Mentre in Italia tutti allineati e coperti...
Washington, 16 ottobre 2025. Ala ovest del Pentagono. I passi dei cronisti risuonano lunghi, nel corridoio del palazzo delle guerre. Trascinano borse, cartelline, microfoni smontati, videocamere. Hanno appena riconsegnato il pass, il badge di accesso. La tessera che per anni è stata la chiave di un privilegio e di un diritto: raccontare ciò che l’esercito più potente del mondo fa, dice e nasconde.
Da oggi, per entrare al Pentagono, un giornalista avrebbe dovuto firmare un documento che suona come un giuramento: non pubblicare nulla che non sia “autorizzato”. Una parola sola: authorized.
Pete Hegseth, il ministro della Guerra ha parlato di “ordine” e “responsabilità nazionale”. Ma dietro quelle parole i reporter hanno visto profilarsi l’ombra di un bavaglio. Così hanno scelto la via più limpida: lasciare.
La decisione di andarsene è maturata in poche ore. Un comunicato delle principali testate – New York Times, Reuters, CNN, NBC, Fox News – annuncia che non firmeranno. “Non possiamo accettare condizioni che rendono impossibile il giornalismo libero”, scrivono. Poi, il silenzio operativo: le redazioni smontano i computer, spengono i monitor, staccano i badge dalle giacche.
L’immagine di decine di giornalisti che escono ordinatamente dal Pentagono, tra ritratti di generali e bandiere, è già storia. È una fotografia simbolica della crisi della cosiddetta democrazia americana: la stampa, un tempo considerata il “quarto potere”, oggi costretta a scegliere se obbedire o disobbedire.
Hegseth ha promesso che le misure sono “temporanee”, ma i cronisti sanno che la temporaneità è la forma contemporanea della censura. Si comincia così: con un modulo da firmare. E mentre a Washington i giornalisti lasciano il Pentagono, in Italia nulla di simile potrebbe accadere.
Qui la stampa non sfida il potere: lo serve, lo blandisce, lo accompagna. È una stampa educata a chiedere il permesso, a ripetere le veline, a misurare la distanza tra la notizia e la convenienza. Un giornalismo che si è inginocchiato davanti a ogni guerra americana, a ogni NATO story, a ogni narrativa israeliana, fino a cancellare la parola genocidio dal vocabolario collettivo.
Durante lo sterminio a Gaza, quando le immagini dei corpi dei bambini riempivano i canali indipendenti, i telegiornali italiani parlavano di “operazione militare”, di “autodifesa”, di “lotta al terrorismo”. Nessun anchorman ha lasciato lo studio. Nessun inviato ha restituito il tesserino. Nessuna grande testata ha detto: non ci stiamo. La stampa italiana ha scelto il silenzio, la complicità, la moderazione come alibi.
E allora, sì, in Italia non sarebbe mai potuto accadere ciò che è accaduto al Pentagono. Perché il giornalismo italiano è un ramo d’azienda del sistema politico, un apparato addestrato a non disturbare i manovratori.
L’atto dei reporter americani, illumina il buio di chi in Italia tace, di chi nega, di chi si adegua, di chi traduce le stragi in linguaggio burocratico. La libertà di stampa non si proclama, si esercita, anche a costo di perderla.
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