutivo, la più ampia scala produttiva globale, la “fabbrica del mondo” della maggior parte dei 504 principali prodotti industriali ai vertici delle classifiche globali.
Ma il partito dovrà trovare il modo di ridare fiducia agli imprenditori privati che lamentano di essere stati marginalizzati nelle politiche governative degli ultimi anni: si punterà soprattutto su accesso finalmente paritario agli appalti pubblici e a reprimere le angherie dei governi locali nei confronti delle aziende.
Per compensare le ripercussioni del protezionismo statunitense, stimolare i consumi interni è diventata ancora di più una priorità, nel tentativo di riequilibrare un modello tuttora dipendente dalle esportazioni (anche se verso mercati decisamente più diversificati che in passato).
Secondo la Banca mondiale, nel 2024 i consumi interni hanno rappresentato il 56,7 per cento del Pil della Cina, 17 punti in meno rispetto alla media globale. Lo scorso anno, i consumi hanno contribuito per il 44,5 per cento all’espansione del prodotto interno lordo della Cina, con un aumento di 2,2 punti percentuali rispetto al 2023, a conferma che il ruolo della domanda interna resta marginale rispetto agli investimenti e alla produzione industriale.
In linea teorica esiste dunque un ampio margine per spingere i cittadini cinesi ad aumentare la spesa. Più che nei beni durevoli, il potenziale maggiore riguarda i servizi, come dimostra il costante incremento del turismo interno.
Tuttavia, se si vuole convincere una popolazione tradizionalmente incline al risparmio a consumare di più, il nuovo Piano dovrà fornire indicazioni solide su due aspetti cruciali: da un lato una strategia efficace di riduzione delle disuguaglianze (finora affrontate solo con misure parziali o episodiche, come i sussidi per l’acquisto di beni e servizi), dall’altro un rafforzamento del welfare, che includa pensioni, istruzione e sanità.
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